Come reagiamo in situazioni di pericolo di vita

Incidenti, disastri o aggressioni ci spingono spesso a decisioni insensate e che compromettono le possibilità di sopravvivenza

motore aereo incendio
Un motore in fiamme sull’aereo del volo United Airlines 328 prima di un atterraggio di emergenza a Denver, Colorado, il 20 febbraio 2021 (AP/Chad Schnell)
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L’attacco di Hamas avvenuto sabato 7 ottobre 2023 nel sud di Israele, che ha portato all’uccisione e al rapimento di centinaia di civili e militari, ha colto di sorpresa la maggior parte delle persone aggredite, inclusi i partecipanti al Supernova music festival, un rave organizzato nel deserto del Negev.

Rimaste nascoste tra i cespugli per ore per cercare di sfuggire ai miliziani, a un certo punto due persone fidanzate che sono poi riuscite a sopravvivere si sono date un bacio scattandosi un selfie, condiviso giorni dopo su Instagram. «Se moriamo, le nostre famiglie sapranno che ci siamo amati fino all’ultimo momento», ha scritto la ragazza, descrivendo la motivazione alla base del gesto del fidanzato: un pensiero che di certo non sarebbe venuto in mente a nessuno dei due nei momenti iniziali dell’attacco (e che a lei, come scritto su Instagram, era sembrato comunque inopportuno anche dopo).

 

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Il racconto di storie eccezionali e incredibili di sopravvivenza dopo incidenti, disastri e attacchi armati – storie peraltro spesso determinate da fattori casuali e incontrollabili – tende comprensibilmente a occupare molto spazio sui media. E finisce spesso per prevalere sulla descrizione dei molti comportamenti umani normali e istintivi in situazioni di pericolo, che incrementano di fatto il rischio di morire. Diverse storie, studi e rapporti sugli incidenti indicano che la maggior parte delle persone in situazioni di pericolo di vita non è in grado di pensare con lucidità né di pianificare la fuga. E soltanto una stretta minoranza riesce a mantenere la calma necessaria per prendere decisioni che possono incrementare le probabilità di sopravvivenza.

In generale, come osservato da diversi esperti di psicologia della sopravvivenza, le persone che si trovano in situazioni di pericolo di vita non agiscono abbastanza velocemente. Secondo lo psicologo inglese della University of Portsmouth John Leach, peraltro sopravvissuto all’incendio alla stazione londinese di King’s Cross che nel 1987 causò la morte di 31 persone, circa l’80-90 per cento delle persone in situazioni di pericolo reagisce in modo inappropriato e prende decisioni autodistruttive, pur sapendo quale sarebbe invece l’azione preferibile per mettersi in salvo.

Questo comportamento è almeno in parte un effetto del modo in cui sono fatti gli esseri umani – come anche altri animali – e, in particolare, del modo in cui funziona il cervello. Uno degli obiettivi degli addestramenti professionali e delle esercitazioni di emergenza è infatti inibire reazioni controproducenti immediate e ripetere azioni utili così spesso da renderle, auspicabilmente, altrettanto automatiche. «L’addestramento alla sopravvivenza non consiste tanto nell’addestrare le persone a fare certe cose: principalmente è addestrarle a non fare determinate cose che normalmente farebbero», spiegò Leach a BBC nel 2017.

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Uno spazio del Supernova music festival, nel deserto del Negev, vicino al kibbutz di Re’im, il 13 ottobre 2023 (Alexi J. Rosenfeld/Getty Images)

Per quanto assurdi possano sembrare, certi comportamenti irrazionali in situazioni improvvise di estremo pericolo sono più comuni di quanto si creda. Alcune riprese effettuate in un supermercato durante il terremoto dell’11 marzo 2011 in Giappone, il più potente mai registrato nel paese, mostrarono alcuni dipendenti che cercavano di impedire la caduta delle bottiglie di alcolici dagli scaffali anziché cercare riparo per sé stessi: un comportamento solo in parte spiegabile con la familiarità della popolazione con i terremoti. Nel 2017, dopo un’evacuazione di emergenza, i passeggeri di un volo partito da Aspen e atterrato a Denver, in Colorado, anziché allontanarsi dall’aereo per il rischio di esplosione si fermarono sulla pista a scattare fotografie con i loro smartphone al motore in fiamme.

Proprio negli incidenti aerei, un caso in cui la sopravvivenza dipende fortemente dalla velocità dell’evacuazione, capita di osservare azioni apparentemente inspiegabili se non in termini di ciò che in psicologia viene definito comportamento stereotipato. Quando il 3 agosto 2016 il Boeing 777-300 del volo internazionale Emirates 521 – partito da Thiruvananthapuram, India, e diretto a Dubai, Emirati Arabi Uniti – prese fuoco sulla pista di atterraggio, un filmato mostrò alcuni passeggeri che cercavano di prendere il bagaglio dalle cappelliere mentre l’aereo si riempiva di fumo. Nessuna delle 300 persone a bordo morì nell’incidente, ma un vigile del fuoco morì durante le operazioni di salvataggio.

Il ricercatore statunitense James Goff, specialista nella gestione delle emergenze alla University of Hawaiʻi e impegnato da tempo nella sensibilizzazione del pubblico sul pericolo degli tsunami nelle aree ad alto rischio, disse a BBC che molte persone muoiono in seguito a disastri naturali e incidenti «mentre rientrano in casa a prendere il portafogli o a controllare di aver spento i fornelli». Routine apparentemente inutili e ripetitive che tendono a emergere in situazioni di emergenza sono una conseguenza diretta della familiarità con quelle azioni in contesti non catastrofici.

In situazioni normali prendere la borsa dalla cappelliera quando l’aereo atterra è un’attività routinaria compiuta perlopiù senza riflettere, che prepara alla concentrazione necessaria per affrontare i successivi momenti del viaggio: viaggio che può includere situazioni del tutto nuove, specialmente se avviene in posti mai visitati prima. «Attraverso la routine siamo nel presente ma proiettati nel futuro», disse Leach. Le nuove situazioni sono infatti estremamente impegnative sul piano mentale, secondo Leach, perché richiedono la costruzione di un nuovo modello del mondo circostante. E in situazioni di emergenza l’adattamento alla nuova situazione può essere talmente difficile da sostenere per il cervello che le persone finiscono per andare avanti come se non stesse succedendo qualcosa di nuovo.

In moltissimi altri casi, nel momento stesso in cui rischiano improvvisamente di morire, le persone non fanno assolutamente niente, per effetto di una reazione presente anche in altre specie animali.

Quando la nave Estonia salpata da Tallinn e diretta a Stoccolma naufragò il 27 settembre 1994 nel mar Baltico dopo sei ore di viaggio, in uno dei più gravi disastri navali di sempre in Europa, gli esperti di sopravvivenza rimasero stupiti dal numero di morti nel naufragio: 852 su 989 persone a bordo. Dai primi rapporti dopo l’incidente emerse che molte persone erano annegate senza fare niente per cercare di salvarsi, «incapaci di pensare o comportarsi in modo razionale a causa della paura». Altre persone non avevano reagito «quando gli altri passeggeri avevano cercato di guidarle, e nemmeno quando avevano usato la forza o avevano urlato contro di loro».

Durante l’attentato terroristico nella zona del London Bridge a Londra il 3 giugno 2017, in cui tre persone armate investirono con un furgone e accoltellarono diverse persone uccidendone otto, uno degli agenti di polizia che affrontò gli aggressori descrisse alcune persone che erano in fila fuori da un locale al momento dell’aggressione come cervi immobili davanti ai fari abbaglianti di una macchina.

attentato london bridge 2017

Un gruppo di ragazze parla con gli agenti di polizia davanti a un cordone dopo l’attacco terroristico nella zona del London Bridge a Londra, il 4 giugno 2017 (AP/Matt Dunham)

In uno studio del 2017 sui meccanismi neurobiologici di difesa negli animali umani e non umani, condotto dalla psicopatologa sperimentale olandese Karin Roelofs, l’immobilità fu descritta come una reazione comportamentale alle situazioni di pericolo associata all’attivazione di regioni del cervello simili negli esseri umani e nei roditori. Più che uno stato passivo, secondo lo studio, l’immobilità sarebbe un «freno» attivo del sistema motorio, rilevante per la percezione della situazione in corso e la preparazione all’azione di lotta o di fuga davanti al pericolo.

Mentre l’adrenalina scorre attraverso il corpo e i muscoli rimangono in tensione, il cervelletto – una parte del sistema nervoso centrale presente in tutti i vertebrati e fondamentale, tra le altre cose, per la regolazione delle risposte alla paura e al piacere – invia un segnale per farci rimanere immobili. L’origine di questo meccanismo neurale davanti alle situazioni di pericolo non è chiara, ma dal momento che è presente in tutto il regno animale un’ipotesi è che attivasse nella preda un comportamento funzionale per un ultimo disperato tentativo di impedire a un animale predatore di individuarla.

Altri ormoni oltre all’adrenalina vengono rilasciati attraverso il corpo, tra cui la dopamina, solitamente coinvolta nei processi di ricompensa. Come spiegò a BBC la psicologa inglese Sarita Robinson, vicedirettrice della scuola di psicologia e informatica della University of Central Lancashire, per quanto possa sembrare controintuitivo che l’organismo venga inondato da un ormone associato al piacere in situazioni di pericolo, la dopamina svolge un ruolo fondamentale nel preparare il corpo ad affrontare quel pericolo.

La dopamina è infatti funzionale al rilascio di altri ormoni, tra cui l’adrenalina e il cortisolo, che preparano all’azione fisica aumentando la frequenza cardiaca, quella respiratoria e il tono muscolare. Ma questo insieme di ormoni ha tra i vari effetti secondari anche quello di disattivare in parte le funzioni cognitive superiori, come la memoria di lavoro, localizzate nella corteccia prefrontale. E il risultato è che proprio quando avremmo più bisogno di prendere decisioni ragionevoli aumenta la probabilità di prendere quelle sbagliate.

Diversi incidenti storici indicano come la normale attivazione delle funzioni cognitive di livello superiore possa subire delle alterazioni o essere inibita quando le persone si spaventano in situazioni di pericolo. Durante la guerra del Golfo nei primi anni Novanta, alla luce dei rapporti conflittuali tra Israele e Iraq, e del precedente utilizzo di armi chimiche da parte dell’Iraq in altri contesti di guerra, il governo israeliano distribuì a tutta la popolazione maschere antigas e soluzioni iniettabili di atropina, usata come antidoto agli agenti nervini.

Alle famiglie israeliane fu detto di tenersi preparate agli attacchi iracheni e, in caso di allarme, di rifugiarsi in una stanza di sicurezza nelle loro case e indossare le maschere antigas. Ci furono complessivamente 23 attacchi aerei, tutti preannunciati dagli allarmi della difesa israeliana, tra il 18 gennaio e il 28 febbraio 1991, la maggior parte dei quali sulla popolosa città di Tel Aviv. Durante gli attacchi, che causarono complessivamente 1.059 feriti e 14 morti, furono sganciate oltre 10 tonnellate di esplosivi, ma nessun’arma chimica.

Da un’analisi del 1991 sui ricoveri ospedalieri e un sondaggio sui feriti emerse che soltanto 232 persone erano state ricoverate per lesioni direttamente correlate alle esplosioni, di cui soltanto una grave. Tutte le altre erano finite in pronto soccorso per altre ragioni, indirettamente legate all’attacco: 544 per attacchi di ansia, 230 per iniezioni inopportune di atropina. Altre 40 persone riportarono ferite a causa della fretta di precipitarsi nella stanza di sicurezza. Secondo un documento diffuso successivamente dal ministero della Difesa israeliano sette persone morirono per un utilizzo improprio del kit di sopravvivenza fornito dal governo.

guerra del golfo tel aviv 18 gennaio 1991

Tre persone indossano maschere antigas in una stanza di sicurezza prima di un attacco iracheno a Tel Aviv, il 18 gennaio 1991 (AP/Martin Cleaver)

Uno dei principali problemi delle situazioni di pericolo è che si sviluppano in tempi molto più rapidi rispetto a quelli di reazioni della maggior parte delle persone. Secondo le normative della Federal Aviation Administration (FAA), l’agenzia federale statunitense che si occupa della sicurezza e dei controlli relativi all’aviazione, i produttori di aerei sono tenuti a dimostrare che l’intero aereo può essere evacuato in 90 secondi, considerato il lasso di tempo massimo prima di un aumento considerevole del rischio di «incendio generalizzato» (flashover, il momento in cui il materiale combustibile in un ambiente chiuso prende fuoco tutto insieme quasi nello stesso momento, dopo un focolaio iniziale).

Diversi dati indicano che 90 secondi dopo un incidente la maggior parte dei passeggeri è però ancora intenta a slacciare le cinture di sicurezza. A causa del particolare funzionamento del cervello e della momentanea disattivazione parziale della corteccia prefrontale, in situazioni di pericolo le persone tendono peraltro a ripetere azioni inefficaci, indipendentemente dai risultati: un fenomeno talmente frequente da aver influenzato la progettazione stessa delle cinture di sicurezza sugli aerei.

Le prime versioni delle cinture di sicurezza sugli aerei avevano la fibbia posizionata più in alto, ma questo design non fu incentivato per diverse ragioni. Una tra queste è che in caso di atterraggio di fortuna le persone sono abituate a cercare la fibbia delle cinture di sicurezza attorno loro fianchi e tendono a non guardare nessun altro punto del corpo. La tendenza alla reiterazione interessa anche i piloti, che in casi di particolare stress possono rimanere bloccati nel tentativo infruttuoso di azionare un dispositivo o un altro elemento dell’attrezzatura, e vengono quindi addestrati anche per ridurre questa possibilità.

Un altro tipo di reazione frequente in situazioni di pericolo di vita è la negazione del pericolo stesso. Goff disse a BBC che puntualmente, in caso di pericolo di tsunami, una parte rilevante della popolazione scende al mare per osservarlo. Disse di avere fotografie che mostrano le persone osservare l’onda dalla costa durante lo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano, scattate da una persona che correva per raggiungere un’altura.

BBC raccontò anche di una coppia di turisti che stavano facendo immersioni subacquee in Thailandia proprio durante lo tsunami. «All’improvviso mi sono sentito come se fossi stato spinto, con forza, e non potessi più controllare niente», disse uno dei turisti. Tornati sull’isola, sebbene tutto il lungomare fosse devastato, e ci fossero detriti, rottami e cadaveri tutt’intorno, uno dei turisti chiese se potevano tornare in albergo a prendere i bagagli. «Ragazzi, il vostro hotel probabilmente non esiste più», rispose l’autista.

La negazione è di solito una conseguenza dell’incapacità di interpretare la situazione come pericolosa. Altre volte, anche a fronte della capacità di valutare razionalmente la situazione, la negazione è invece legata a una volontà. È un caso molto frequente negli incendi, quando lasciare la propria abitazione significa il più delle volte abbandonarla alle fiamme e non rientrarci mai più. «Le persone tendono ad aspettare finché non vedono il fumo, che spesso coincide con il momento in cui è troppo tardi per scappare», disse Andrew Gissing, esperto in gestione dei rischi durante le emergenze per la società di consulenza australiana Risk Frontiers.

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I resti di un resort devastato dallo tsunami del 2004 a Ton Sai Bay, in Thailandia, il 28 dicembre 2004 (Paula Bronstein/Getty Images)

Come a lungo spiegato dagli esperti di gestione delle emergenze, la sopravvivenza in situazioni di pericolo è strettamente legata a una serie di fattori, in parte casuali e in parte no, che cambiano a seconda del tipo di pericolo. Nel caso di un disastro naturale come uno tsunami, per esempio, disporre di un piano per le emergenze e di procedure collaudate in grado di accelerare le operazioni di evacuazione e di soccorso cambia in modo rilevante le probabilità di sopravvivenza.

L’addestramento e le esercitazioni sono altri modi tradizionalmente utilizzati per incrementare le probabilità di sopravvivenza in situazioni di pericolo. Una parte molto rilevante del lavoro di addestramento militare, disse Leach, consiste nel rendere familiari situazioni che la maggior parte delle persone non vivrà mai: dall’essere ostaggio di un nemico al precipitare in mare in elicottero e avere la lucidità di restare nella fusoliera finché non è capovolta, in modo da non finire tra le pale del rotore che ancora girano. «Occorre esercitarsi ed esercitarsi finché la tecnica di sopravvivenza non diventa il comportamento dominante», disse Leach.

È possibile che alcune persone siano per natura più razionali e calme di altre davanti al pericolo, ma la loro esperienza e la loro formazione contano più di eventuali predisposizioni, disse al sito Fast Company nel 2019 lo psicologo Russell Shilling, a lungo in servizio nella marina statunitense e responsabile delle operazioni di ricerca scientifica della American Psychological Association (la più importante associazione di psicologi negli Stati Uniti). «Se hai ricevuto un addestramento approfondito hai già una serie di risposte pronte per l’uso, quindi non devi spendere tempo a pensare a cosa fare», disse Shilling. E lo stesso discorso vale anche per l’addestramento dei piloti, che in caso di emergenze devono essere in grado di seguire procedure senza pensarci, come se fossero routine.

Secondo Shilling l’esposizione al racconto sui media di situazioni di pericolo può indurre le persone a essere spaventate anche in situazioni in cui il pericolo è statisticamente basso. Ma può anche stimolare una serie di riflessioni utili e domande simili a quelle che tutti i piloti, gli ufficiali militari e i vigili del fuoco devono porsi durante l’addestramento. Shilling raccontò che anche la sua famiglia, in seguito a una conversazione su questi temi, ha cominciato a stabilire per sé ogni volta una sorta di piano informale di emergenza prima di partecipare a un grande evento, in modo che tutti i componenti della famiglia sappiano cosa aspettarsi gli uni dagli altri.

L’idea, disse Shilling, è cercare di sapere ogni volta dove si trovano le uscite di sicurezza più vicine, avere una stima approssimativa della dimensione della folla e un piano in caso di emergenza, ma senza essere eccessivamente ansiosi. Pensare troppo alle eventualità peggiori, aggiunse, rischia infatti di essere controproducente e di accrescere paura e stress, compromettendo la qualità della vita.