La fine dei siti Internet

Con l'affermarsi di piattaforme e app hanno progressivamente perso centralità e rilevanza, e con loro le persone che li facevano

La homepage del sito personale di Homer in una vecchia puntata dei Simpson
Una scena della serie animata “I Simpson”
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La conservazione dei siti Internet è da oltre un decennio un argomento di discussioni frequenti, perlopiù declinate in termini di responsabilità della selezione dei contenuti e dell’integrità della memoria di archivio mondiale. Dopo che Google ha recentemente annunciato l’interruzione del servizio di caching (una funzionalità che permetteva di accedere a una versione archiviata dei siti), è probabile che il lavoro svolto da organizzazioni come Internet Archive e da altre biblioteche digitali che raccolgono miliardi di pagine web diventerà in futuro ancora più importante.

Un tema affrontato meno spesso, quando si parla del rischio di “perdere” parti di Internet, riguarda la scomparsa parallela – e per certi versi più significativa – degli approcci, delle attenzioni e delle sensibilità individuali che in molte parti diverse del mondo, tra gli anni Novanta e fino ai primi anni Dieci del Duemila, furono fondamentali per la creazione, la condivisione e la popolarità dei siti web. Considerati per lungo tempo la principale e più eterogenea fonte di informazioni su Internet, oltre che il primo punto di accesso per milioni di persone, i siti hanno progressivamente perso centralità e rilevanza a fronte del successo dei grandi portali e in seguito delle piattaforme e delle app dei social media.

Parte di questa evoluzione è a volte descritta come uno degli effetti del passaggio dalle pagine statiche al Web 2.0: un certo modello di Internet diffuso a partire dai primi anni Duemila e basato su strumenti che hanno esteso e reso più semplice l’interazione tra utenti e la produzione e condivisione di contenuti. Alla maggiore semplicità d’uso corrispose una crescente dipendenza degli utenti dai servizi e dalle infrastrutture di grandi aziende come Facebook, Amazon e Google. E corrisposero anche una crescente omologazione dei contenuti e una regressione delle modalità di consultazione basate in precedenza su una paziente “navigazione” tra siti diversi e sul largo utilizzo di link esterni (quelli che portano da un sito a un altro).

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L’ascesa dei blog e successivamente la diffusione ancora più rapida e capillare dei social media, favorita dalla diffusione degli smartphone, resero non più fondamentali gli strumenti e le competenze tecniche in precedenza necessari per aggiornare le pagine dei siti statici. Ma ridussero anche la necessità e la popolarità dei siti – che in molti casi erano a loro volta aggregatori di contenuti di altri siti – a vantaggio di un’esperienza di Internet sempre più centralizzata e mediata da poche piattaforme dominanti. Il coinvolgimento di un numero crescente di utenti da una parte ampliò notevolmente la quantità di dati personali e informazioni disponibili su Internet – per gli utenti stessi, ma soprattutto per le aziende – e dall’altra parte comportò un impoverimento di informazioni distribuite attraverso i siti.

Alcune biblioteche digitali come 404pagefound e Web Design Museum raccolgono le pagine di vecchi siti Internet, molti dei quali non più aggiornati ma ancora attivi, creati tra gli anni Novanta e gli anni Duemila. Consultarle permette di apprezzare la curiosità e l’intraprendenza di autori e webmaster, che erano in molti casi la stessa persona, e i loro tentativi di rendere i siti graficamente riconoscibili nonostante le limitazioni poste dai linguaggi di programmazione dell’epoca. Permette inoltre di cogliere l’eterogeneità degli argomenti e delle informazioni trattate (dai cucchiai-forchetta ai calamari giganti ai bagni delle stazioni di Tokyo), e la condivisa abitudine di aggregare ed elencare contenuti esterni ai siti.

Uno dei siti più vecchi ancora attivi, acme.com, registrato nel 1991 e online dal 1994, è una raccolta aggiornata di software gratuiti (freeware). Un sito italiano simile, programmifree.com, esiste dal 2000 ed è gestito ancora oggi da una sola persona. Un altro sito, il più presente e citato in questo tipo di raccolte, è spacejam.com, prodotto da Warner Bros nel 1996 in occasione dell’uscita del film Space Jam: utilizza tabelle in html e gif trasparenti, e non è mai cambiato.

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Con il passaggio dai siti statici ai social media e alle app è cambiata una parte consistente delle modalità sia di produzione che di fruizione dei contenuti, oltre che il formato. Quelli che ricevono la maggior parte delle attenzioni, che si tratti di testi, video o immagini, sono esplicitamente prodotti per determinate piattaforme, selezionati dalle piattaforme stesse attraverso algoritmi specifici e infine presentati a ciascun utente in uno spazio personalizzato all’interno delle piattaforme (feed e bacheche virtuali).

Lo sviluppatore statunitense Jason Velazquez scrisse a gennaio sul suo blog che questo cambiamento è probabilmente una delle ragioni per cui molte persone hanno oggi la percezione che manchi qualcosa nella loro esperienza di Internet, pur essendo le possibilità di esprimersi online molto più numerose rispetto a 20 o 30 anni fa. «Dove sono finiti tutti i siti?», si chiedeva su X (Twitter) un’utente citata da Velazquez.

In risposta a quel tweet alcune persone attribuivano la responsabilità all’“appificazione” di Internet e all’omologazione dei formati. Altre citavano l’interruzione del supporto dei browser a Flash a partire dal 2020 e la conseguente scomparsa di molti siti e giochi online. Ma in un modo o nell’altro, indipendentemente dalle spiegazioni, tutti erano d’accordo con l’osservazione iniziale dell’utente.

«La buona notizia è che i siti non sono andati da nessuna parte», scrisse Velazquez citandone alcuni dei suoi preferiti, tra milioni che ancora esistono. «La brutta notizia è che siamo noi quelli scomparsi», aggiunse in riferimento alla perdita della «gioia della scoperta» dei contenuti e della capacità di cercarli e gestirli da parte di chi ne fruisce, li aggrega o li produce. Secondo lui, «esternalizzando la scoperta agli algoritmi aziendali», la maggior parte delle persone – non tutte, ma abbastanza da cambiare Internet – ha sostanzialmente barattato l’autonomia delle proprie ricerche con un feed di contenuti infinito.

Chiedersi dove siano finiti tutti i siti, concluse, è in realtà un modo di esprimere una nostalgia per tutti quei «curatori, aggregatori e collezionisti» che «una volta mostravano il meglio che il web avesse da offrire». E allo stesso tempo è un modo di prendere atto della nostra diminuita capacità di «separare il segnale dal rumore»: un lavoro di distinzione e selezione in passato più autonomo, ma poi sempre più spesso gestito dalle piattaforme. L’incapacità è anche in parte una conseguenza del notevole aumento del rumore di fondo, cioè di siti tutti uguali che diluiscono i risultati delle ricerche e le rendono infruttuose, creati sotto la spinta di un sistema di incentivi a uniformare i contenuti e ottimizzarli per i motori di ricerca.

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Un concetto in parte simile a quello espresso da Velazquez è stato recentemente spiegato in articolo sull’Atlantic anche dall’informatico statunitense Ian Bogost, sviluppatore di videogiochi ed esperto di tecnologia. Riguardo all’espressione “navigare su Internet”, in inglese surf the internet, ormai abbastanza desueta, Bogost ha scritto che aveva perfettamente senso all’epoca della massima popolarità di siti e portali che si basavano sull’aggregazione di contenuti di vario tipo.

Internet era ancora percepito come qualcosa di nuovo, e trovare qualcosa di utile era difficile: richiedeva un impegno attivo da parte dell’utente, che di solito trovava per questo molto utili gli elenchi di siti suddivisi per categoria, come quelli proposti dal portale Yahoo. Non è detto che la ricerca portasse poi a una scoperta utile o producesse un qualche tipo di intrattenimento apprezzabile, e anzi spesso non succedeva. Ma in generale, secondo Bogost, l’utente si sentiva effettivamente «come un perdigiorno in spiaggia in attesa di prendere un’onda»: una sensazione in parte simile a quella provata da chi era abituato a fare zapping con il telecomando della tv.

Molte cose cambiarono negli anni seguenti, dopo la rapida commercializzazione di Internet, associata a un parallelo e fondamentale miglioramento delle infrastrutture tecnologiche. Le precedenti limitazioni, secondo Bogost, furono la principale ragione per cui – indipendentemente dalla qualità dei contenuti disponibili – era abbastanza impensabile un fenomeno oggi invece del tutto normale: trascorrere tutta la giornata online.

Navigare su Internet richiedeva l’utilizzo di un computer e implicava nella maggior parte dei casi trovarsi in casa e occupare la linea telefonica. La trasmissione dei dati avveniva a una velocità tale da motivare la segnalazione grafica dei tempi di caricamento delle pagine tramite una barra di stato: «la vita online era perlopiù attesa». E dal momento che ogni clic di troppo comportava un ritardo evitabile i browser distinguevano con due colori diversi i link già visitati da quelli non ancora visitati: «lo fanno ancora, ma non interessa più a nessuno».

Molte altre limitazioni fisiche, dagli schermi piccoli alla grafica a bassa risoluzione, rappresentavano un involontario fattore di deconcentrazione. «Il World Wide Web degli anni Novanta era un posto in cui entravi e rimanevi per un po’ finché non ti sputava fuori», ha scritto Bogost. Era un’esperienza con una fine, che arrivava quando a qualcuno serviva il telefono, quando l’affaticamento della vista prendeva il sopravvento, o quando «l’oceano virtuale non riusciva a generare un’onda che valesse la pena prendere».

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