• Mondo
  • Domenica 10 dicembre 2023

Non ci aspettiamo sorprese dalle elezioni presidenziali in Egitto

Vincerà il dittatore Abdel Fattah al Sisi, che dovrà però affrontare una situazione economica sempre più grave

Abdel Fattah al Sisi nel 2017 (EPA/CHARLES PLATIAU/ANSA)
Abdel Fattah al Sisi nel 2017 (EPA/CHARLES PLATIAU/ANSA)
Caricamento player

Tra il 10 e il 12 di dicembre, nel corso di tre giorni, si voterà in Egitto per eleggere il presidente del paese. Il risultato sarà annunciato dopo qualche giorno, il 18 dicembre, ma nessuno si aspetta grosse sorprese: il presidente uscente Abdel Fattah al Sisi, che ha preso il potere nel 2013 con un colpo di stato militare e da allora ha governato con metodi autoritari, vincerà un terzo mandato dopo una campagna elettorale determinata da irregolarità e intimidazioni nei confronti degli oppositori.

Le elezioni si sarebbero dovute tenere ad aprile del 2024, ma qualche mese fa al Sisi ha deciso di anticiparle a dicembre: non è stata data nessuna spiegazione ufficiale per questa decisione, ma un’interpretazione piuttosto comune è che al Sisi voglia cercare di ottenere una nuove legittimazione politica prima di mettere in atto le dure misure di austerità e svalutazione della moneta che sono necessarie per far fronte alla gravissima crisi economica che sta attraversando il paese.

– Leggi anche: L’economia dell’Egitto è messa molto male

È impossibile capire di che tipo di legittimità popolare goda davvero al Sisi: in Egitto non esistono sondaggi affidabili sul gradimento dei leader. Un indicatore piuttosto notevole, però, è il costante calo dell’affluenza alle elezioni: nel 2014, alle prime elezioni presidenziali dopo il colpo di stato, votò il 47 per cento degli egiziani e al Sisi ottenne il 97 per cento delle preferenze. Nel 2018 votò il 41 per cento e al Sisi ottenne sempre il 97 per cento. Ma da allora, e man mano che la crisi economica si aggravava, l’affluenza al voto è sempre andata calando: alle ultime elezioni che si sono tenute, quelle del 2020 per il parlamento, ha votato appena il 28 per cento degli oltre 63 milioni di aventi diritto (hanno vinto comunque partiti favorevoli ad al Sisi).

Questo calo dell’affluenza è particolarmente notevole per un paese come l’Egitto, dove in teoria tutti i cittadini sarebbero legalmente obbligati a votare, e se non lo fanno rischiano una multa piuttosto elevata: per questo molti vedono nel rifiuto di votare un tentativo di protesta silenzioso.

Abdel Fattah al Sisi ha 69 anni ed è un ex ufficiale dell’esercito che divenne ministro della Difesa e comandante delle forze armate nel 2011, e che nel 2013 guidò un colpo di stato contro Mohammed Morsi, il primo e unico presidente democraticamente eletto della storia dell’Egitto. Dopo aver preso il potere, al Sisi ha trasformato l’Egitto in una dittatura militare che è ritenuta più dura e oppressiva di quella dello storico dittatore egiziano Hosni Mubarak, che governò il paese tra il 1981 e il 2011. Oggi in Egitto la stampa libera non esiste e l’opposizione sia politica sia civile è repressa con estrema durezza.

– Leggi anche: La deposizione del presidente egiziano Mohammed Morsi

I suoi dieci anni di governo sono stati caratterizzati da una situazione economica in peggioramento continuo: dal 2015 a oggi il numero delle persone in condizione di povertà è passato dal 28 al 33 per cento. La situazione dell’economia egiziana è andata ulteriormente peggiorando di recente: l’inflazione è ai massimi storici, mentre la sterlina egiziana ha perso metà del suo valore nell’ultimo anno e finora quest’anno è stata la moneta con l’andamento peggiore a livello mondiale. La maggior parte degli analisti ritiene che per cercare di risollevare l’economia il governo egiziano sarà costretto a chiedere onerosi prestiti al Fondo Monetario Internazionale e a svalutare la sterlina, con grosse conseguenze per la popolazione.

Nel frattempo, in questi anni il governo ha avviato magniloquenti progetti infrastrutturali, come la costruzione di una nuova capitale amministrativa estremamente sfarzosa.

Al Sisi non avrebbe potuto candidarsi alle elezioni di quest’anno perché aveva già raggiunto il limite dei due mandati previsto dalla Costituzione, ma nel 2019 ha fatto approvare un referendum costituzionale che gli consentirà di rimanere al potere fino al 2030.

Alle elezioni presidenziali di quest’anno nessuno degli altri candidati è una vera minaccia per il regime, anzi: si ritiene che alcuni di loro si siano presentati alle elezioni più che altro per dare la falsa impressione che il voto sia libero e plurale, e che al Sisi abbia degli avversari.

I candidati sono quattro: al Sisi, che si è presentato come un indipendente pur avendo il sostegno implicito di numerosi partiti; il liberale Abdel Sanad Yamama del partito Wafd, che è una storica formazione politica egiziana ormai priva di sostegno popolare; Hazem Omar del Partito Popolare Repubblicano, che è ritenuto un alleato di al Sisi; e Farid Zahran del Partito Social Democratico, anche lui è ritenuto piuttosto vicino ad al Sisi.

L’unico candidato che avrebbe potuto minacciare il potere di al Sisi, l’ex giornalista e parlamentare Ahmed Tantawi, non potrà partecipare alle elezioni.

Tantawi si era candidato ad aprile di quest’anno promettendo riforme e la fine della dittatura di al Sisi, e la sua campagna elettorale aveva suscitato un certo entusiasmo tra la popolazione (sempre difficile da misurare, in assenza di sondaggi affidabili). Nessuno pensava che nel contesto autoritario della politica egiziana Tantawi potesse davvero vincere, ma quanto meno la sua candidatura rappresentava un’alternativa che avrebbe potuto aprire qualche spazio di dibattito e contestazione.

Nei mesi successivi le forze di sicurezza egiziane hanno perseguitato Tantawi e i suoi collaboratori con estrema durezza. Decine di persone sono state arrestate con accuse risibili: in alcuni casi dopo essersi registrate come sostenitrici della campagna elettorale, in altri per aver banalmente messo “like” alla pagina Facebook del candidato.

Per potersi candidare alle elezioni, Tantawi avrebbe dovuto ottenere il sostegno esplicito di 20 parlamentari in carica oppure ottenere 25 mila firme a suo sostegno da almeno 15 dei 27 governatorati (cioè regioni) dello stato egiziano. Tantawi aveva deciso di raccogliere le 25 mila firme – perché ottenere l’endorsement dei parlamentari sarebbe stato un segno di sottomissione al regime – ma gli è stato impossibile. Gli apparati dello stato egiziano lo hanno ostacolato a ogni passo, rifiutandosi di validare le firme e opponendo problemi burocratici alla loro raccolta.

A questo si sono aggiunte le intimidazioni: spesso i comizi di Tantawi sono stati interrotti da picchiatori in abiti civili, che probabilmente erano affiliati alle forze di sicurezza. Il cellulare e le comunicazioni di Tantawi sono stati messi sotto sorveglianza con un software di produzione israeliana.

Alla fine Tantawi è riuscito a ottenere soltanto 14 mila firme delle 25 mila necessarie, e a ottobre è stato costretto a ritirarsi dalle elezioni. La Commissione elettorale egiziana, poco dopo, ha annunciato di non aver rilevato nessuna irregolarità. A novembre Tantawi è stato messo sotto processo dalla giustizia egiziana con l’accusa di aver «fatto circolare documenti relativi all’elezione senza l’autorizzazione ufficiale».