I limiti dell’esperienza personale

Le persone e le situazioni che conosciamo per via diretta sono alla base dell’immagine spesso incompleta che abbiamo del mondo

esperienza personale
(Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images)
Caricamento player

Uno dei principali argomenti di discussione durante la pandemia, sia nelle prime fasi che dopo lo sviluppo dei primi vaccini, fu il confronto tra la capacità dei media di influenzare l’opinione pubblica rispetto alla capacità dell’esperienza aneddotica di condizionare le singole opinioni delle persone. In un esteso dibattito sui metodi per convincere chi rifiutava di vaccinarsi, la conoscenza diretta di persone che avessero avuto un’esperienza positiva o negativa dopo il vaccino fu descritta da studiosi ed esperti di campagne vaccinali nel mondo come uno dei più potenti fattori di persuasione a fare o non fare il vaccino: più della comunicazione dei dati statistici.

L’esperienza personale è una forma di conoscenza fondamentale per la sopravvivenza e per la nostra comprensione del mondo: dall’alimentazione all’apprendimento del linguaggio, impariamo a fare quello che facciamo prima di tutto osservando chi ci sta intorno. E la nostra comprensione delle cose si sviluppa attraverso le interazioni con le altre persone. Ma l’esperienza personale può anche essere – e di fatto lo è, in moltissimi casi – la principale ragione dell’incompletezza e dell’illusorietà dell’immagine che ci costruiamo del mondo: immagine che, per essere più affidabile e utile, richiede di essere integrata con dati che ricaviamo per altre vie, diverse dall’osservazione diretta.

Per quanto estesa possa essere la sua cerchia di parenti, amici e conoscenti, nessuna persona arriverà mai a conoscere più di una quantità infinitesimale di tutte le persone che popolano il pianeta. Ammettendo che una persona conosca per nome 800 persone – uno studio del 2010 condotto su un campione di statunitensi stimò che in media ne conoscessero 611 – quella persona conoscerebbe, in un mondo con 8 miliardi di persone, lo 0,00001 per cento della popolazione.

È molto difficile farsi un’idea chiara di quanto sia piccola questa percentuale. Come calcolato dall’economista tedesco Max Roser, docente della University of Oxford e fondatore del sito Our World in Data, se la popolazione mondiale fosse rappresentata come un foglio di carta A4, conoscere 800 persone vorrebbe dire conoscere di quel foglio una porzione pari al diametro di un capello umano. Se invece fosse rappresentata come un film di due ore, conoscere 800 persone vorrebbe dire aver visto meno di un millesimo di secondo di quel film: cioè nemmeno il tempo di un fotogramma, che occupa come minimo un sessantesimo di secondo (bisognerebbe conoscere 18mila persone per dire di aver visto un fotogramma del film).

Anche nel caso di una persona con una rete così estesa di conoscenze dirette, l’orizzonte della sua esperienza sarebbe limitatissimo. Per ogni persona da lui o da lei conosciuta, ce ne sarebbero dieci milioni che non conosce. Inoltre, a causa dei vincoli temporali e spaziali a cui è subordinato il nostro stare al mondo, è altamente probabile che la maggior parte delle persone che conosciamo sia molto simile a noi. È probabile quindi che quelle persone non siano in alcun modo un campione rappresentativo né del paese in cui ciascuno o ciascuna di noi abita, né tantomeno del mondo.

Il discorso non cambia di molto nemmeno estendendo la rete di relazioni personali, ovvero se si prende in considerazione non il numero di persone conosciute per nome ma, per esempio, la quantità di persone con cui parliamo ogni giorno senza necessariamente conoscerle. Ipotizzando di avere ogni giorno per 73 anni una conversazione con tre persone mai conosciute prima, scrive Roser, alla fine avremo conversato con 80mila persone diverse: lo 0,001 per cento della popolazione. Per ognuna di quelle persone ce ne saranno altre 100mila con cui non avremo parlato.

– Leggi anche: Comprendere i grandi numeri

Uno dei principali limiti dell’esperienza personale come strumento di interpretazione della realtà, sia quella fisica che quella sociale, consiste nel fatto che non permette di comprendere gli effetti cumulativi dei cambiamenti di scala. In molti casi questi cambiamenti – dal cambiamento climatico alla creazione dei buchi neri all’improvvisa ebollizione dell’acqua in un pentola riscaldata lentamente – vanno infatti molto oltre le nostre capacità di percezione, e spesso anche di immaginazione. Ed è questa la ragione per cui spesso non li vediamo proprio arrivare, come scrisse nel 2015 la scrittrice statunitense e giornalista scientifica K. C. Cole, autrice del libro del 1998 The universe and the teacup: the mathematics of truth and beauty (edito anche in Italia, ma da tempo fuori catalogo).

In particolare, la nostra esperienza personale si dimostra molto inefficace per la comprensione dell’«amplificazione esponenziale», scrive Cole. Anche per le persone in grado di cogliere facilmente la differenza tra un milione e un miliardo sul piano intellettivo, per esempio, può essere molto difficile comprendere quella stessa differenza «sul piano viscerale». A causa del modo in cui il nostro cervello condensa i dati e le informazioni difficili da gestire, secondo Cole un miliardo ci sembra una quantità più vicina a tre volte un milione, rispetto a mille volte, quant’è davvero.

Questo limite emerge spesso quando si parla di cambiamento climatico, scrive Cole citando il fisico statunitense Albert Bartlett. Preoccupato dal fatto che gli esseri umani siano incapaci di cogliere sul piano intuitivo il concetto di crescita esponenziale – un cambiamento che a ogni passo va molto più veloce del passo precedente – Bartlett sosteneva che non comprendere le conseguenze della crescita esponenziale della popolazione significasse non comprendere l’inevitabilità e la velocità dell’esaurimento delle risorse. In definitiva, non comprendere un fenomeno che più diventa grande, più velocemente cresce.

Per spiegare le implicazioni dell’incapacità di comprendere i fenomeni basati sulla crescita esponenziale, e in particolare il problema delle risorse, Bartlett fece l’esempio di una popolazione di batteri che vive in una bottiglia vuota di Coca-Cola e raddoppia una volta ogni minuto. Ipotizzando di mettere due batteri nella bottiglia alle 11 e che entro mezzogiorno la bottiglia sia piena, Bartlett si chiese a che ora i politici della terra dei batteri si accorgerebbero di aver esaurito ogni spazio. Probabilmente non prima delle 11:59, momento in cui la bottiglia dopotutto sarebbe ancora mezza vuota. E se anche i batteri trovassero poi il modo di occupare altre due bottiglie vuote, avrebbero a disposizione soltanto un altro minuto prima di ritrovarsi con lo stesso problema di spazio.

E proprio come l’esperienza personale pone dei limiti alla nostra capacità di comprendere i numeri, li pone anche alla nostra capacità di cogliere dimensioni che vanno oltre la scala umana, in ambienti dominati da leggi di natura di altro tipo. Le mosche, per esempio, possono camminare sulle pareti senza cadere per terra perché nella loro scala le forze elettrostatiche sono più rilevanti della forza di gravità, appena percettibile. Ma al cambiare della scala, cambiano le proprietà delle particelle. E all’aumentare della massa tutto comincia ad assomigliarsi, oltre una certa soglia, e la gravità comprime ogni cosa in sfere e dischi: che è la ragione per cui, scrive Cole citando il fisico statunitense Philip Morrison, «nel nostro mondo non è possibile una tazza da tè del diametro di Giove».

– Leggi anche: Giove visto dal James Webb Space Telescope

Per comprendere il mondo oltre l’orizzonte della nostra esperienza personale è quindi necessario, e in un certa misura inevitabile, formulare ipotesi e trarre conclusioni non basate sull’osservazione diretta dei fenomeni. Ciò che sappiamo del mondo, in un modo o nell’altro, deriva da dati ricavati attraverso i media: che sia la televisione, la radio, i giornali, i social o altro. Ed è un fatto così ovvio, ha scritto Roser, che tendiamo a dimenticare quanto sia importante: «Tutto ciò che senti di qualcuno che si trovi a più di qualche decina di metri di distanza da te, lo sai attraverso un media di qualche tipo».

Ne deriva che la nostra comprensione del mondo dipende per una parte rilevante dai media a cui attribuiamo implicitamente il compito di completare, a volte contraddire, l’immagine parziale del mondo definita dalla nostra esperienza personale. Ma per quanto preziosa e completa possa essere, anche quella fornita dai media è un’immagine parziale del mondo, ricorda Roser. Dai media veniamo a sapere generalmente ciò che di insolito è accaduto nel mondo: quante persone sono rimaste uccise in un terremoto o in un attentato, per esempio, ma non «il fatto che ogni giorno muoiono 16mila bambini».

Raccontare cosa succede ogni giorno ovunque nel mondo sarebbe ovviamente impossibile, prosegue Roser, ma in un certo senso «raccontare tutte le storie» è l’ambizione della statistica. Tanto più complete e accurate sono quelle raccolte nel mondo, tanto più affidabili e meno condizionate dalle limitazioni dell’esperienza personale e dell’attenzione mediatica sono le conclusioni che è possibile trarre su una popolazione nel suo insieme.

Le statistiche sono anche lo strumento che più facilmente permette di apprezzare i cambiamenti nel corso del tempo: cambiamenti spesso molto sorprendenti per chi invece basa la propria visione del mondo principalmente sul racconto mediatico. Mentre i media si concentrano prevalentemente «sulle cose che vanno male», scrive Roser, le statistiche storiche permettono di comprendere gli immensi progressi compiuti nel mondo a prescindere dalle conclusioni tratte sulla base delle diverse prospettive quotidiane assunte di volta in volta. Anche se potrebbe sembrare il contrario, leggendo molti giornali, in Italia per esempio i reati sono in calo da anni.

– Leggi anche: Il declino morale della società è un’illusione

Questo non significa che le statistiche siano un modo perfetto o sufficiente di interpretare il mondo. In molti casi i dati statistici possono non essere rappresentativi – o perché parziali a loro volta, o perché calibrati male – o mancare del tutto. E chiunque tenga conto soltanto delle statistiche per farsi un’idea del mondo, scrive Roser, «deve essere consapevole di queste carenze» e di quanto sia fondamentale il bisogno di raccogliere e produrre buone statistiche nel mondo.

Le statistiche e i dati sono inoltre necessari per comprendere il mondo tanto quanto il racconto è necessario sia nella comunicazione della scienza, come scritto da Cole, che nell’informazione. Perché, conclude Roser, «una visione statistica senza esperienza personale manca di profondità, e l’esperienza personale senza conoscenza statistica manca di prospettiva».