Le grandi piattaforme sono sempre peggio

Almeno per gli utenti: tanto che per descrivere l'evoluzione di Twitter, Amazon, Reddit e Google si è diffuso il termine “enshittification” (da “shit”, merda)

“Emoji: Accendi le emozioni” (2017) (©Production/Entertainment Pictures/ZUMAPRESS.com)
“Emoji: Accendi le emozioni” (2017) (©Production/Entertainment Pictures/ZUMAPRESS.com)
Caricamento player

Nel novembre del 2022 l’Atlantic pubblicò un articolo dal titolo “L’età dei social media sta finendo”, in cui metteva in fila l’insieme di crisi e trasformazioni che stavano attraversando il settore. Ne sono seguiti molti altri che traevano la stessa conclusione: dopo la crescita – comune a gran parte dei servizi digitali – registrata nel corso della pandemia, infatti, a partire dallo scorso anno molti social network sono stati costretti a ripensarsi e non sempre con successo. La diffusione di TikTok, ad esempio, ha influenzato sia Instagram che YouTube, che hanno creato servizi di condivisione di video brevi in formato verticale. E si è dovuto prendere atto del fatto che una parte sempre più significativa di utenti aveva smesso di usare i social per condividere contenuti, preferendo usare a questo scopo canali riservati ad amici o utenti dagli interessi affini ai propri.

Questa crisi del settore ha spinto alcune aziende a cambiare modello di business, alterando il rapporto ormai decennale instaurato con gli utenti, ma è stata allo stesso tempo causata da una tendenza comune tra le grandi aziende tecnologiche più affermate a voler cominciare a riscuotere grandi guadagni da servizi che hanno avuto successo come aperti e gratuiti, in un progressivo peggioramento dell’esperienza di chi ne fruisce gratuitamente. Lo scorso gennaio il giornalista e romanziere canadese-britannico Cory Doctorow ha analizzato questo fenomeno nel suo blog, dandogli un nome che da allora si è diffuso: enshittification, traducibile in italiano con “andare in merda” o “immerdamento”.

Il termine enshittification indica l’insieme di decisioni che porta una piattaforma di successo a diventare progressivamente meno piacevole e utilizzabile per i suoi utenti, fino a entrare in crisi. «Ecco come muoiono le piattaforme» scrisse Doctorow: «prima trattano bene i loro utenti; poi ne abusano per favorire i loro clienti; infine, abusano dei loro stessi clienti per recuperare tutto il valore per sé stessi. E poi muoiono».

Per capire il processo dell’enshittification può essere utile partire da Twitter. Da quando, nell’ottobre del 2022, è diventato di proprietà di Elon Musk, già capo di Tesla e SpaceX, sulla piattaforma è in corso una travagliata e controversa trasformazione, che a fine luglio è arrivata a interessare il nome stesso del social network, ribattezzato X. Fin da subito, Musk ha puntato sul servizio ad abbonamento Twitter Blue, che esisteva già dal 2021 ma che ha espanso fino a includere la possibilità di comprare la spunta blu – cioè quella che garantisce l’identità dietro i profili di persone pubbliche come politici, aziende, giornalisti e celebrità – e di ottenere una maggiore visibilità nei feed degli altri utenti. L’iniziale lancio del nuovo piano a pagamento voluto da Musk lo scorso dicembre fu accompagnato da una serie di problemi, causati perlopiù dalle cattive intenzioni di utenti che avendo comprato la spunta blu provarono a spacciarsi per importanti aziende o istituzioni, generando confusione.

La gestione di Twitter fatta da Musk ha portato a tagli indiscriminati, alla cancellazione dei sistemi di moderazione dei contenuti e alla riabilitazione di alcuni utenti un tempo banditi dalla piattaforma per aver pubblicato contenuti razzisti, violenti e antisemiti. In pochi mesi l’esperienza di Twitter è cambiata, sia per gli utenti, sia per gli inserzionisti pubblicitari. Secondo quanto detto da Musk stesso circa la metà dei mille inserzionisti principali del sito ha smesso di investire nella piattaforma. Nel frattempo sempre più concorrenti – come Bluesky, Mastodon e Threads di Instagram – hanno provato ad approffittare della crisi di Twitter per imporsi nel mercato.

La crisi attraversata da Reddit invece è di origine diversa: a partire dallo scorso giugno, infatti, Reddit ha smesso di offrire gratuitamente l’accesso alle sue API. La sigla, che sta per application programming interface, indica il sistema di software che consente ad applicazioni e siti diversi di comunicare tra di loro, in questo caso con Reddit. L’accesso alle API di Reddit è sempre stato garantito gratuitamente a tutti, permettendo ad aziende esterne ma anche a ricercatori e accademici di utilizzare i dati relativi al sito per le loro ricerche. La decisione del sito ha costretto molti sviluppatori di software e ricercatori a interrompere il loro lavoro: tra loro, anche il creatore di Apollo, un’applicazione pensata per navigare su Reddit e ritenuta da molti utenti migliore di quella originale.

Mentre Twitter viveva uno dei suoi molti momenti di crisi, per diversi giorni su Reddit c’è stata una grande protesta: le due cose hanno dato a molti la sensazione ancora più fondata che fosse la fine di un’era per i social media. In quei giorni David Pierce, giornalista del sito di tecnologia The Verge, scrisse: «Sta finendo un’era di internet e lo stiamo vedendo succedere in tempo reale».

È in questo contesto che il termine coniato da Doctorow ha preso piede, rivelandosi utile per descrivere un processo di decadimento generale di un intero settore.

Secondo il suo ideatore, il fenomeno è favorito soprattutto dal particolare ruolo delle piattaforme digitali, che «si trovano tra compratori e venditori, tenendo entrambe le parti in ostaggio e trattenendo a sé una fetta sempre più grande del valore che passa da una all’altra». Tra gli esempi di enshittification citati da Doctorow c’è quello che riguarda la ricerca di prodotti su Amazon, azienda che per molti anni ha operato in perdita e si è imposta nel mercato vendendo prodotti spesso sottocosto che venivano spediti a prezzi senza concorrenza. Per riuscirci, il sito ha puntato molto sulla ricerca: «Quando cercavi un prodotto, Amazon faceva il possibile per mostrarlo in cima ai suoi risultati di ricerca», scrive l’autore. A partire dal 2005 (e dal 2011 in Italia), l’azienda ha avviato il programma di consegne veloci Amazon Prime, un abbonamento annuale con cui gli utenti paganti ottengono privilegi come la consegna garantita in ventiquattro ore per molti prodotti. Al contempo ha aperto Amazon Marketplace, un servizio con cui le aziende possono vendere i loro prodotti direttamente su Amazon, sfruttando la piattaforma a loro favore.

Marketplace e Prime hanno agito in sintonia per fidelizzare sia gli utenti che le imprese, rendendo Amazon la scelta privilegiata per chi voleva comprare e vendere merce online. «È a questo punto che Amazon ha cominciato a raccogliere il surplus dai suoi clienti per consegnarli ai suoi azionisti», scrive Doctorow. Dopo aver attirato a sé le aziende, infatti, la società ha cominciato ad aumentare i prezzi del servizio Marketplace e a trattenere una percentuale sempre più alta del prezzo di vendita, sfruttando l’importanza cruciale raggiunta dalla piattaforma per molte imprese. Il peggioramento del servizio ha riguardato anche gli utenti, perché i risultati di ricerca nel sito sono peggiorati essendo sempre più influenzati dalle inserzioni pubblicitarie, un settore che nel 2021 ha generato per la società entrate per 31 miliardi di dollari. Oggi, conclude Doctorow, la ricerca di Amazon non mostra più solo i prodotti più affini a quello che l’utente cerca ma tende a favorire i prodotti i cui venditori hanno investito di più in pubblicità.

A proposito di ricerca nel web, un altro esempio di enshittification citato da Doctorow riguarda la realtà più importante del settore: Google. Da anni, infatti, molti utenti denunciano un notevole calo della qualità dei risultati di ricerca del sito, a causa delle pubblicità invadenti e dei molti siti che sfruttano a loro favore gli algoritmi dell’azienda (la cosiddetta SEO, Search Engine Optimization) per raggiungere le posizioni più alte nei risultati, spesso con contenuti di scarsa qualità. Non è sempre stato così, ovviamente: per molti anni Google ha garantito una ricerca sicura e affidabile nella rete, grazie anche ai principi fissati dai suoi fondatori Larry Page e Sergey Brin. Nel 1998 i due pubblicarono un documento intitolato “Anatomia di un motore di ricerca web ipertestuale su larga scala”, nel quale sottolineavano come la pubblicità potesse avere un effetto negativo in un servizio come Google: «I motori di ricerca che si basano sulla pubblicità favoriranno naturalmente gli inserzionisti a discapito dei bisogni dei consumatori».

La teoria dell’enshittification può essere usata per analizzare lo sviluppo possibile di social network che attualmente godono di ottima salute. Pochi giorni prima della pubblicazione del post di Doctorow, infatti, la rivista Forbes aveva pubblicato un articolo che raccontava una pratica utilizzata da TikTok chiamata “heating”, con cui alcuni dipendenti del social network amplificavano manualmente l’esposizione di un contenuto all’interno della piattaforma. Da tempo molti analisti erano stupiti dell’incredibile popolarità che alcuni video di TikTok erano in grado di raggiungere nell’arco di poche ore: una forma di viralità che si rivelò essere (almeno in alcuni casi) artificiale e decisa dall’alto. Usando lo strumento dell’heating, TikTok ha prima attirato gli utenti tradizionali, poi gli influencer e le aziende, che sono migrati da altri social con la promessa di raggiungere un pubblico molto maggiore.

Secondo le fonti interne all’azienda sentite da Forbes, infatti, «TikTok ha spesso usato l’heating per corteggiare influencer e brand, attirandoli per fargli fare accordi pubblicitari gonfiando le visualizzazioni dei loro video». Stando al ciclo descritto da Doctorow, TikTok si troverebbe nella seconda fase dell’enshittification, il trasferimento di attenzione dagli utenti comuni agli inserzionisti dopo un iniziale investimento sui primi.

La duttilità di questa teoria – oltre che il suo nome memorabile – ne ha favorito una veloce diffusione: nei mesi scorsi alcuni tra i quotidiani più influenti del mondo hanno discusso di enshittification per descrivere il momento di transizione che stanno attraversando molti social network. Il sito di notizie tecnologiche Techdirt ha anche pubblicato una guida pensata per aiutare gli amministratori delegati delle aziende del settore digitale a evitare di riproporre il fenomeno. Tra i consigli citati, c’è ricordare ai propri azionisti e investitori che l’obiettivo è nel lungo periodo, concentrarsi sulla community e «trovare modi di fare soldi che non rovinino l’esperienza degli utenti».

Doctorow ammette la necessità da parte dei social network di convertire parte del loro successo in guadagno economico, spesso con la pubblicità. Ma sottolinea anche che per attirare inserzionisti non è necessario per forza alienare i propri utenti: secondo lui, esiste una forma di enshittification «di successo», in grado di non rovinare per sempre il servizio, ma può essere così «solo se è perseguita in piccole dosi».

Vista la tendenza delle piattaforme al degrado e poi al collasso, conclude Doctorow, la politica dovrebbe concentrarsi sulla libertà d’uscita degli utenti, ovvero «il diritto di abbandonare una piattaforma che sta affondando rimanendo collegati alle comunità che lasci, godendo dei contenuti e delle app che hai acquistato e conservando i dati che hai creato».