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  • Giovedì 12 ottobre 2023

I modi di dire non sono tutti innocui

«Fare il portoghese» può essere percepito come offensivo anche se non lo è, mentre dire «ambaradàn» per "confusione" è un altro discorso

Soldati italiani durante l'attacco a un villaggio dell'Amba Aradam, in Etiopia, nel 1936 (AP Photo)
Soldati italiani durante l'attacco a un villaggio dell'Amba Aradam, in Etiopia, nel 1936 (AP Photo)

Raffaele Alberto Ventura è una delle persone che in Italia hanno riflettuto di più sui problemi di comprensione, le intolleranze e i cambiamenti della lingua nati per via della comunicazione attraverso i social network. Nel suo nuovo libro appena pubblicato da Einaudi, La regola del gioco. Comunicare senza fare danni, Ventura ricorda alcuni dei numerosi casi di critiche a persone, aziende e governi degli ultimi anni per riflettere sull’efficacia della comunicazione e su come si costruisce (e talvolta si distrugge) la reputazione nel mondo contemporaneo. Ma anche per provare a trarne delle buone regole da seguire per farsi capire e rendersi conto di come altre persone possono leggere certi messaggi. Il titolo è un riferimento a The Game, l’espressione scelta qualche anno fa da Alessandro Baricco per descrivere il mondo online e offline di oggi. Pubblichiamo un estratto del libro in cui si prendono in considerazione alcuni modi di dire italiani e si spiega perché non sono innocui.

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Comincio con un ricordo personale di una decina di anni fa. Frequentavo assieme ad altri studenti internazionali un corso di economia in un’università italiana, quando la professoressa, per spiegare il concetto tecnico di «free rider» (quando un individuo gode di un servizio o di un bene facendo pagare alla collettività il suo costo) impiegò l’espressione «fare il portoghese». Una studentessa francese alzò la mano per protestare: quell’espressione le sembrava offensiva nei confronti dei portoghesi.

Poteva andare peggio: e se ci fosse stato uno studente nativo di Lisbona in classe? Ecco una situazione che sarebbe meglio evitare in un contesto internazionale, dove oltre a offendere qualcuno si rischia comunque di fare la figura della persona poco professionale.

La cosa peculiare di quest’espressione è che di fatto… non è in alcun modo razzista. Sicuramente la professoressa non aveva nulla contro i portoghesi, ma oltretutto «fare il portoghese» non sottintende nessun giudizio sull’onestà dei nostri cugini lusitani. L’espressione deriva da un fatto storico: nella Roma del XVIII secolo i cittadini del Portogallo avevano avuto un’esenzione dal pagamento del teatro, cosí alcuni romani «facevano i portoghesi» per godere a scrocco del medesimo beneficio. Scroccone non è dunque il portoghese, ma chi si finge tale.

Di questo excursus filologico, spiace dirlo, non ce ne frega niente. Il problema è sicuramente l’effetto di questa espressione. Nella maggior parte dei casi, nessuno studente alzerà la mano per protestare; semplicemente si farà di voi l’idea di uno zotico proveniente dalla periferia dell’Europa. Ma con molta sfortuna il malinteso potrebbe anche portare a conseguenze piú gravi: in effetti non sono rari, fuori dall’Italia, i casi di professori sanzionati dall’amministrazione universitaria per una frase infelice.

Le lingue sono piene di espressioni scivolose: stereotipi, metafore, reminescenze di altre epoche, tutti segni di indubbia espressività che tuttavia potrebbero sfigurare in un contesto istituzionale. In generale, lo ribadiamo ancora una volta, è opportuno tenere a mente che le lingue hanno diversi registri, da quello familiare a quello sostenuto, e che mescolarli può essere pericoloso. A lungo ci siamo convinti che questo miscuglio di registri suonasse moderno e informale, migliorasse la comprensione, avvicinasse chi parla al suo pubblico. Oggi se vogliamo evitare malintesi dobbiamo arrenderci al ritorno di una maggiore formalità: risulteremo meno simpatici, ma eviteremo spiacevoli inciampi.

Lo stesso vale per altre espressioni di uso comune, che hanno l’aggravante di essere piú o meno offensive. Alcune sono evidentemente offensive, e non sta a me insegnarvi che «fare il rabbino» o «lavorare come un nero» non sono assolutamente espressioni simpatiche; altre suonano ineleganti, come «parlare arabo» per indicare che non si capisce nulla; infine altre ancora che pur inoffensive all’apparenza sono invece particolarmente pesanti. Citiamo di nuovo l’espressione «ambaradàn», che per evocare una gran confusione fa riferimento al massacro di Amba Aradam, in Etiopia, dove i fascisti nel 1936, facendo ricorso anche all’uso di armi chimiche, uccisero circa 6000 persone. Dal punto di vista dei discendenti del Paese che abbiamo colonizzato, è un po’ come se i tedeschi usassero comunemente l’espressione «che gran olocausto» per parlare di una stanza in disordine.

Certo, si potrebbe discutere lungamente dell’opportunità di «chiudere i conti» con le tragedie del passato. Gli europei hanno superato il trauma di Waterloo e possono oggi evocare la battaglia di due secoli fa, che contò 30 000 vittime, senza patemi. In generale vale sempre la regola enunciata dal comico Lenny Bruce negli anni Sessanta: «La satira è tragedia piú tempo. Se aspetti abbastanza tempo, il pubblico, i recensori ti permetteranno di farci satira». Lo stesso vale per la neutralizzazione del potenziale divisivo di un modo di dire. Il problema è che Bruce non precisa quanto tempo deve passare. Soprattutto, il tempo inizia a essere contato dal momento in cui il conflitto è stato in qualche modo risolto e le ferite sanate. Nel caso del colonialismo italiano, dal punto di vista di molti colonizzati si tratta ancora di una ferita aperta. Ogni gruppo adotta temporalità differenti. Un bel casino.

Un discorso a parte meritano certe espressioni che vorrebbero suonare progressiste o amichevoli, ma sono definitivamente abusate: «Ho tanti amici gay», «I neri hanno il ritmo nel sangue», «Gli ebrei sono piú intelligenti». Vero è che la capacità di distinguere quelle piú usurate dipende, ancora una volta, dal capitale culturale, e quindi dal proprio contesto oppure da uno sforzo di aggiornamento continuo.

Quanto agli insulti, sembra ovvio dire che vanno evitati. Ma immaginate un mondo senza insulti. Un mondo in cui le parolacce non esistono, o non possono essere pronunciate. Un mondo liscio e politicamente corretto in cui nessuno viene offeso per il suo aspetto o la sua provenienza geografica, per i suoi difetti o la sua professione. Sarebbe un paradiso, credete? E invece è probabile che finirebbe presto a botte. Perché le parole violente, come ha suggerito il linguista Filippo Domaneschi, sono ciò che ci protegge dalla violenza reale. Una extrema ratio, una barriera, in qualche modo uno sfogo: potremmo dire una catarsi, proprio come nel teatro antico, mettendo in scena una certa condotta, si purificava la società.

Al contrario di quello che credono i nostalgici di un immaginario passato educatissimo, gli insulti caratterizzano ogni epoca e civiltà. Tuttavia la nostra è particolarmente scurrile, perché le parolacce si sono intrufolate in contesti dai quali erano precedentemente escluse, come la politica, o addirittura in nuovi spazi come i social network. Come si regola, in questo contesto, il proliferare del linguaggio scurrile e la sua potenziale trasformazione in puro e semplice hate speech? Come si evita che quelle espressioni che dovevano avere una funzione catartica portino invece a un’escalation di aggressività?

Con la loro carica espressiva, gli insulti ci servono per «fare cose con le parole», insomma a ottenere un effetto concreto nella vita di tutti i giorni. Naturalmente però bisogna saperli dosare e padroneggiare a seconda del contesto. Grande è il potere dell’insulto, come quello dell’unico anello di J.R.R. Tolkien, col quale si può fare sia il bene che il male, unire oppure dividere, ma che può anche sfuggire al controllo. Era stata Judith Butler, nel lontano 1997, a proporre una riflessione filosofica sulle «parole che provocano» proprio mentre il dibattito pubblico iniziava a essere monopolizzato dalla questione del politicamente corretto. Tuttavia se all’epoca la faccenda si poteva ancora prestare a ironie, oggi appare evidente che l’igiene del linguaggio è diventata una posta in gioco centrale per la sopravvivenza della civiltà multiculturale, che sfortunatamente è anche una potente macchina di decontestualizzazione capace di amplificare e trasferire le offese da una comunità all’altra. Se la Prima guerra mondiale venne scatenata da una singola pallottola, non è da escludere che i conflitti del futuro possano nascere da un banale insulto.

© 2023 Raffaele Alberto Ventura
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