L’economia dell’Egitto è messa molto male

La sua moneta continua a perdere valore, l'inflazione è al massimo storico, le persone sono sempre più povere: anche per questo non intende accogliere i palestinesi in fuga dalla guerra

(Chris McGrath/Getty Images)
(Chris McGrath/Getty Images)
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La guerra nella Striscia di Gaza sta generando enormi conseguenze politiche, sociali ed economiche: non solo per la popolazione direttamente colpita dalle operazioni militari, ma anche per chi abita nei paesi vicini. Da quando è iniziata si discute della possibilità che possa trasformarsi in una guerra regionale, anche per il coinvolgimento di altri paesi o gruppi negli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Se anche la guerra dovesse restare entro i confini di Israele e Palestina, le conseguenze rischiano comunque di essere notevoli anche per i paesi confinanti.

Tra questi quello che rischia di risentirne di più è l’Egitto, che confina con la Striscia di Gaza ma che da settimane si rifiuta di aprire i suoi confini per evacuare i moltissimi profughi causati dagli attacchi israeliani. L’Egitto sostiene di non potersi permettere di accogliere un numero ingente di persone in difficoltà: e sebbene il presidente Abdel Fattah al Sisi non lo dica esplicitamente, c’entra il fatto che il paese stia vivendo una delle crisi economiche più gravi della sua storia.

L’economia egiziana è infatti in condizioni disastrose. La sterlina egiziana ha perso metà del suo valore nell’ultimo anno e finora quest’anno è stata la moneta con l’andamento peggiore a livello mondiale. Il governo è intervenuto in vari modi per cercare di stimolare l’economia, ma senza successo.

Il risultato è stata un’inflazione al 38 per cento su base annuale (il massimo storico: in Italia siamo al 5,4). I prezzi dei generi alimentari sono quelli che aumentano di più e questo sta mettendo in difficoltà una popolazione già molto povera, di cui un terzo vive con un reddito pari a due dollari al giorno (meno di due euro, quindi).

L’Egitto è poi considerato uno degli stati più a rischio di insolvenza al mondo: quasi la metà delle entrate dello stato è destinata a pagare gli interessi del suo debito pubblico, che ammonta al 90 per cento del PIL, e lo stato spesso non è per questo in grado di pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Di recente il Fondo Monetario Internazionale si è anche rifiutato di concedere al paese alcuni prestiti già concordati, perché è convinto che l’Egitto non sarà in grado di ripagarli.

Se si guardano però i dati di crescita del PIL tutti questi problemi non si vedono: secondo i dati della Banca Mondiale nel 2022 l’economia egiziana è cresciuta del 6,6 per cento, l’anno prima del 3,3 e quello prima ancora del 3,6. Ma la crescita è stata alimentata e falsata dall’enorme spesa pubblica dello stato, che ha gonfiato il debito pubblico per ottenere e mantenere il consenso tra la popolazione tramite programmi di spesa generosi e insostenibili. La maggior parte dei problemi economici strutturali dell’Egitto rientrano quasi tutti sotto il grosso ruolo che il governo e l’esercito hanno nella gestione dell’economia: è un approccio molto autoritario e che ha sbaragliato la concorrenza in moltissimi settori.

L’esercito possiede infatti moltissime aziende: stazioni di servizio, impianti per la distribuzione dell’acqua, cementifici. Ha poi il controllo di interi settori, come quello automobilistico, della pesca e di gran parte dei media del paese. Con la sua presenza spaventa le aziende concorrenti, che non riescono a competere con aziende che non pagano tasse e dazi doganali. Questo controllo autoritario dell’economia ha scoraggiato gli investimenti privati e danneggiato le opportunità di crescita e sviluppo del paese. In più lo stato ha adottato un approccio piuttosto frammentato nella politica industriale, puntando a essere presente un po’ in tutti i settori ma senza svilupparne o farne crescere davvero nessuno.

In sei anni il governo si è rivolto per sei volte al Fondo Monetario Internazionale per chiedere prestiti ed elaborare un piano di salvataggio. Il regime di al Sisi in passato ha anche accettato di fare riforme in cambio dei prestiti del FMI, anche nell’ottica di ridurre il ruolo dello stato nell’economia. Nel suo ultimo accordo con il Fondo il governo ha promesso di ritirare l’esercito quantomeno dai settori non strategici, ma non è ancora avvenuto. Oggi l’Egitto è il secondo maggior debitore del Fondo, dopo l’Argentina.

Per quanto la crisi economica del paese abbia origini strutturali e di lungo corso, le cose sono state ulteriormente aggravate da alcune dinamiche recenti e fuori dal controllo dello stato. Innanzitutto la pandemia da coronavirus, che ha notevolmente colpito il settore turistico, vitale per il paese e da cui dipendeva il 5 per cento del PIL. È una quota piuttosto alta: basti pensare che un paese ad alta vocazione turistica come l’Italia ha una quota del PIL dipendente dal turismo pari circa al 6 per cento. Il turismo poi portava nel paese monete forti, come l’euro o il dollaro, che erano molto importanti per rinforzare le riserve della banca centrale.

La guerra in Ucraina ha poi peggiorato ulteriormente le cose, innanzitutto privando il paese delle presenze dei turisti russi. Ma anche causando un forte aumento dei prezzi del cibo: l’Egitto è uno tra i più importanti importatori mondiali di grano e con la guerra ha perso gran parte delle sue forniture che arrivavano proprio da Russia e Ucraina. Lo stato egiziano fornisce alla popolazione un pane sovvenzionato e per questo piuttosto economico: circa due terzi della popolazione lo comprano con questo prodotto e con l’aumento del prezzo del grano per lo stato questa pratica è diventata costosissima e insostenibile, sebbene rimanga necessaria al governo autoritario di al Sisi per mantenere il consenso ed evitare le proteste della popolazione.

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