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  • Mercoledì 10 aprile 2024

Mostri

Da oggi è in libreria il primo libro pubblicato da Altrecose, il nuovo progetto del Post e di Iperborea: Giulia Siviero ne ha spiegato la storia

Da mercoledì 10 aprile è in libreria Mostri, di Claire Dederer: il primo libro pubblicato da Altrecose, il marchio editoriale creato dal Post insieme a Iperborea. Mostri è un libro sul “tormento dei fan” di fronte alla contraddizione tra opere artistiche o letterarie e comportamenti dei loro autori e autrici. Ovvero sull’attualissima questione del diverso giudizio che possiamo avere – possiamo? – sulla grandezza di un film, di un libro, di un quadro e sulle vite di chi li ha creati: con casi più noti e meno noti (Roman Polanski, su tutti), più recenti o più antichi, e con attenzioni ai più attuali dibattiti sul metoo e sulla cancel culture esposte con una scrittura vivace e un approccio personale in cui ci si può spesso riconoscere.

Mostri si trova in tutte le librerie fisiche e digitali (tra cui IBS e Bookdealer), e può essere ordinato anche sul sito del Post (con in regalo, per abbonate e abbonati, la nuova borsa di Altrecose).

La borsa di Altrecose, in regalo per abbonate e abbonati del Post con ogni copia di “Mostri”.

La prefazione di Mostri è stata scritta da Giulia Siviero, giornalista del Post.

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Nell’ottobre del 2017 accadde una cosa imprevista. Dopo che il New York Times aveva pubblicato un’inchiesta sulle denunce per molestie sessuali contro il produttore cinematografico statunitense Harvey Weinstein, l’attrice Alyssa Milano rilanciò un hashtag inventato undici anni prima dall’attivista Tarana Burke invitando le donne a raccontare la loro esperienza per «dare un’idea della grandezza del problema». E mentre prima le donne tacevano, ora parlavano tutte. E parlavano di tutti, di uomini comuni e dei cosiddetti uomini potenti. Perché tutte avevano una storia da raccontare. In breve tempo, quella prima presa di parola collettiva chiamata #MeToo e nata all’interno del contesto hollywoodiano diede vita a un’ondata globale, fu affiancata da altri hashtag e declinata nei contesti di ciascun paese.

Nel dicembre di quello stesso anno Claire Dederer prese parola pubblicando un lungo articolo sulla Paris Review. Ciò su cui stava riflettendo già da qualche anno con l’intenzione di scrivere un libro su Roman Polanski, regista condannato negli Stati Uniti per violenza sessuale nei confronti di una minorenne, era ormai diventato qualcosa che riguardava tutti e tutte. Ma mentre il mondo intorno discuteva di «cancel culture», se fosse giusto o meno interrompere rapporti, ritirare premi, non pubblicare, allontanare o escludere attori, scrittori e registi per via di certe cose che avevano fatto, detto o scritto, Dederer metteva al centro del suo discorso non cosa ne dovesse essere di quegli artisti, ma cosa ne restava di lei: di fronte a loro e alla loro arte tanto amata e ormai corrotta. Fu forse anche per questo scarto dal dibattito pubblico che il suo articolo ricevette molta attenzione: perché invitava a schivare la tentazione di usare noi come un’uscita di sicurezza o come una leva per indurre o imporre il consenso lasciando poi ciascuno e ciascuna nel privato a chiedersi dove mettere quel sentire trasformato da una nuova consapevolezza.

A sei anni di distanza, ampliando e rielaborando quelle sue prime tesi, Dederer ha pubblicato Mostri, muovendosi attraverso un catalogo di nomi del cinema, della letteratura e della musica, alcuni più recenti e altri più antichi, ma tutti associati sia al genio che alla mostruosità.

Cosa ci accade, dunque, quando sappiamo che qualcuno come Roman Polanski, Pablo Picasso, Ernest Hemingway, Michael Jackson o Woody Allen (ma anche Virginia Woolf) ha fatto qualcosa di terribile o riprovevole, ma ha creato qualcosa di grandioso? In che modo la macchia che si espande sulla loro vita interferisce con noi mentre guardiamo i loro capolavori? E che dire del linguaggio che circonda questi artisti? Della parola «mostro», ad esempio, o della parola «genio», che pur essendo «fantasmatica, sacra […] atterra con il rumore sordo del dato di fatto», scrive Dederer. E ancora: è possibile separare l’opera dall’artista? Ma soprattutto e prima di tutto: è possibile, per noi, continuare ad ammirare queste persone o ad ammirare la loro arte?
La faccenda, ammette subito Dederer, è complicata, e toccherebbe inventare una calcolatrice per raggiungere un equilibrio tra senso morale e amore per l’arte. Ma non c’è.

Ecco allora che posto il dilemma, e attraverso una scrittura molto schietta e trasparente, l’autrice si confronta con se stessa, procede sgranando il ragionamento di capitolo in capitolo e di nome in nome, facendo scorrere tra le dita nuove domande, nuove riflessioni, nuovi pezzi. Lo fa mostrandoci l’evoluzione a tratti intuitiva del suo processo di pensiero, scegliendo una pratica teorizzata dal femminismo: quella del partire da sé, mescolando critica e memoria, autobiografia e analisi filosofica, alternando alle tesi contenute in altri libri la trascrizione delle conversazioni che ha avuto con amici, amiche, colleghi durante la sua ricerca. Accompagnando noi che la leggiamo nella medesima e intima negoziazione.

In alcune delle pagine più perspicaci e divertenti, e mostrando subito da quale posizione intende affrontare il problema, Dederer stabilisce una differenza di genere tra il pubblico e tra chi il pubblico lo condiziona con le proprie opinioni. Condividendo il racconto degli inizi della propria carriera come critica cinematografica per una rivista alternativa di Seattle, circondata da intellettuali maschi che, come sacerdoti, giudici o arbitri, dispensavano le loro opinioni come fossero universali, Dederer rompe con l’idea tutta maschile della critica come autorità. Che, senza troppi patemi, non rinuncerebbe a definire Manhattan un capolavoro nemmeno se Allen invadesse la Polonia e che non riesce a comprendere ciò che Dederer sta attraversando. Contro questa pretesa universalità l’autrice afferma dunque la propria differenza, il proprio io, frugando tra i propri sentimenti. Ed è soprattutto questo che rende il suo libro valido individualmente e ovunque: anche nei contesti, come quello italiano, in cui le conseguenze più concrete del #MeToo sono state deboli o inesistenti. E anche se gli artisti e le artiste che ama e su cui ragiona potrebbero non sovrapporsi ai nostri.

Nella bella rilettura dei libri o dei film in cui via via Dederer ci guida (Io e Annie di Woody Allen o Lolita di Vladimir Nabokov, tra gli altri), riaffiora di continuo quel tormento per un amore perduto o corrotto a cui lei, e noi con lei, stiamo tentando di trovare un posto. In molti casi la trattativa si complica, dice, quando i confini tra autore e opera sono più labili che altrove, quando la mostruosità si aggancia a una ferita non sanata della propria biografia o quando gli uomini che hanno fatto dell’arte eccelsa al contempo ne hanno distrutta.

Alcuni passaggi sono piuttosto scomodi per altri motivi e sono stati i più criticati nella discussione che prima l’articolo e poi il libro hanno generato. Quando ad esempio l’autrice, «con una certa inquietudine», stabilisce un parallelismo tra la mostruosità degli uomini e quella delle donne che sono anche madri: Doris Lessing, Joni Mitchell o Sylvia Plath, ad esempio, a cui dedica interi capitoli e che in modi differenti hanno «abbandonato» i figli per portare a termine la loro opera o fare la loro arte. Accanto a loro ci sono però anche artiste non associate alla maternità come Valerie Solanas che nel 1968 sparò a Andy Warhol, J.K. Rowling accusata di transfobia, Ana Mendieta, la cui carriera di artista fu promossa e allo stesso tempo offuscata da quella del marito Carl Andre, e Willa Cather, autrice di classici americani zeppi di razzismo.

Nel libro, a differenza dell’articolo, Dederer arriva a una sorta di conclusione e potrebbe essere difficile seguirla fino in fondo. Perché per alcune e per alcuni, più delle opere potrebbero contare le vite delle donne vittime degli uomini che le hanno create, e più del proprio amore ferito potrebbero avere la meglio le modalità con cui alcuni artisti hanno approfittato delle loro posizioni, influenzando altri percorsi e altre carriere, schiacciando ambizioni e opportunità. Ma il libro di Dederer, onorando l’impossibilità della missione che fin dall’inizio si è dato e riconoscendo che ciascun sentire è unico e irripetibile, è efficace proprio nel condurci nella ricerca, lontana da dogmi, di una linea di condotta. Consentendo pagina dopo pagina di accogliere e sostenere la contraddizione, di affiancare alla ragione anche l’amore che non sempre, ci suggerisce l’autrice, è coerente con ciò che vorremmo essere.