Perché nessun partito vuole finire nel Gruppo Misto

Chi ne fa parte ha meno tempo per intervenire in parlamento, meno risorse economiche e in generale un peso politico inferiore

(Mauro Scrobogna/LaPresse)
(Mauro Scrobogna/LaPresse)

Dopo aver formato il cosiddetto “Terzo Polo” in vista delle elezioni politiche del settembre del 2022, Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno attraversato diverse fasi di litigi e polemiche. Nell’aprile scorso è fallito in maniera abbastanza clamorosa il progetto di dar vita a un partito unico, ma se quell’ipotesi è ormai svanita, i due partiti finora hanno continuato a condividere i gruppi parlamentari alla Camera e al Senato: una situazione che si è rivelata nel tempo sempre più difficilmente sostenibile, soprattutto per il dissenso su alcune importanti questioni (il salario minimo, per esempio).

Una delle ragioni per cui due partiti e due leader in pessimi rapporti stiano ancora insieme risiede nel fatto che separarsi implica che uno finisca nel Gruppo Misto, cioè il gruppo che raccoglie tutte le delegazioni che sono troppo esigue per formare un gruppo autonomo.

Le regole del parlamento consentono a due o più partiti diversi di condividere lo stesso gruppo, e anzi lo fanno abbastanza spesso, anche solo per semplice interesse pratico: avere un gruppo proprio garantisce certe prerogative e certi vantaggi sia nel peso politico che si può avere in aula e nelle commissioni, sia per quel che riguarda il riconoscimento di finanziamenti e contributi. Ma sia alla Camera sia al Senato c’è un numero minimo per costituire un gruppo, e appunto per questo i partiti che hanno eletto un numero di parlamentari non sufficiente decidono di associarsi. Le alternative sono il Misto oppure, secondo il nuovo regolamento del Senato entrato in vigore in questa legislatura, restare tra i “non iscritti”: ma è un’eventualità finora non presa davvero in considerazione da nessuno, in quanto ancora più sconveniente.

Le ragioni per cui il Gruppo Misto viene visto come una sorta di spauracchio sono essenzialmente di due tipi: politico ed economico. Innanzitutto, andare al Misto significa essere rappresentati negli incontri e nelle riunioni dal presidente di quel gruppo, che però al Senato è votato all’inizio della legislatura dai senatori che in quel momento vi fanno parte, ed è eletto a maggioranza. Di solito quindi è un esponente della componente più numerosa che aderisce al Misto. La particolarità di questa carica al Senato è che ha durata per tutta la legislatura, a differenza di quanto avviene alla Camera. Se quindi cambia la composizione del gruppo, il capogruppo resta quello eletto inizialmente, per via di una norma inserita di recente nel regolamento del Gruppo Misto (all’articolo 5) con lo scopo di evitare che l’arrivo di nuovi componenti si traduca in una manovra ostile per accaparrarsi la presidenza.

Anche alla Camera, tuttavia, la sostituzione del capogruppo a seguito dell’ingresso di una nuova componente all’interno del Misto è assai rara, anche perché passerebbe per la ridefinizione dei rapporti di forza all’interno del gruppo. Per i primi due mesi dall’iscrizione al Misto, inoltre, i deputati che ci entrano non hanno diritto di voto nelle assemblee del gruppo.

Tanto al Senato quanto alla Camera, poi, chiunque si trovi a entrare nel Misto vede limitarsi in maniera sensibile la possibilità di influenzare le strategie o definire il calendario dei lavori a proprio vantaggio. Lo stesso vale per i tempi d’intervento in aula. Ogni gruppo ha un tempo contingentato per esprimere il proprio punto di vista o per fare le proprie dichiarazioni di voto nei dibattiti parlamentari. Il Misto ha lo stesso tempo, ma deve dividerselo tra le sue diverse componenti. Il risultato è che intervenendo a nome di una di queste componenti un deputato o un senatore del Misto ha a disposizione circa un terzo del tempo concesso ai colleghi dei gruppi autonomi, salvo concessioni da parte della presidenza del Senato e della Camera, che però vanno concordate di volta in volta.

Giorgia Meloni nell’aula di Montecitorio durante l’elezione del presidente della Camera, il 13 ottobre 2022 (ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)

Anche nelle commissioni parlamentari è complicato portare avanti una seria iniziativa politica, per una forza politica del Misto. La rappresentanza del Misto nelle varie componenti è calcolata a prescindere dalla componente di appartenenza del singolo parlamentare. Per cui nella commissione Bilancio, per fare un esempio, il Misto può essere rappresentato dal deputato o dal senatore della componente X, senza che al deputato o al senatore della componente Y sia riconosciuto il diritto di prendervi parte. E lo stesso avviene in altre commissioni, ovviamente. Tutto ciò limita la capacità di una determinata forza politica del Misto di avanzare proposte di legge o emendamenti nelle commissioni, senza contare che c’è spesso il rischio che in caso di assenza un parlamentare del Misto potrebbe essere sostituito da un rappresentante di un’altra componente con posizioni anche molto diverse.

Poi ci sono le rilevantissime questioni economiche. In entrambe le camere del parlamento il bilancio dei gruppi può beneficiare del cosiddetto “contributo unico”: un contributo, cioè, che il Senato e la Camera riconoscono ai vari gruppi in proporzione al numero degli iscritti. Al Senato è di 90mila euro all’anno per ciascun senatore, e viene versato in tranche trimestrali. Alla Camera invece per ciascun deputato vengono dati circa 77mila euro.

Dal 2022 al Senato è stato approvato una modifica al regolamento che viene definita in gergo la “clausola anti transfughi”. Fino alla scorsa legislatura il senatore che cambiava gruppo portava con sé “in dote” questo contributo di 90mila euro. Col nuovo regolamento, nell’articolo 7 delle Disposizioni finali, è stata introdotta una modifica per  disincentivare il passaggio di un parlamentare da un gruppo a un altro (i cosiddetti “cambi di casacca”). Questa modifica prevede che il 50 per cento di quel contributo, dunque 45mila euro, continui a essere riconosciuto al gruppo di prima appartenenza del senatore; il 30 per cento, poco meno di 30mila euro, se lo porta con sé il senatore nella sua nuova formazione; il 20 per cento resta invece nelle casse del Senato. Alla Camera questa norma non c’è, al momento. Ma il passaggio al Misto comporta comunque, secondo quanto prevede lo statuto del Gruppo stesso, un disagio a livello economico, perché una parte del “contributo unico” va versata nelle casse del Gruppo per le spese comuni di gestione e di attività.

Va detto che al Senato i vari gruppi possono attingere anche alle casse del Senato, ottenendo una somma che nel gergo parlamentare viene indicato come “fondone”: circa 2 milioni di euro all’anno che vengono distribuiti equamente tra i vari gruppi, a prescindere dalla loro consistenza numerica (anche al Misto).

L’Aula della Camera vista dall’alto (ANSA/ANGELO CARCONI)

C’è un altro aspetto che disincentiva il passaggio da un gruppo a un altro. Il regolamento del Senato prevede che i membri dell’Ufficio di presidenza, che è il massimo organo amministrativo del Senato, debbano lasciare il proprio incarico nel caso in cui cambino gruppo. Dell’Ufficio di presidenza fanno parte, oltre ovviamente al presidente, quattro vice presidenti, tre questori e vari segretari, il cui numero minimo è quattro ma può aumentare anche molto per garantire la rappresentanza di tutti i gruppi parlamentari nell’Ufficio di presidenza. Per ciascuna di queste cariche il Senato riconosce una certa somma mensile per le spese relative allo staff, ai collaboratori e alle consulenze (tra i 6 e gli 8mila euro lordi al mese). La norma della decadenza non si applica invece a chi non abbandona il proprio gruppo di appartenenza, ma ne viene espulso: in quel caso il regolamento del Senato riconosce il diritto a mantenere il proprio incarico nell’Ufficio di presidenza.

Alla Camera, dove l’Ufficio di presidenza ha la medesima composizione del Senato ma prevede almeno 8 segretari, non c’è una norma che prevede l’automatica decadenza dagli incarichi nell’Ufficio in caso di cambio di gruppo. Tuttavia i segretari aggiuntivi, quelli cioè che sono stati eletti oltre il numero di 8 proprio per garantire la rappresentanza nell’Ufficio a un certo gruppo, cessano il proprio mandato se quel gruppo non esiste più o diventa una componente del Misto.

Infine c’è la questione degli avanzi di gestione. Un partito politico può mantenere gli eventuali residui di cassa lasciati dal proprio gruppo parlamentare nella precedente legislatura, a patto di ottenere una delibera dai rappresentanti del gruppo e di comunicarlo alla presidenza della camera di competenza (ma sono semplici formalità). Nel caso in cui una parte del gruppo vada al Misto, per prassi perde la facoltà di potere attingere a quel fondo di cassa ereditato, che può arrivare anche a centinaia di migliaia di euro.