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  • Martedì 10 ottobre 2023

Israele era distratto

La discussione su come sia stato possibile l'attacco di Hamas è appena cominciata, ma oltre ai problemi di intelligence ed esercito ci sono state le scelte politiche di Netanyahu

Un soldato israeliano vicino al confine con la Striscia di Gaza (AP Photo/Oren Ziv)
Un soldato israeliano vicino al confine con la Striscia di Gaza (AP Photo/Oren Ziv)
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Dal giorno dell’attacco senza precedenti di Hamas contro Israele si discute molto di come sia stato possibile che lo stato di Israele, che a livello militare e di intelligence è uno dei più avanzati e forti del Medio Oriente, non sia riuscito dapprima a prevedere e poi a fermare un’aggressione militare compiuta da un gruppo militarmente molto meno forte e preparato. Del fallimento di Israele si parlerà probabilmente molto a lungo, e quello che è successo sarà oggetto di studi e commissioni d’inchiesta. Già in questi giorni una delle questioni principali ha riguardato il fallimento dell’intelligence, cioè l’incapacità dei servizi segreti israeliani di comprendere che Hamas stava preparando un’invasione massiccia del territorio israeliano.

Al fallimento dell’intelligence e a quello militare bisogna aggiungere anche il fallimento della classe dirigente israeliana e in particolare del governo di Benjamin Netanyahu, il più a destra della storia di Israele. Netanyahu è stato primo ministro di Israele per buona parte degli ultimi 15 anni e nel tempo ha indirizzato la politica e la vita pubblica su priorità sempre più lontane dalla sicurezza nazionale e dalla risoluzione della questione palestinese. Questa situazione  ha progressivamente portato a un indebolimento della capacità di Israele di rispondere a un attacco come quello fatto sabato da Hamas.

Il fallimento dell’intelligence
Il primo e più evidente problema per Israele è stata l’incapacità dell’intelligence di prevedere che Hamas stava preparando un grosso attacco. Un attacco coordinato di questo genere, che è stato portato avanti via terra, via aria e via mare e ha coinvolto, secondo stime fatte da Reuters, circa un migliaio di persone, è stato sicuramente preparato intensamente e per mesi. Israele usa sistemi di sorveglianza sofisticati nella Striscia di Gaza, e i suoi servizi di sicurezza hanno spie infiltrate all’interno delle principali organizzazioni armate che operano nella Striscia.

Secondo un’inchiesta molto informata fatta da Reuters, Hamas è riuscita a portare avanti la preparazione dell’attacco senza essere scoperta soprattutto grazie a una complessa operazione di inganno e depistaggio. Per almeno un paio d’anni, cioè dalla fine dell’ultima guerra con Israele avvenuta nel 2021, Hamas ha fatto credere all’intelligence israeliana di non essere pronta a un nuovo confronto armato. Ha interrotto completamente i lanci di razzi dalla Striscia (soltanto il più piccolo gruppo radicale del Jihad Islamico ha continuato sporadicamente) e ha fatto in modo di mostrarsi interessata agli incentivi economici che Israele offriva per abbandonare la politica del terrore, come per programmi di sviluppo che consentivano agli abitanti della Striscia di lavorare in territorio israeliano.

Una fonte dentro all’apparato di sicurezza israeliano ha detto a Reuters che l’intelligence era convinta che Hamas fosse più interessata a governare la Striscia di Gaza piuttosto che a «uccidere gli ebrei». Per questo, anche se nel frattempo venivano fatti addestramenti militari di centinaia di uomini all’interno della Striscia, l’intelligence israeliana li derubricava a esercizi di routine, e non alla preparazione di una grossa operazione.

A questo si è aggiunta una politica di assoluta segretezza: soltanto pochissime persone anche all’interno della dirigenza di Hamas sapevano del piano di attacco, per evitare che le spie israeliane lo venissero a sapere. Anche gli uomini che per mesi si sono addestrati non sapevano davvero per che cosa si stavano addestrando.

Il fallimento militare
All’incapacità dell’intelligence israeliana di prevedere l’attacco di Hamas si aggiunge quella dell’esercito di contrastarlo efficacemente una volta iniziato. Almeno in teoria, la frontiera fortificata tra Israele e la Striscia di Gaza avrebbe dovuto essere sorvegliata continuamente e non avrebbe dovuto essere così facile da manomettere e abbattere. Anche una volta abbattuta, inoltre, è difficile capire come sia stato possibile che i miliziani di Hamas abbiano percorso indisturbati decine di chilometri in motocicletta fino ad arrivare agli insediamenti e ai kibbutz israeliani, dove hanno compiuto violenze terribili contro i civili e rapito decine di persone.

Un uomo preso in ostaggio nel kibbutz di Kfar Azza (AP Photo/Hatem Ali)

Una donna presa in ostaggio nel kibbutz di Kfar Azza (AP Photo/Hatem Ali, File)

L’esercito israeliano dispone di elicotteri e jet militari che una volta individuati i miliziani avrebbero potuto alzarsi in volo per intercettarli, e gli insediamenti vicino al confine con la Striscia di Gaza, che sono notoriamente più esposti alle minacce di Hamas, avrebbero dovuto essere meglio protetti con mezzi e soldati. Se questo non è successo è in parte perché la minaccia di Hamas era stata sottovalutata e nessuno dentro alla comunità dell’intelligence israeliana credeva davvero che un attacco come quello di sabato fosse possibile.

In secondo luogo perché la presenza dell’esercito israeliano nel sud del paese, vicino alla Striscia di Gaza, era «scarsa e mal preparata», come ha detto un analista statunitense sempre a Reuters. Negli ultimi anni una parte consistente delle forze militari israeliane di stanza nel sud era stata trasferita a nord per operare in Cisgiordania e proteggere le comunità dei coloni israeliani in quell’area. Effettivamente è vero che negli ultimi anni le violenze si erano concentrate soprattutto in Cisgiordania, ma è anche vero che la protezione dei coloni è da sempre una delle priorità politiche dei governi di destra ed estrema destra di Netanyahu.

La profonda impreparazione dell’esercito nel sud di Israele si è vista anche nella risposta all’attacco: a quello che dovrebbe essere uno degli eserciti più preparati del mondo sono serviti tre giorni pieni per eliminare del tutto i miliziani palestinesi dal proprio territorio. Nelle prime fasi dell’attacco, sabato, i miliziani sono riusciti a entrare in almeno una base militare israeliana e a dare fuoco ai mezzi blindati dell’esercito, quasi indisturbati. Nelle comunità israeliane attaccate, per ore la popolazione è rimasta in balia dei miliziani di Hamas, che hanno massacrato indiscriminatamente prima che i soldati arrivassero.

Il fallimento politico
I problemi dell’intelligence e quelli dell’esercito hanno almeno in parte un’origine politica, e derivano dalle decisioni prese da Netanyahu, che ha governato il paese per buona parte degli ultimi anni. Molti hanno notato come la recente disputa sulla riforma della Corte Suprema israeliana abbia coinvolto i riservisti dell’esercito, che negli scorsi mesi avevano spesso rifiutato le chiamate obbligatorie, in una specie di sciopero che non si era mai visto in Israele e che forse ha creato alcuni problemi immediati alla preparazione dell’esercito.

Ma le decisioni problematiche di Netanyahu sono molto più antiche e profonde. Anzitutto, negli anni Netanyahu è stato in più di un’occasione accusato di indebolire l’esercito e l’intelligence e di cercare di sottomettere entrambi alle sue priorità politiche. Benché possa sembrare strano per sistemi politici europei, dove sono i politici di destra ad avere maggiori affinità con le forze armate e di polizia, in Israele l’esercito è una forza relativamente moderata e laica, che spesso è vista come un elemento di contrapposizione alla destra estremista religiosa alleata di Netanyahu. Dall’esercito sono emersi alcuni dei più noti avversari politici di Netanyahu, come Ehud Barak, che fu capo di stato maggiore, e Benny Gantz, che è uno dei leader attuali dell’opposizione e che fu anche lui capo di stato maggiore.

Benjamin Netanyahu durante una riunione sull’attacco di Hamas, Tel Aviv, 8 ottobre. La foto è stata diffusa dall’ufficio stampa del governo israeliano (EPA/AMOS BEN-GERSHOM/GPO via Ansa)

Benché per molti anni il soprannome di Netanyahu sia stato “Mr. Security”, mister sicurezza, in realtà nel corso degli anni sono stati tantissimi i membri della comunità della difesa israeliana che hanno criticato apertamente Netanyahu e le sue politiche, compresi alcuni ex capi del Mossad, i servizi segreti esterni, e dello Shin Bet, i servizi segreti interni. Secondo molte analisi Netanyahu, vedendo nella leadership delle forze armate e dell’intelligence un possibile avversario interno, l’ha molto spesso indebolita, anziché rafforzarla.

Un’altra ragione piuttosto importante del fallimento politico è che, soprattutto negli ultimi anni, i governi di Netanyahu hanno avuto priorità politiche totalmente differenti dalla sicurezza nazionale. Netanyahu ha dovuto affrontare processi per corruzione (alcuni dei quali ancora aperti) e soprattutto dopo le ultime elezioni ha legato la sua sopravvivenza politica alla formazione della coalizione più di estrema destra della storia di Israele, che comprende partiti fondamentalisti ebraici. La coalizione si è concentrata su riforme controverse come quella della Corte Suprema e su un sostegno senza condizioni al movimento dei coloni che costruiscono insediamenti sui territori palestinesi della Cisgiordania: la difesa dei coloni, tra le altre cose, aveva impegnato moltissime risorse dell’esercito lontano dalla Striscia di Gaza.

– Leggi anche: Cosa sono le colonie israeliane

«Il governo era fissato con un piano che non aveva niente a che vedere con la sicurezza nazionale», ha detto al New York Times Yuval Shany, un professore dell’Università ebraica di Gerusalemme. Nel perseguire questo piano, Netanyahu aveva convinto buona parte del suo elettorato – e dell’opinione pubblica israeliana – che la questione palestinese non fosse davvero una priorità da risolvere, ma un problema che poteva essere gestito con espedienti temporanei, e che il modo migliore per garantire la sicurezza di Israele era mantenere lo status quo. Per anni Netanyahu ha di fatto cercato di rendere trascurabile la questione palestinese, normalizzando le relazioni di Israele con vari paesi arabi e cercando di costruire un nuovo sistema di alleanze regionali che prescindesse dalle condizioni dei palestinesi.

In questo senso, la politica di Netanyahu ha avuto successo: per anni la questione palestinese è «sparita dall’agenda politica globale», come ha scritto il New York Times. Anche all’interno di Israele si era cominciato a pensare che fosse possibile mantenere per sempre lo status quo, e che la questione non dovesse essere affrontata come un problema politico, con negoziati e trattative, ma come un problema di sicurezza, con l’esercito e la sorveglianza. Sabato questo approccio è fallito in maniera spettacolare.