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  • Martedì 10 ottobre 2023

Cosa significa per un giudice essere imparziale

Il caso di Iolanda Apostolico ha aperto un dibattito sul confine tra il diritto di manifestare il proprio pensiero e la necessità di essere e apparire sopra le parti

Un frame del video pubblicato su X da Matteo Salvini
Un frame del video pubblicato su X da Matteo Salvini

Tra giovedì e domenica il ministro Matteo Salvini e la Lega hanno diffuso tre video in cui si vede la giudice Iolanda Apostolico partecipare a una manifestazione a favore dei migranti a Catania, nel 2018. Alla fine dello scorso settembre la stessa giudice aveva annullato la richiesta di detenzione per quattro migranti tunisini nel nuovo Centro per le procedure accelerate di Pozzallo, in provincia di Ragusa, giudicando illegittime alcune parti del decreto “Cutro”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato che impugnerà la sentenza, nel frattempo sia il tribunale di Firenze che un altro giudice di Catania hanno annullato altre espulsioni con le stesse motivazioni sostenute da Apostolico.

La legittimità della sentenza sarà esaminata nel merito dalla Cassazione, ma negli ultimi giorni la diffusione dei video ha aperto un dibattito che riguarda un altro livello di legittimità: l’imparzialità di giudici e magistrati e in particolare l’opportunità che prendano posizione pubblicamente su alcuni temi.

L’articolo 1 di un decreto legislativo del 2006 indica i doveri dei magistrati. Devono lavorare con «imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio» e rispettando «la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni». Nella prima versione del decreto c’era anche un comma 2, poi abrogato con una successiva legge (la 269 del 2006), che ordinava ai magistrati anche di non «tenere comportamenti, ancorchè legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria» al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni.

Tra i casi di sanzione eliminati c’è anche «rilasciare dichiarazioni ed interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura» e «la pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine a un procedimento in corso quando, per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio è espresso, sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento» oltre a «ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza».

Di fatto quindi non esistono leggi che vietano ai magistrati di manifestare il proprio pensiero pubblicamente, un diritto tutelato per chiunque dalla Costituzione. Tuttavia nel 2010 l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), l’organo di rappresentanza sindacale dei magistrati, ha approvato un codice etico con alcune indicazioni sul comportamento che i magistrati dovrebbero rispettare. Nella vita sociale «il magistrato si comporta con dignità, correttezza, sensibilità all’interesse pubblico. Nello svolgimento delle sue funzioni e in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di imparzialità».

L’articolo 6 dice che «fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione». Inoltre deve evitare di partecipare a trasmissioni nelle quali si discute di procedimenti giudiziari in corso. L’articolo 8 chiarisce che «il magistrato garantisce e difende, all’esterno e all’interno dell’ordine giudiziario, l’indipendente esercizio delle proprie funzioni e mantiene una immagine di imparzialità e di indipendenza».

Il codice etico dà un orientamento ai magistrati e non è vincolante in senso stretto perché non sono previste sanzioni, anche se può essere utilizzato per sostenere procedure di illeciti disciplinari, previste invece dalla legge. In questo caso le sanzioni sono graduali: ammonimento, censura, perdita dell’anzianità, sospensione delle funzioni per un determinato periodo, rimozione.

In diverse sentenze i giudici della Corte di Cassazione hanno dato un’interpretazione più restrittiva rispetto alla legge e al codice etico. In un pronunciamento del 1998, per esempio, i giudici hanno scritto che «l’esercizio della funzione giurisdizionale impone al giudice il dovere non soltanto di “essere” imparziale, ma anche di “apparire” tale; gli impone non soltanto di essere esente da ogni “parzialità”, ma anche di essere “al di sopra di ogni sospetto di parzialità”. Mentre l’essere imparziale si declina in relazione al concreto processo, l’apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente [intrinseco, connaturato, ndr] alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l’esercizio della giurisdizione come funzione sovrana: l’essere magistrato implica una “immagine pubblica di imparzialità”».

Ma la stessa Cassazione, nella sentenza che ha vietato a Michele Emiliano di iscriversi al PD, rileva che in un sistema costituzionale maturo la condivisione di un’idea politica e persino la manifestazione espressa di appartenenza a un partito politico non sono incompatibili in quanto tali con l’esigenza di imparzialità: «purché ovviamente l’attività politica sia svolta al di fuori del servizio e senza contaminazioni tra gli interessi perseguiti nell’esercizio delle pubbliche funzioni e quelli privatamente coltivati».

Insomma, le interpretazioni della legge e del codice etico possono differire, molto dipende dai singoli casi. Negli ultimi giorni su queste sfumature e sul concetto di opportunità si sono interrogati diversi ex giudici e magistrati, politici, oltre a giornalisti e opinionisti.

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, ex magistrato e procuratore aggiunto di Venezia, ha detto in un’intervista a Libero che i limiti di un magistrato sono fissati da varie pronunce della giurisprudenza, ma soprattutto dalla deontologia e dal buon senso, poiché più manifesta le sue idee politiche e più mette a rischio la presunzione di imparzialità. «La giudice poteva manifestare, ma non doveva», ha sintetizzato Nordio.

Salvatore Casciaro, giudice della Corte di Cassazione e segretario dell’ANM, ha detto al Corriere della Sera che al posto di Apostolico non avrebbe partecipato alla manifestazione, per salvaguardare l’apparenza di imparzialità e perché l’esercizio dei diritti costituzionali andrebbe svolto con discrezione: «Lo dice la Corte Costituzionale, per evitare che un giudice si cali in contesti conflittuali, posizioni partitiche o proteste di piazza. Altrimenti si rischia di perdere la capacità di fare un passo indietro e valutare con sereno distacco contesti di tensione sociale».

Allo stesso tempo Casciaro ha spiegato che andrebbe ricostruito il contesto della manifestazione a cui partecipò Apostolico. «Quella manifestazione non si può incasellare come partitica o contro il governo, ma di ispirazione umanitaria», ha detto il giudice. «Su quei migranti, a bordo di una nave da guerra, cui veniva vietato lo sbarco, erano intervenuti la CEI [Conferenza episcopale italiana, ndr], la Caritas, il presidente Mattarella e l’Alto commissario Onu. Leggo che all’epoca, poi, la collega non si occupava di immigrazione».

Armando Spataro, ex procuratore di Torino, ha invece sostenuto il diritto della giudice Apostolico di partecipare alla manifestazione perché «l’opportunità è un concetto che ciascuno può valutare nel modo in cui crede» ed è assurdo «pensare che un magistrato sia un componente delle istituzioni con diritti diminuiti o che la sua immagine venga totalmente lesionata al punto da non poter poi giudicare».

Un punto di vista argomentato è stato scritto da Nello Rossi, direttore di Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica, la corrente di sinistra dell’ANM. Rossi scrive che la gamma delle scelte potenzialmente inopportune per un giudice è molto vasta e varia a seconda delle suscettibilità di chi osserva. Secondo alcuni sono compromettenti i post sui social, secondo altri la partecipazione a manifestazioni, anche non strettamente politiche, secondo altri ancora un’intervista o un articolo di giornale.

La risposta alla domanda sull’opportunità, sostiene Rossi, non riguarda tanto il dove quanto piuttosto il come un magistrato può prendere parola o partecipare alla vita pubblica preservando la sua credibilità e la sua immagine di imparzialità. «Quando è un magistrato a prendere la parola o a scrivere per il grande pubblico, il cittadino ha il diritto di attendersi che il suo potenziale accusatore o giudice parli e argomenti in modo chiaro e comprensibile; che partecipi al discorso pubblico come un attore razionale, capace di ascolto degli argomenti altrui e di repliche meditate; che non prorompa nell’urlo fazioso, nell’invettiva, nella semplificazione magari brillante ma brutale e fuorviante», ha scritto. Secondo Rossi, insomma, conta che la partecipazione alla vita civile non sia in contrasto con il ruolo sociale e con le aspettative di ragionevolezza, di apertura al dialogo, di equilibrio espressivo e di misura richieste ai magistrati.

In questo senso la giudice stessa ha detto di non essere stata coinvolta nei cori, anzi di avere cercato di evitare ulteriori scontri tra la polizia e i manifestanti, e ha rivendicato il diritto di poter partecipare alle manifestazioni: «A meno che non si voglia tornare a magistrati che si rinchiudono in una torre d’avorio».

I diversi pareri, in molti casi opposti, dimostrano che è complicato trovare risposte certe alle domande che riguardano principi come l’imparzialità o valutazioni personali legate all’opportunità. Un contributo ulteriore al dibattito sulla giudice Apostolico è stato dato da Luigi Ferrarella, cronista del Corriere della Sera, uno dei più rispettati giornalisti italiani che si occupano di cronaca giudiziaria.

Secondo Ferrarella, le campagne mediatiche organizzate da alcuni partiti rischiano di ledere l’indipendenza dei giudici, che potrebbero essere portati a pesare le conseguenze delle loro decisioni sulle loro vite. Il fatto che i giudici siano spinti a farsi domande sulle conseguenze del loro lavoro – «se prendo la decisione verso cui mi sto orientando per legge, mi accadrà qualcosa di bello o di brutto? Mi troverò la vita setacciata dai cassetti del ministro e dai suoi media fiancheggiatori? Sarò favorito o danneggiato nei contesti istituzionali che avranno voce in capitolo sulla mia vita professionale?» – rischia di compromettere il loro giudizio.