Come siamo arrivati allo scontro sul salario minimo

Ci sono state forti polemiche durante una seduta alla Camera, provocate dalle modifiche fatte alla proposta delle opposizioni

La protesta di Giuseppe Conte e di altri deputati del M5S durante il dibattito nell'aula della Camera sul salario minimo (Roberto Monaldo/LaPresse)
La protesta di Giuseppe Conte e di altri deputati del M5S durante il dibattito nell'aula della Camera sul salario minimo (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Martedì alla Camera c’è stata una seduta molto turbolenta. Si discuteva dell’introduzione del salario minimo legale, cioè una soglia minima per gli stipendi di tutti i lavoratori fissata per legge, e le opposizioni di centrosinistra hanno proposto di introdurre nel provvedimento in discussione l’indicazione di una cifra minima, cioè di 9 euro lordi all’ora; i gruppi di maggioranza di destra hanno votato contro, bocciando questo emendamento.

A quel punto i leader delle opposizioni hanno preso la parola facendo interventi molto accalorati contro governo e maggioranza parlamentare, ritirando la propria firma dalla proposta in discussione. La segretaria del Partito Democratico Elly Schlein ha accusato la destra di voler “pugnalare alle spalle” i 3,5 milioni di persone che potrebbero beneficiare del salario minimo; Giuseppe Conte, presidente del Movimento 5 Stelle, ha strappato platealmente il fascicolo su cui era riportato il testo della proposta di legge di cui proprio lui era primo firmatario, cioè principale proponente.

La proposta di legge sull’introduzione del salario minimo ha seguito un percorso parlamentare piuttosto tortuoso: per comprendere i presupposti dello scontro di queste ore, quindi, bisogna fare un passo indietro.

Dopo un lungo confronto pubblico, nel luglio scorso era stata depositata alla Camera una proposta di legge condivisa da tutti i gruppi di opposizione (PD, M5S, Alleanza Verdi e Sinistra, +Europa, Azione) a eccezione di Italia Viva di Matteo Renzi. La maggioranza di destra ha contrastato questo provvedimento dilatando i tempi di discussione il più possibile: mai dicendosi risolutamente contraria, ma contestando l’impianto della proposta delle opposizioni e insistendo sulla necessità di approfondire meglio il tema.

La stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha sempre evitato di negare che ci fosse un problema connesso ai salari bassi e al lavoro sottopagato: a fine luglio ha fatto in modo che la maggioranza non bocciasse la proposta delle opposizioni con un voto soppressivo che ne avrebbe sancito la fine. Meloni è consapevole che il tema del lavoro “povero” è molto sentito anche dall’elettorato di destra, vari sondaggi nei mesi scorsi hanno evidenziato come anche tra i sostenitori di Fratelli d’Italia ci sia una grossa maggioranza favorevole all’introduzione del salario minimo. Allo stesso tempo, però, non vuole fare concessioni all’opposizione e ritiene che la soglia di 9 euro all’ora sia troppo alta, perciò ha utilizzato una tattica dilatoria, attendista.

A metà agosto ha convocato a Palazzo Chigi, sede della presidenza del Consiglio, i leader delle opposizioni per un confronto sulla materia. Dopo quell’incontro ha deciso di affidare al CNEL (il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro presieduto dall’ex ministro Renato Brunetta) il compito di presentare nel giro di due mesi un rapporto sul salario minimo.

La decisione di Meloni è stata accolta con un certo fastidio dalle opposizioni. Il CNEL è in effetti un ente a cui la Costituzione attribuisce un ruolo di consulenza per il governo e il parlamento sulle questioni economiche e sociali, ma era la prima volta da molti anni che veniva investito di un compito così politicamente delicato: suggerire il da farsi su un argomento al centro del confronto tra maggioranza e opposizione. La discussione parlamentare a quel punto si è bloccata, in attesa del responso del CNEL arrivato al termine dei due mesi di mandato.

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Il 12 ottobre scorso il CNEL ha pubblicato un documento in cui sconsiglia di ricorrere al salario minimo per contrastare il fenomeno del lavoro sottopagato, e suggerisce piuttosto di rafforzare la contrattazione collettiva, cioè il ruolo dei sindacati nell’ottenere contratti di lavoro con maggiori tutele e una retribuzione migliore da estendere al maggior numero possibile di persone. Sulla base di questo parere, il 17 ottobre la maggioranza ha deciso di rallentare l’analisi della proposta di legge, che era arrivata nell’aula della Camera, e di riportarla in commissione Lavoro, la commissione competente su queste materie: è un passo indietro nella normale procedura di approvazione di un provvedimento, visto che di solito le commissioni discutono e votano i testi prima che vadano in aula, dove poi avviene la votazione decisiva.

Alla base della contrarietà della maggioranza c’è un’obiezione condivisa anche dal CNEL: e cioè che l’indicazione di una paga oraria minima comporterebbe una distorsione del mercato del lavoro. La proposta unitaria delle opposizioni prevede infatti «una soglia minima salariale inderogabile, pari a 9 euro all’ora, per tutelare in modo particolare i settori più fragili e poveri del mondo del lavoro».

Le discussioni sull’entità di questa cifra sono state molte. I sostenitori della proposta, e anche qualcuno che a sinistra la critica per eccessiva timidezza, dicono che in molti paesi europei la soglia minima fissata per legge è più alta: 10 euro in Francia e Paesi Bassi, 9,2 euro in Germania, 12 euro in Lussemburgo. Molti studiosi della materia suggeriscono però non di guardare al valore assoluto, ma di considerarlo in relazione alla media degli stipendi: da questo punto di vista, i 9 euro lordi orari sarebbero molto al di sopra della media europea, soprattutto per quel che riguarda il Sud Italia.

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È comunque proprio su questo tema che si sono concentrati i partiti di maggioranza. A fine novembre il deputato di Fratelli d’Italia Walter Rizzetto, presidente della commissione Lavoro della Camera, ha presentato un esteso emendamento sostitutivo, cioè una modifica della proposta di legge che di fatto assorbe in sé la proposta delle opposizioni. Gli emendamenti di solito cambiano solo alcune parti di un testo, o ne eliminano singoli passaggi: in questo caso invece, con una procedura non molto consueta ma pienamente legittima, l’emendamento consiste in una totale riscrittura. Resta dunque formalmente lo stesso procedimento, ma il suo contenuto viene radicalmente cambiato.

È una mossa parlamentare a cui di solito la maggioranza ricorre per sottrarre un certo tema al controllo diretto della minoranza.

Walter Rizzetto, deputato di FdI e presidente della commissione Lavoro alla Camera (Mauro Scrobogna/LaPresse)

La proposta di Rizzetto prevede due novità sostanziali, tra le altre. La prima riguarda la natura del provvedimento, che non è più una proposta di legge di esclusiva competenza del parlamento ma viene trasformato in una legge delega. Significa cioè che il parlamento si limita a definire solo alcune questioni generali per poi affidare – delegare, appunto – al governo il compito di elaborare i dettagli della legge nel giro di sei mesi. Le commissioni competenti dovrebbero poi esprimere un parere vincolante su alcune parti del testo di legge, quindi il parlamento sarebbe comunque coinvolto, ma in maniera molto più marginale.

L’altra novità ha a che fare con la famosa soglia dei 9 euro. Nella legge delega proposta della maggioranza non c’è alcuna indicazione di quanto dovrebbe essere la paga minima. C’è scritto semplicemente che il governo nell’allestire la legge dovrà «assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi», dovrà «contrastare il lavoro sottopagato», «stimolare il rinnovo dei contratti collettivi» e contrastare la concorrenza sleale, ma tutto ciò dovrà farlo senza fissare un minimo legale. Dovrà anzi «definire, per ciascuna categoria, i contratti collettivi più applicati in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti».

L’operazione di Rizzetto è politicamente astuta, perché non boccia la proposta delle opposizioni, piuttosto la ridefinisce recuperando però sia nella sostanza sia nella forma alcune delle principali proposte avanzate da Movimento 5 Stelle e PD nella scorsa legislatura, che non prevedevano di stabilire una cifra minima per legge. Soprattutto il PD negli anni recenti aveva sempre preferito puntare sull’estensione dei contratti collettivi maggiormente rappresentativi, cioè quelli firmati dai sindacati più importanti e con maggiori tutele, anche ai settori con più disagi come i rider o i lavoratori delle cooperative. Il senso della manovra della destra e di Meloni è questo, contestare alle opposizioni il fatto che loro oggi chiedano al governo di fare ciò che loro non hanno mai voluto o saputo fare negli anni in cui hanno governato.

In ogni caso, l’ipotesi dei 9 euro non è affatto contemplata nella proposta di Rizzetto: su questo si sono innescati i litigi e le contestazioni alla Camera, martedì. Quando le opposizioni hanno proposto un emendamento che reintroduceva questa soglia minima, la maggioranza ha votato contro. A quel punto i vari leader dell’opposizione sono intervenuti alzando molto i toni della discussione.

Il trambusto ha disorientato in parte anche i deputati della stessa maggioranza. Quando la seduta è ripresa dopo una pausa, in serata, molti esponenti di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia erano assenti, e i gruppi di destra hanno rischiato di ritrovarsi in minoranza nell’aula della Camera. Il presidente di turno, Sergio Costa del Movimento 5 Stelle, non ha però velocizzato le procedure di voto, dando tempo alla maggioranza di ricompattarsi.

Mercoledì mattina c’è stata poi la votazione finale. La Camera ha approvato con 153 voti a favore. Nel corso della seduta c’è stata anche una mezza zuffa, quando i deputati del M5S e alcuni del PD hanno tentato di occupare i banchi del governo in segno di protesta, sventolando manifesti e urlando «vergogna» contro gli esponenti di maggioranza. Ora il disegno di legge delega passa all’esame del Senato, che potrà analizzarlo solo a partire da gennaio.