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  • Domenica 8 ottobre 2023

Che cosa sono i kibbutz

Hamas ha attaccato anche alcune delle tipiche comunità egalitarie israeliane, con uccisioni e sequestri di persona

Una casa del kibbutz di Kfar Aza, vicino alla Striscia di Gaza, incendiata durante un attacco di Hamas, sabato 7 ottobre (AP Photo/ Hassan Eslaiah)
Una casa del kibbutz di Kfar Aza, vicino alla Striscia di Gaza, incendiata durante un attacco di Hamas, sabato 7 ottobre (AP Photo/ Hassan Eslaiah)

Sabato mattina durante le incursioni via terra in Israele alcuni miliziani palestinesi del gruppo radicale Hamas hanno attaccato una festa all’aperto organizzata vicino al kibbutz di Urim, una comunità a circa 15 chilometri dalla Striscia di Gaza, nel sud di Israele. In seguito ci sono stati scontri tra miliziani palestinesi e l’esercito israeliano sia nel kibbutz di Be’eri che in quello di Re’im, entrambi a pochi chilometri dalla Striscia. Durante la giornata l’agenzia di stampa Associated Press ha pubblicato varie fotografie di edifici danneggiati e persone israeliane uccise o prese in ostaggio sempre da kibbutz vicini alla Striscia, che di norma sono costantemente sorvegliati dall’esercito o da servizi di sicurezza interni.

I kibbutz sono piccole comunità ebraiche egalitarie, nate soprattutto prima e dopo la Seconda guerra mondiale. Oggi in Israele ce ne sono più o meno 250, con una popolazione totale di circa 125mila abitanti: nacquero essenzialmente come comunità di agricoltori, ma nel tempo si sono evolute.

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Il termine “kibbutz” viene dalla parola ebraica che significa “ritrovo” o “collettivo” (“kibbutzim” al plurale) e indica una specie di comune basata su principi egalitari fra gli uomini e le donne che ne fanno parte. Sono comunità autosufficienti che generalmente hanno tra i cento e i mille abitanti e si autogovernano con un sistema di democrazia diretta. A volte sono delimitate da cancelli o filo spinato, e a volte semplicemente da uliveti, campi coltivati o dal deserto.

Tutti i membri percepiscono lo stesso stipendio e ricevono gratuitamente una casa e un lavoro, spesso nei campi o nelle fabbriche interne al kibbutz, e hanno diritto a decine di altri servizi, come le cure mediche: tutto quello che si guadagna viene reinvestito nella comunità. In un kibbutz si cucina e si mangia tutti insieme. In origine i bambini non crescevano con i propri genitori, ma venivano allevati tutti insieme da membri incaricati di occuparsi di loro, e vedevano i genitori per qualche ora al giorno. Ora non è più così. Chi nasce dentro a un kibbutz comunque non è obbligato a restarci.

Una donna presa in ostaggio dal kibbutz Kfar Aza viene portata nella Striscia di Gaza, sabato 7 ottobre (AP Photo/ Hatem Ali)

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La prima comunità di questo tipo fu fondata nel 1910 a Deganya, in Palestina, e poi ne seguirono molte altre, sempre più grosse e organizzate, la stragrande maggioranza delle quali nate come comunità agricole o di piccola industria, con tendenze isolazioniste e anche un po’ hippie, quelle del “ritorno alla terra”.

Nei primi anni di esistenza dello stato di Israele, fondato nel 1948, i kibbutz erano la colonna pratica e simbolica del progetto ebraico in Palestina: centinaia di famiglie e ragazzi ebrei arrivarono da tutto il mondo – perlopiù dall’Occidente, sfuggendo spesso a persecuzioni – per costruire villaggi, fabbriche e fattorie in una terra poco ospitale, in mezzo a mille difficoltà.

Nei nuovi villaggi, la vita fu impostata sulla base di un rigido socialismo, che a causa della sua forte componente comunitaria aveva molto attecchito nelle menti dei primi intellettuali sionisti. Le foto di ragazzi in canottiera e pantaloncini che costruiscono cose in mezzo al deserto, circolate molto in quegli anni, rispecchiano l’immagine che Israele voleva dare di sé: un paese giovanissimo, dinamico e fatto da persone che si erano lasciate dietro le loro vite per costruire una società che volevano più giusta e sicura.

Due donne scavano la terra durante la costruzione del nuovo kibbutz di Yazur, vicino alla città israeliana di Acri, il 20 gennaio del 1949 (AP Photo)

Il modello del kibbutz iniziò ad andare in crisi già negli anni Settanta, soprattutto a causa dei debiti accumulati nel tempo e dello sviluppo vorticoso delle prime città israeliane, che attrasse molti dei giovani nati e cresciuti nei kibbutz. Dalla fine degli Ottanta fino ai primi anni Duemila, quando a tutti i kibbutz venne offerta la possibilità di privatizzare le proprie attività, il numero di abitanti calò di circa un decimo, dai 129mila registrati nel 1989 a circa 116mila. Negli ultimi tempi però i numeri sono tornati a crescere, fino a raggiungere lo storico picco di 143mila abitanti nel 2010.

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Nel frattempo però la maggior parte dei kibbutz è diventata qualcos’altro: una stima del 2010 diceva che, sui 262 kibbutz allora esistenti, 188 erano governati con una nuova formula che prevedeva salari differenziati per i suoi membri, 9 con un metodo misto e 66 con il modello “classico”. A Revivim, nel sud di Israele, da qualche anno ha aperto il primo incubatore di startup – cioè una società che le finanzia e aiuta nelle prime fasi della loro vita – gestito direttamente da un kibbutz, dentro il kibbutz stesso. Altre comunità si sono reinventate come strutture turistiche.

Leggermente diversi dai kibbutz ma basati su concetti simili sono i moshav, ovvero comunità fondate sulla cooperazione tra famiglie di agricoltori. A differenza dei kibbutz, i membri di queste comunità mantengono una maggiore autonomia in termini economici, però continuano a condividere benefici e a darsi assistenza reciproca. Il tipo di moshav più comune è costituito da appezzamenti agricoli coltivati in forma privata dalle famiglie; ci sono poi moshav in cui la terra viene coltivata come se fosse un’unica azienda, in maniera più simile ai kibbutz, ma le famiglie si gestiscono in maniera indipendente.

Il primo moshav fu fondato nel 1921 a Nahalal, vicino a Nazaret, nel nord di Israele, e la maggior parte sorse attorno alla metà del Novecento. Secondo dati aggiornati al 2018, in tutto Israele ce n’erano 451.

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