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  • Lunedì 22 aprile 2024

In cosa si trasformò Gregor Samsa?

La risposta non è scontata, spiega Giorgio Fontana nel suo nuovo libro dedicato a Franz Kafka e, tra le altre cose, al celebre racconto "La metamorfosi"

Statua di Franz Kafka dello scultore ceco Jaroslav Róna, Praga (AP Photo/Petr David Josek)
Statua di Franz Kafka dello scultore ceco Jaroslav Róna, Praga (AP Photo/Petr David Josek)
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La metamorfosi di Franz Kafka è uno dei racconti più conosciuti della storia della letteratura, perché essendo stato citato in innumerevoli contesti e occasioni è noto a grandi linee anche a molte persone che non lo hanno mai letto. E molte di loro sono probabilmente convinte che il protagonista, il commesso viaggiatore Gregor Samsa, si trasformi in uno scarafaggio. In realtà il racconto non dice questo, spiega lo scrittore Giorgio Fontana – peraltro assiduo autore di Storie/Idee sul Post – nel suo ultimo libro, Kafka. Un mondo di verità (Sellerio). È un saggio in cui Fontana, da amante dello scrittore praghese, invita a leggerne l’opera senza preconcetti su cosa significhi “kafkiano”. Ne pubblichiamo un estratto.

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Già i primissimi recensori del racconto ne furono colpiti: nel 1916 Loewenstein parlò del «contrasto con ciò che vale per le metamorfosi delle antiche fiabe popolari, nelle quali l’uomo viene sì magicamente trasformato in orso o in ranocchio, ma solo per riacquistare – attraverso prove e peripezie – la pienezza della dignità umana». In tal senso tradurre Die Verwandlung con La metamorfosi – in luogo di un più ovvio La trasformazione – conserva una punta di sapore arcaico che non stona affatto: al pari di altri personaggi mitologici, ad esempio Atteone reso cervo per aver spiato Diana, anche Gregor subisce un mutamento definitivo. La differenza sostanziale è che Gregor non ha fatto nulla per meritarsi un simile castigo: qualsiasi traccia di ammonimento morale evapora a contatto con la parola kafkiana.

E tuttavia, oltre a testimoniare un mistero irriducibile, mi pare che La metamorfosi illumini una violenza molto diversa e forse peggiore di quella mitica: la violenza del lavoro e della famiglia. Kafka scrisse il racconto verso la fine del 1912 ma lo pubblicò solo tre anni dopo, prima per la rivista Die weissen Blätter – con scarsissima cura editoriale, di cui si lamentò – e poi in volume per la collana «Der jüngste Tag» di Kurt Wolff. Probabilmente è il suo testo più celebre; di certo è uno dei più perfetti e sconvolgenti, benché Kafka se ne dicesse come sempre insoddisfatto.

La trama è più o meno nota a chiunque: il commesso viaggiatore Gregor Samsa si sveglia una mattina trasformato in insetto e ciò provoca una serie di incidenti tra il grottesco e il terribile con la famiglia e altri avventori della casa, fino alla morte di Gregor. In una lettera a Felice Bauer, Kafka disse che avrebbe voluto leggerle il racconto ma tenendole una mano, «perché la storia è un po’ paurosa»: a dir poco un eufemismo.

Come abbiamo già visto, secondo un tipico meccanismo kafkiano, il fatto aberrante da cui prende avvio la storia è coperto da una patina di rapida accettazione. Ancora a letto Gregor effettua una ricognizione del suo nuovo corpo, ma senza farsi domande sulla trasformazione in quanto tale; più che altro si rassegna. Qui in effetti è ancora molto essere umano lavoratore e ben poco insetto: si lamenta a lungo della durezza della professione (che avrebbe abbandonato da tempo se non dovesse provvedere alla famiglia); è terrorizzato perché ha perso il primo treno e rischia di mancare quello delle sette; pensa di darsi malato ma sarebbe imbarazzante – non ha mai preso permessi, e il principale lo potrebbe rimproverare di essere un fannullone. Infine, quando il procuratore aziendale è in effetti giunto a far luce sull’assenza e lo minaccia dietro la porta chiusa, Gregor si chiede perché la sua ditta sia immersa in un clima di perenne sospetto e intimidazione.

Una lettura attenta della Metamorfosi non può dimenticare simili aspetti oppressivi, tutti radicati nel mondo reale e ancora non relativi alla trasformazione in sé: lo sfruttamento professionale fondato sul debito, i crudeli rimproveri del capo, un padre in apparenza fragile e che in realtà si scoprirà essere violento e scroccone, una madre remissiva e una sorella amorevole che alla fine si rivelerà la vera esecutrice – scindendo per sempre «il mostro» da Gregor. Siamo lontanissimi dell’evo classico: il residuo delle metamorfosi mitiche in un appartamento novecentesco non provoca più fascino: è soltanto una sventura di cui liberarsi.

«Non era un sogno», si affretta a precisare il narratore, mentre il primo capitolo si sviluppa con un gioco abilissimo di voci fuori campo, filtrate dalle porte e dai muri, mentre Gregor cerca disperatamente di alzarsi, spiegarsi, aprire la porta con la bocca (una scena di dolente comicità, come il suo dondolarsi giocoso per scendere dal letto). È l’unico personaggio ad apparire per la maggior parte delle pagine, e nell’ambito della finzione ci viene chiesto di credere che sia mutato davvero in un essere con le zampette. Zampette: ecco uno dei fulcri sottovalutati del racconto; arti che vanno ancora più veloci per il nervosismo causato dall’arrivo del procuratore, e che in un panorama statico si agitano mobilissime, quasi allegre, tant’è che quando Gregor morirà piatto e rinsecchito di esse non vi sarà più traccia. Anche per questo è sciocco chiedersi di cosa sia simbolo l’insetto: non è simbolo di alcunché.

Il termine usato da Kafka è Ungeziefer, e nella sua vaghezza comunica un chiaro senso deteriore: parassita, animale infestante (l’aggettivo è ungeheuren, ovvero enorme ma anche mostruoso). Kafka avrebbe potuto usare Insekt, tuttavia è una parola troppo neutra; nel racconto appaiono altre espressioni per indicare l’animale, fra cui Tier e Mistkäfer: quest’ultima indica propriamente lo stercorario, ma è la serva a usarla e possiamo supporre che non abbia conoscenze scientifiche. Ungeziefer comunque è la prima parola e resta a lungo l’unica.

Le speculazioni sulla specie del parassita sono interessanti – l’entomologo Nabokov lo riteneva un maggiolino, i più una blatta o uno scarafaggio, Primo Levi uno scarabeo e così via – ma a mio avviso poco utili, se non controproducenti. Kafka infatti non volle assolutamente un’immagine dell’insetto sulla copertina, ponendo fin da subito un veto alle rappresentazioni precise. L’edizione di Kurt Wolff raffigura dunque un uomo che si ritrae terrorizzato da una porta semiaperta, e questo disegno offre due spunti.

In primo luogo, l’iconoclastia selettiva (le descrizioni sfocate delle sembianze) garantisce che l’insetto resti nell’ambito del vago e del perturbante: ognuno è costretto a immaginarlo nella forma più consona alla propria paura. In secondo luogo, dalla presenza di un familiare in copertina intuiamo che la storia non riguarda solo l’animale-Gregor, ma anche e soprattutto chi vive con lui.

Ecco l’aspetto nascosto del racconto: la capacità di Kafka nel rendere una famiglia alle prese con una sciagura inconcepibile; e di descrivere senza abbellimenti l’odio che può nascere verso chi amavamo, quando all’improvviso cambia e diventa un peso. Nella realtà è una persona completamente paralizzata o affetta da grave demenza senile, ad esempio; qualcuno che grava sulle nostre spalle, nonostante abbia provveduto per anni ai nostri bisogni, lavorando con dedizione, e che ora non può darci nulla in cambio. Nemmeno una parola: Gregor è prigioniero di un corpo mostruoso così come di un linguaggio sconosciuto – un pigolio – benché i suoi pensieri, nonostante alcune oscillazioni, restino saldamente umani. Egli parla, cerca di invocare la madre o l’amata sorella Grete, di chiarirsi con il procuratore, e però anche questo gli è negato: capisce gli altri, ma non può farsi capire.

Un mio amico lesse La metamorfosi durante gli ultimi mesi di malattia del padre, e mi disse soltanto: «Ci ho trovato la riduzione a niente di ciò che era quell’uomo».

© Giorgio Fontana, 2024
In accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency.
© Sellerio editore, 2024

La copertina di "Kafka. Un mondo di verità" di Giorgio Fontana