Che fine ha fatto il movimento per il libero accesso alle pubblicazioni accademiche

Negli ultimi dieci anni ha perso forza e popolarità, perché internet è cambiata completamente, ma quei problemi sono rimasti

di Viola Stefanello

(Pixabay)
(Pixabay)

Su richiesta dell’Associazione Italiana Editori, a inizio gennaio l’Autorità garante delle comunicazioni (o AGCOM) ha ordinato ai fornitori di connessioni internet che lavorano in Italia di bloccare l’accesso a un sito che si definisce «la più grande biblioteca veramente aperta nella storia umana». Il sito in questione si chiama Anna’s Archive, ed è una cosiddetta shadow library (“biblioteca ombra” in inglese), ovvero una piattaforma che rende facile e gratuito accedere a contenuti che altrimenti sarebbero a pagamento o difficili da ottenere legalmente.

Le shadow library contengono spesso copie digitali sia di contenuti coperti da copyright o paywall (studi accademici e romanzi, dischi e articoli giornalistici, film e videogiochi), sia di opere che non sono proprio accessibili in altro modo, magari perché il governo del paese in cui ci si trova le ha vietate, oppure perché non sono più in commercio.

La persona che gestisce Anna’s Archive, che usa lo pseudonimo “Anna”, stima che la sua “biblioteca” contenga copie di 25,5 milioni di libri e 99,4 milioni di studi accademici, che mette gratuitamente a disposizione di chiunque perché crede «nella libera circolazione delle informazioni e nella conservazione della conoscenza e della cultura». Tra le altre cose, Anna’s Archive permette anche di accedere a tutti i contenuti di altre due grandi shadow library, Libgen e Z-Library, che sono a loro volta state bloccate o addirittura rimosse per via delle leggi contro la condivisione online di contenuti protetti dal diritto d’autore (la cosiddetta pirateria).

Anna’s Archive ha aperto da poco più di un anno – più o meno da quando era stata chiusa Z-Library – ma le shadow library, come fenomeno, esistono da oltre un decennio. Sci-Hub, che è senza dubbio quella a cui fanno ricorso più spesso studenti e ricercatori (sia per motivi economici e di accesso alle risorse, sia perché ha un’interfaccia molto più semplice di quella di gran parte delle biblioteche) fu per esempio fondata nel 2011 dalla ricercatrice kazaka Aleksandra Elbakyan, stanca di cercare trucchetti per aggirare i paywall di tutti gli articoli di cui aveva bisogno per la propria ricerca.

Oggi è uno strumento considerato imprescindibile da milioni di persone, soprattutto da quelle che non lavorano per grandi e ricche istituzioni accademiche che garantiscono l’accesso agli articoli, anche se è da tutti i punti di vista un sito pirata e non si sa esattamente come siano stati ottenuti tutti gli studi che contiene.

L’homepage di Sci-Hub

All’epoca Elbakyan, che definisce Sci-Hub «un progetto apertamente comunista», si inseriva in un’ampia rete internazionale di attivisti per il libero accesso alle informazioni online, e quindi soprattutto alle pubblicazioni accademiche, ma non solo. A distanza di un decennio il movimento si è però svuotato, un po’ perché alcuni dei suoi esponenti più celebri, tra cui Aaron Swartz, furono puniti in modo estremamente severo, che da molti attivisti informatici venne considerato esemplare; un po’ per via di uno scarso ricambio generazionale all’interno del movimento; e un po’ perché è internet stessa a essere cambiata drasticamente, trasformandosi in uno spazio sempre più centralizzato e ad alto valore commerciale in cui gli incentivi a impegnarsi gratuitamente a favore di una causa collettiva sono sempre meno.

Per capire il senso del movimento per il libero accesso alle informazioni online, ma anche della spinta di vari governi, istituzioni e università per la pubblicazione e la distribuzione degli studi accademici senza costi di accesso (l’open access), è importante prima capire come funziona da decenni il mondo dell’editoria accademica.

Le riviste scientifiche, ovvero i periodici su cui sono pubblicati i più recenti studi di una specifica disciplina, ricevono quotidianamente moltissime proposte di possibili studi da pubblicare. Quelli considerati potenzialmente validi vengono sottoposti alla cosiddetta peer review, un sistema in base a cui dei revisori anonimi esperti nello stesso settore, non pagati, leggono la ricerca e ne giudicano la qualità, eventualmente avanzando consigli e indicazioni su correzioni da fare. Diverse riviste chiedono inoltre all’autore dello studio di pagare perché la sua ricerca venga pubblicata sulle loro pagine.

Ormai tutte le principali riviste accademiche hanno una versione digitale. Un altro studente o ricercatore che voglia accedere a uno studio pubblicato in questo modo – e gli studi devono essere pubblicati in questo modo, se l’autore vuole essere considerato un ricercatore credibile e fare carriera – può farlo legalmente solo attraverso un’istituzione che abbia pagato l’accesso a quella rivista (magari la sua università o una biblioteca specializzata) oppure comprando l’accesso al singolo studio.

Studi di venti pagine possono costare anche cinquanta euro, e di solito quando si fa ricerca si ha bisogno di sfogliare decine di studi diversi. Esistono metodi informali e non illegali per ottenere gli studi di cui si ha bisogno: per esempio si può chiedere a un amico o un collega la cui università ha accesso a una specifica rivista il favore di scaricare lo studio per conto proprio, o si può contattare direttamente l’autore della ricerca per chiedere una copia del suo lavoro, ma sono operazioni che richiedono sicuramente più tempo (e contatti) di una semplice ricerca online.

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Il sistema in base a cui le case editrici accademiche non pagano gli autori degli studi che pubblicano né i revisori, guadagnando però tantissimi soldi dagli abbonamenti delle università e dai pagamenti dei singoli che vogliono accedere agli studi, esiste da prima di internet, ed è contestato da parti del mondo accademico da decenni. A livello istituzionale si è cercata una soluzione attraverso la diffusione di pratiche open access, ovvero che permettano la pubblicazione (immediata o più spesso dopo qualche anno) degli studi in formato digitale, privo di restrizioni di licenza, anche se questo ha portato talvolta alla nascita di riviste open access che chiedono ancora più soldi agli autori degli studi che vogliano pubblicare con loro.

A questa rivendicazione, a cui si sono aggregate oggi anche tantissime grandi università, si è affiancato un movimento dal basso che contestava proprio le basi del sistema dell’editoria accademica e, talvolta, del diritto d’autore stesso, almeno per quanto riguarda i contenuti che circolano online. Era un movimento ispirato da varie esperienze e ideologie, dal lavoro degli studiosi sovietici che avevano ottenuto e archiviato libri e studi altrimenti impossibili da reperire durante il periodo comunista alla cultura hacker che si era sviluppata nella Silicon Valley negli anni Novanta, e che si opponeva fortemente all’ingerenza del governo e della legge sulle libertà civili, tra cui la libertà di informazione.

Cory Doctorow, che già allora scriveva molto di copyright e del futuro di internet, riassunse in una serie di punti, in un articolo sul Guardian del 2010, molte delle idee che animavano il movimento. Scrisse che gli attivisti volevano «libero accesso ai dati e ai media prodotti grazie a un investimento pubblico, perché [questo accesso] produce migliore scienza, conoscenza e cultura». Ma anche «essere capaci di citare e fare riferimento a opere del passato, il che è fondamentale per qualsiasi discussione argomentata» ed essere messi nelle condizioni di poter trarre ispirazione dalla creatività di chi era venuto prima di loro. Aggiunse poi che volevano avere «la libertà di costruire e utilizzare strumenti che consentano la condivisione di informazioni e la creazione di comunità, perché questa è la chiave di ogni collaborazione e azione collettiva. Anche se una minoranza di utenti di questi strumenti li usa per scaricare canzoni pop senza pagarle».

Forse il più famoso degli esponenti di questo movimento – decentralizzato, sparso e quasi mai coordinato – fu Aaron Swartz, soprannominato “the internet’s own boy”, “il ragazzo di internet”. Scrittore, programmatore, intellettuale e attivista, Swartz creò la propria prima enciclopedia basata sui contributi degli utenti, una sorta di Wikipedia, nel 1999, ovvero quando lui aveva dodici anni, e due anni prima della fondazione di Wikipedia stessa. Si chiamava The Info Network.

A quattordici anni entrò a far parte del gruppo di lavoro che stava lavorando al protocollo RSS, utile a ricevere gli aggiornamenti di siti web e forum in tempo reale, e dell’organizzazione Creative Commons, che lavorava invece all’ampliamento del numero di opere creative condivisibili e utilizzabili online in modo legale. Contribuì tra le altre cose anche alla fondazione del social network Reddit.

Il nome di Swartz è ancora oggi legato alla storia del movimento per il libero accesso alle pubblicazioni accademiche per due ragioni. La prima è che nel 2008 scrisse il Guerrilla Open Access Manifesto, testo politico molto influente in cui partiva dall’assunto che «l’informazione è potere» per poi affermare che «l’intero patrimonio scientifico e culturale, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, è sempre più digitalizzato e tenuto sotto chiave da una manciata di società private. Vuoi leggere le riviste che ospitano i più famosi risultati scientifici? Dovrai pagare enormi somme a editori come Reed Elsevier». A partire da questo presupposto, Swartz invitava tutti gli attivisti digitali a trovare modi di “liberare” e diffondere quante più opere possibili, con ogni mezzo necessario.

La seconda è che, ispirato da queste convinzioni, Swartz si imbarcò in una serie di azioni che portarono a ripercussioni legali pesantissime, e che ancora oggi vengono considerate responsabili del suo suicidio, avvenuto l’11 gennaio 2013. Prima finì sotto inchiesta da parte dell’FBI per aver pubblicato circa il 20 per cento di un database di documenti giuridici che i cittadini statunitensi potevano consultare solo a pagamento, PACER, a cui lui aveva avuto accesso nell’ambito di una prova gratuita accordata alle biblioteche di tutto il paese.

Poi, nel 2011, il procuratore del Massachusetts lo accusò di aver violato la legge per aver scaricato circa 5 milioni di articoli accademici da JSTOR, una grande biblioteca digitale che all’epoca proteggeva gran parte dei propri contenuti con un paywall, collegandosi segretamente alla rete informatica del Massachusetts Institute of Technology. Tutti i documenti che aveva scaricato erano già di pubblico dominio nella loro versione originale, dato che risalivano ad anni precedenti al 1923, ma le loro versioni digitalizzate erano comunque soggette a copyright.

Non si sa cosa Swartz intendesse fare con quegli articoli – anche se con ogni probabilità voleva semplicemente pubblicarli gratuitamente da qualche parte  – e scaricarli in massa, come stava facendo lui, era al massimo una violazione delle condizioni di utilizzo del sito. Ma contro Swartz furono comunque emessi 13 capi di accusa per frode informatica, punibili con quattro milioni di dollari di multa e 50 anni di prigione, ovvero più di quelli che avrebbe potuto ottenere se avesse aiutato al Qaida a costruire un’arma nucleare. Le discussioni sull’applicabilità o meno della legge in base a cui veniva accusato, il Computer Fraud and Abuse Act del 1984, si protrassero per mesi, ma l’amministrazione Obama si rifiutò di ricorrere in appello alla Corte suprema per risolvere il dubbio. Swartz si suicidò a 26 anni.

«In Aaron Swartz vedevamo in un certo senso la figura che più delle altre aveva canalizzato e dato un corpo a tutte quelle battaglie per liberare le informazioni, che attorno agli anni Dieci e fino al caso Snowden in particolare erano molto forti», dice Philip Di Salvo, ricercatore della School of Humanities and Social Sciences della università svizzera di St. Gallen, che si occupa da anni dei rapporti tra hacking e informazione. «Incarnava l’idea che la rete potesse essere qualcosa di diverso dagli spazi privati in cui ci muoviamo adesso: la rete di Facebook, Instagram e TikTok all’epoca era un pericolo all’orizzonte, ma non era diventata la nebbia oltre cui non si riesce a vedere nulla che è adesso. La sua morte ha in un certo senso decretato la sconfitta di quell’ideale. È finita, e non si sono più intravisti spazi per immaginare qualcosa di diverso da quello che abbiamo adesso».

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La morte di Aaron Swartz, così come le lunghe e dure battaglie giudiziarie contro whistleblower come Edward Snowden (ma anche quella contro la kazaka Aleksandra Elbakyan, che oggi vive nascosta), vengono citate spesso come una “punizione esemplare” contro il cyberattivismo di quegli anni. «Aaron Swartz stava guardando negli occhi una condanna a decenni di prigione per aver scaricato dei PDF. È inevitabilmente una prospettiva centrata negli Stati Uniti, ma non è difficile pensare che quella contro di lui sia stata una punizione che aveva l’intento di fermare un movimento che ci stava facendo sognare pericolosamente qualcosa di diverso», dice Di Salvo. «In quel momento sembrava davvero che il cyberattivismo potesse avere un impatto concreto».

Secondo Andrea Zanni – bibliotecario digitale, ex presidente di Wikimedia Italia e autore, con Bernardo Parrella, dell’ebook Aaron Swartz (1986-2013). Una vita per la cultura libera e la giustizia sociale – oltre alla morte di Swartz ci sono stati diversi altri fattori che hanno fatto scemare l’entusiasmo nei confronti del movimento, se non del cyberattivismo nel suo insieme.

«Da una parte quella gente è cresciuta, è diventata adulta, ha cambiato priorità e smesso di avere molto tempo da dedicare all’attivismo o al volontariato: io stesso ho lasciato Wikipedia perché avevo bisogno di dedicare più tempo alla mia famiglia», racconta. «Come tutte le comunità, poi, c’è stato il problema di educare e trasmettere i valori alle nuove generazioni. In questo senso, l’idealismo di quegli anni si può dire che sia morto, e la lotta per il web libero aveva un estremo bisogno di idealismo».

A suo avviso, molte delle persone che dieci anni fa avrebbero avuto il profilo giusto per diventare cyberattivisti – ingegneri informatici e altri “nerd”, soprattutto – oggi sono molto più incentivati a sfruttare le proprie abilità tecniche per arricchirsi, cercando un proprio spazio nel mondo delle startup o delle aziende legate al settore della consulenza, delle criptovalute o delle intelligenze artificiali, oppure diventando creatori di contenuti e influencer all’interno di piattaforme private che permettono di monetizzare il proprio lavoro in un modo molto più rapido e diffuso di come facessero i blog dieci anni fa.

In questo senso, Zanni individua tre tendenze che hanno trasformato il web in una cosa estremamente diversa da quella per cui lottavano i cyberattivisti dei primi anni Dieci, e da cui è difficile tornare indietro. La prima è la centralizzazione, ovvero il fatto che oggi la schiacciante maggioranza delle persone che navigano su internet passa quasi tutto il proprio tempo all’interno di un numero molto limitato di spazi digitali: soprattutto social network o piattaforme di intrattenimento, che appartengono a loro volta a un numero ancora più limitato di multinazionali, invece di curare un proprio sito web come accadeva spesso all’epoca.

La seconda è la “mobilizzazione”, ovvero la tendenza quasi universale a navigare su internet molto più da smartphone che da computer, il che tende a rendere l’utente più passivo nei confronti degli spazi digitali in cui si muove, mediati necessariamente da app sviluppate quasi sempre da poche persone specializzate.

La terza è la “dopaminizzazione”, ovvero la diffusione massiccia di spazi digitali progettati specificatamente per convincere gli utenti – trasformati spesso in spettatori – a passarvi quanto più tempo possibile, consumando pubblicità di prodotti e alimentando un desiderio di possedere oggetti che è estremamente facile soddisfare. «Dieci anni fa gli incentivi a stare sul web erano molto diversi, meno capitalistici. Era, se vogliamo, un web meno egoista», dice Zanni.

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«In un certo senso, però, abbiamo vinto enormi battaglie», aggiunge. «Il fatto che Wikipedia esista da più di vent’anni, il fatto che Sci-Hub esista e sia considerato imprescindibile da così tante persone, sono cose che diamo per scontate perché ormai le percepiamo come infrastrutture digitali. Non è l’inferno in terra. Non abbiamo perso su tutti i fronti».

Sci-Hub, in particolare, ha il supporto di gran parte della comunità scientifica perché, al contrario di film, musica o serie tv a cui è ormai possibile accedere a prezzi piuttosto bassi su un grande numero di piattaforme di streaming, non esiste un altro modo altrettanto semplice ed economico di accedere a contenuti fondamentali per portare avanti il proprio lavoro di ricerca.

Molti accademici, per di più, vedono l’esistenza di Sci-Hub – che è teoricamente bloccato in diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia, dal 2018 – come una forma di disobbedienza civile contro un sistema che ritengono politicamente ingiusto. «È un esperimento interessantissimo perché dimostra le fallacie del sistema», dice per esempio Di Salvo. «Oltre a essere estremamente utile nel mettere a disposizione effettivamente cose che altrimenti non sarebbero mai state accessibili, andava proprio a dimostrare quanto stupido fosse il sistema di gestione di accessi. Ed è una forma di attivismo estremo, per cui la fondatrice è stata oggetto di tantissime cause legali ed è costretta a vivere di fatto da esule».

Joe Karaganis, autore di Shadow Libraries: Access to Knowledge in Global Higher Education, molto attivo mondo delle organizzazioni che si occupano di accesso alle informazioni, ritiene che tantissime persone continueranno a usare Sci-Hub e le altre shadow library fino a quando mancherà una piattaforma che metta a disposizione grandi masse di libri e studi a un prezzo basso e fisso, come fa Netflix con i film o Spotify con la musica. «Negli ultimi anni ci siamo accorti che quando emergono modelli legali di accesso ai contenuti che hanno lo stesso effetto di gratificazione istantanea che inizialmente si otteneva con i siti pirati, la maggior parte delle persone è contenta di usare quei canali», dice. «Il mondo dell’editoria, soprattutto accademica, si è solo dimostrato molto lento nell’imboccare quella strada».

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