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  • Lunedì 3 luglio 2023

La questione delle banlieue

Il problema alla base delle proteste per la morte di Nahel M. riguarda razzismo, discriminazione e diseguaglianze economiche, e da decenni nessuno riesce a risolverlo

Manifestazione a Parigi, 30 giugno 2023 (Ameer Alhalbi/Getty Images)
Manifestazione a Parigi, 30 giugno 2023 (Ameer Alhalbi/Getty Images)

Dopo le grandi manifestazioni cominciate dopo la morte di Nahel M., adolescente di 17 anni ucciso martedì scorso dalla polizia, la questione del razzismo e della condizione sociale che coinvolge le persone che vivono nelle banlieue del paese sono tornate al centro della discussione politica in Francia.

Banlieue in francese significa “sobborgo”: si tratta delle periferie delle grandi città, quelle dove vivono soprattutto persone migranti o francesi di terza o quarta generazione. Con il tempo la parola banlieue ha iniziato però ad essere usata non tanto per indicare un luogo periferico, ma uno spazio associato a delinquenza, miseria o rivolte. Il doppio significato della parola rispecchia la sua doppia etimologia, ma anche, in un certo senso, la storia di questi luoghi.

«La Francia si rifiuta di riconoscere i propri errori, ancora una volta. E continua a emarginare generazioni di immigrati», ha scritto dopo l’uccisione di Nahel M., che aveva origini algerine, il quotidiano algerino in lingua araba El Khabar. E ancora: «Se Nahel fosse stato bianco con gli occhi azzurri, non sarebbe scappato (…) aveva paura. E se i passeggeri dell’auto fossero stati bianchi con gli occhi azzurri, il poliziotto non avrebbe pensato di sparare a bruciapelo», ha detto Zyed Krichen, direttore del quotidiano tunisino al-Maghreb. «Non si tratta solo del rapporto della polizia con i cittadini, ma anche del rapporto che questo paese (la Francia, ndr) ha con le generazioni di immigrati».

Secondo Zyed Krichen in Francia il sentimento di “hogra“, termine che nei dialetti maghrebini concentra in un’unica parola i concetti di disprezzo, esclusione, ingiustizia e oppressione, «è ancora molto presente».

Banlieue deriva dal latino medievale banleuca, cioè “bannum leucae”, “bando di una lega” e indicava in origine il diritto amministrativo esercitato sui territori che si trovavano solitamente a una lega di distanza dalla città, ma che non facevano parte della città. Con il passare del tempo è prevalso però il significato di banlieue inteso come “ban lieu”, ossia “luogo bandito”, escluso dalla cosiddetta società civile o luogo abitato da persone bandite o “banditi”.

Le periferie francesi sono state create alla fine dell’Ottocento per ospitare le grandi fabbriche e le classi lavoratrici. Sono cresciute rapidamente e spesso in modo disordinato, soprattutto negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, quando il governo francese iniziò a occuparsi di edilizia popolare e a costruire, tra il 1945 e il 1975, migliaia di palazzine alla periferia delle città. Originariamente progettati per le famiglie della classe medio-bassa, questi luoghi erano anche fortemente politicizzati: erano cioè abitati dalla base dei movimenti operai, sostenuti da partiti e sindacati.

Con la crisi del modello industriale negli anni Ottanta, la perdita di forza sociale e politica della classe operaia, l’elevata disoccupazione e poi la fine del colonialismo francese, queste aree furono sempre più occupate da comunità di persone migranti a basso reddito. Come ha spiegato il professore di sociologia all’Università di Bordeaux  François Dubet, con il tempo è venuto meno ciò che permetteva a questi quartieri «rossi» di restare ancora degli spazi interni alla società, compreso il fatto che molte delle persone che vi lavoravano erano anche le persone che ci vivevano. E questa trasformazione ha portato questi quartieri a ghettizzarsi, a diventare luoghi di esclusione.

Oggi circa il 57 per cento dei bambini che vivono nelle banlieue sono in condizione di povertà, i residenti hanno tre volte più probabilità di essere disoccupati, le scuole e le istituzioni sociali sono percepite come estranee e l’isolamento e la discriminazione razziale soprattutto da parte della polizia sono un problema reale.

«La discriminazione non è un fantasma: si misura», ha spiegato Dubet. I dati dicono che un giovane di origine straniera che vive in un quartiere difficile ha molte meno possibilità di un altro di trovare lavoro a parità di qualifiche e competenze. E dicono anche che le sue possibilità di essere fermato dalla polizia sono notevolmente superiori a quelle di un giovane bianco della classe media.

Lo scorso febbraio in Francia si è parlato molto della ricerca che il Consiglio rappresentativo delle associazioni delle persone nere (CRAN) ha presentato all’Assemblea nazionale. L’indagine misurava la percezione e l’esperienza della discriminazione nel paese ed è considerata significativa perché si basa sull’autopercezione e sul vissuto delle persone coinvolte. I dati hanno mostrato che il 91 per cento delle persone intervistate, dunque quasi la totalità, ha detto di essere stata vittima di discriminazione razziale. La maggior parte degli episodi segnalati è avvenuta nello spazio pubblico (41 per cento) o sul luogo di lavoro (31 per cento). E più della metà delle persone intervistate ha detto di avere difficoltà a ottenere un colloquio di lavoro o ad acquistare e affittare una casa.

Ci sono poi altre forme di discriminazione: «Quando la scuola di un quartiere è frequentata da studenti poveri o immigrati o figli di immigrati, le possibilità di successo sono molto inferiori a quelle che si avrebbero in un istituto socialmente e culturalmente più misto: il livello di ambizione è inferiore, c’è meno desiderio di emulazione, ci sono meno relazioni e sostegni famigliari efficaci». Non è dunque necessario, prosegue Dubet, che gli individui o le istituzioni siano esplicitamente razziste perché gli studenti si sentano discriminati: «Lo sono oggettivamente solo per la ripartizione spaziale delle disuguaglianze sociali e culturali. Tutti i giovani di questi quartieri hanno la sensazione di essere prigionieri di un destino sociale e “razziale” immutabile».

Nel corso dei decenni, e già dalla fine degli anni Settanta, i vari governi hanno tentato di intervenire con dei piani specifici per migliorare la situazione delle banlieue e ridurre il divario con altre zone del paese. Negli ultimi vent’anni sono stati spesi più di 60 miliardi di euro per rinnovare le abitazioni, demolire le più fatiscenti, costruirne di nuove, aprire scuole e moltiplicare le linee degli autobus per ridurre l’isolamento di questi quartieri. Ma i risultati dei diversi interventi si sono rivelati tutti piuttosto fallimentari. Questo perché, secondo Dubet, si è agito sulle strutture, ma non su chi le abitava e le abita: «La politica non ha ridotto la segregazione sociale e etnica: gli abitanti di questi quartieri sono sempre rimasti i più poveri e i più precari di tutti». E spesso, anziché migliorare, negli anni le cose sono peggiorate: le singole persone che attraverso gli studi o il lavoro sono riuscite a riscattarsi hanno infatti lasciato il quartiere e sono state sostituite da altre famiglie e da altre persone che, in qualche modo, hanno dovuto ricominciare tutto daccapo e alle medesime condizioni.

Non è un caso, dunque, che la rabbia delle banlieue, compresa quella di questi ultimi giorni, abbia portato a colpire tutto ciò che rappresenta un simbolo dello Stato o del sistema, come biblioteche o scuole, «un simbolo dello Stato che li reprime. Sono infuriati perché le ingiustizie non hanno altra causa ai loro occhi che il “sistema”» dice Dubet.

La prima rivolta delle banlieue risale al 1979: scoppiò in un sobborgo di Lione dopo l’arresto di un adolescente di origine nordafricana. Quella più celebre avvenne però nel 2005: durò tre settimane e iniziò a Clichy-sous-Bois, a nord di Parigi, poche ore dopo che due adolescenti, Zyed Benna e Bouna Traoré, morirono fulminati all’interno di una centralina elettrica nella quale si erano rifugiati per scappare dalla polizia. A Lione nel 2005 e nelle altre decine di rivolte che hanno attraversato il paese c’erano delle costanti: giovani uccisi e feriti dalla polizia o perché avevano avuto a che fare con la polizia e, ogni volta, episodi di saccheggio o vandalismo contro le strutture pubbliche.

Ma l’altra e fondamentale costante, aggiunge Dubet, «è l’impotenza degli attori politici». Se queste rivolte si ripetono praticamente in modo identico e con le medesime rivendicazioni ogni volta, è perché nessuna di esse è stata convertita politicamente: «Tutto accade come se le banlieue fossero in un vuoto politico, come se la rabbia e le rivolte non portassero ad alcun processo politico». Le proteste, anche radicali, delle periferie non hanno cioè mai trovato uno sbocco o una rappresentanza politica: se la sinistra da una parte condanna il razzismo e la violenza della polizia e ne propone un’essenziale riforma, non è dall’altra parte «molto creativa sulla questione delle periferie. Finché rimarremo lì, il faccia a faccia tra giovani e polizia rimarrà la regola, fino al prossimo errore e fino alla prossima rivolta».