Cos’è il “fondo sovrano saudita”

Quanti soldi ha, cosa possiede e a cosa punta il principale strumento alla base del piano di espansione mondiale di Mohammed bin Salman

Il principe saudita Mohammed bin Salman (Leon Neal/Getty Images)
Il principe saudita Mohammed bin Salman (Leon Neal/Getty Images)
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Da tempo i soldi dell’Arabia Saudita sono entrati massicciamente nel mercato dello sport occidentale, dal golf e alle arti marziali, ma soprattutto nel calcio, dove durante l’estate appena trascorsa hanno portato cambiamenti impensabili fino a poco tempo fa, attirando nel campionato locale alcuni dei calciatori e allenatori più famosi del mondo. Un intervento così plateale e capace di surclassare la concorrenza è stato possibile grazie al fondo sovrano saudita, costituito apposta per investire i risparmi di denaro pubblico.

Questo fondo si chiama Public Investment Fund (PIF), ha un valore di oltre 700 miliardi di dollari ed è il principale strumento a disposizione del principe Mohammed bin Salman per mettere in atto il suo piano di crescita e sviluppo economico, che vorrebbe progressivamente emancipare l’Arabia Saudita dalla dipendenza dal petrolio e garantirle un ruolo sempre più rilevante nei settori della tecnologia, della sanità, del turismo e appunto dello sport. Ci sta provando tramite gli investimenti in tantissimi settori diversi e in tutto il mondo. Questi investimenti hanno sollevato enormi discussioni e problemi etici e politici, visto che si tratta di operazioni grazie alle quali una monarchia repressiva come quella saudita sta gradualmente mettendo le mani su vari settori, anche strategici, dei paesi democratici.

Il Public Investment Fund fu costituito nel 1971 per investire i grandi avanzi di denaro pubblico accumulato con l’industria petrolifera. È un fondo sovrano, ossia un fondo di investimento di proprietà dello stato che investe denaro pubblico in strumenti finanziari, come azioni o obbligazioni, o in immobili. Ad avere fondi sovrani sono tipicamente i paesi più ricchi, come quelli esportatori di risorse naturali e petrolio: fanno confluire nel fondo tutti i surplus fiscali, cioè gli avanzi delle tasse, solitamente molto alti in questi paesi, e li usano per investire in attività di vario tipo.

Il fondo saudita ha piani di espansione molto ambiziosi. Vuole accumulare oltre mille miliardi di dollari di investimenti entro il 2025 e almeno raddoppiarli entro il 2030, diventando così il più grande fondo sovrano al mondo, superando quindi quello norvegese, che gestisce investimenti per oltre 1.400 miliardi di dollari. Quello saudita è attualmente il sesto.

Il Public Investment Fund è gestito da Yasir al-Rumayyan, un ex banchiere e attuale presidente di Saudi Aramco, la più grande società petrolifera del paese. Ma dietro la strategia del fondo ha un ruolo importantissimo il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman, che peraltro è presidente del consiglio di amministrazione, composto interamente da ministri del governo saudita. Il ruolo del fondo è infatti centrale all’interno del piano di crescita economica di lungo termine dell’Arabia Saudita voluto proprio da bin Salman. Si chiama “Vision 2030”, prevede un ampio piano di riforme con l’obiettivo di portare alla diversificazione dell’economia entro il 2030, in modo che lo sviluppo e la crescita del paese non dipendano più solo dai proventi dell’industria petrolifera.

Adesso gran parte dell’economia saudita è infatti basata proprio sul petrolio: l’Arabia Saudita possiede il 17 per cento delle riserve mondiali conosciute ed è il secondo esportatore al mondo. Per questo ha un ruolo enorme e discusso nelle politiche petrolifere ed energetiche mondiali.

Per esempio è il paese più potente e con più influenza all’interno dell’OPEC+, l’organizzazione dei principali paesi produttori di petrolio e di cui fanno parte altri paesi autoritari come la Russia, il Venezuela e la Libia: è un cosiddetto “cartello”, con cui i paesi si mettono d’accordo sulle quantità da produrre, col fine ultimo di tenere alte le quotazioni e quindi i loro profitti. Le decisioni dell’OPEC+, di cui appunto l’Arabia Saudita ha il sostanziale comando, influenzano le politiche energetiche mondiali: l’avere il potere di manovrare il prezzo del petrolio a livello mondiale consente loro di ostacolare e manovrare anche il processo di transizione energetica. E l’interesse a mantenere dinamico e forte il mercato delle fonti fossili è particolarmente rilevante per l’Arabia Saudita, per cui quasi la metà del Prodotto Interno Lordo dipende proprio dal petrolio: per questo, il paese ha tutto l’interesse che la transizione energetica mondiale proceda lentamente, nonostante investa anche nelle fonti rinnovabili.

Ma il mantenimento dello status quo energetico non è il solo modo con cui il paese cerca di garantirsi crescita e sviluppo economico. L’obiettivo di bin Salman è anche quello di diversificare l’economia, in modo da garantire al paese altre fonti di entrate: è una strategia che cercano di perseguire quasi tutti i paesi esportatori di energia, consapevoli che i combustibili fossili esistono in quantità limitata e che i mercati energetici sono comunque molto volatili.

Gli investimenti del fondo sovrano servono proprio a potenziare nuovi settori. Il fondo ha investito moltissimo in attività locali, come banche, società di costruzioni, società energetiche (tra cui la Saudi Aramco), compagnie di telecomunicazioni, porti, infrastrutture turistiche e così via. Un settore su cui sta puntando molto è poi quello del trasporto aereo: il fondo ha recentemente inaugurato la compagnia aerea Riyadh Air per incentivare i flussi turistici verso il paese. Tra gli obiettivi del governo saudita c’è anche quello di far aumentare il contributo del settore turistico alla creazione del PIL, fino a portarlo al 10 per cento entro il 2030: è un obiettivo non solo ambizioso, ma forse anche irrealistico, considerando che è un paese perlopiù desertico e che mediamente la quota è ben più bassa nei paesi a forte vocazione turistica (per esempio in Italia il turismo vale il 6 per cento del PIL).

Dal 2017 il fondo ha anche investito e avviato la costruzione di una città futuristica al confine tra Arabia Saudita, Egitto e Giordania. Del progetto non si sa ancora moltissimo: la città si dovrebbe chiamare Neom (una fusione del prefisso neo, che in greco antico significa “nuovo”, e della parola araba mustaqbal, che significa “futuro”) ed essere grande circa 26.500 chilometri quadrati. Nonostante l’ottimismo del governo saudita, però, la costruzione di Neom ha subìto enormi ritardi, e molti esperti sono scettici sul fatto che possa davvero essere costruita (qui un video del cantiere).

A livello internazionale c’è poi una grandissima preoccupazione sul rispetto dei diritti umani nel portare avanti questo progetto: le Nazioni Unite hanno riferito che alcune persone sarebbero state uccise e altre condannate a morte per aver protestato contro la demolizione di interi villaggi per far posto ai cantieri.

– Leggi anche: In Arabia Saudita sono raddoppiate le esecuzioni delle condanne a morte

L’Arabia Saudita è nella cosiddetta lista nera di Amnesty International per le violazioni dei diritti umani ed è uno dei paesi più autoritari al mondo, con una chiara tendenza a reprimere qualsiasi forma di dissenso ed emancipazione.

Per quanto Mohammed bin Salman stia cercando da tempo di dare un’immagine più moderna e presentabile del proprio paese, nella realtà dei fatti perseguita e reprime sistematicamente tutti quelli in grado di minacciare il suo potere. Per esempio è accusato di essere il mandante di molti crimini, compreso l’omicidio di Jamal Khashoggi, dissidente e collaboratore del Washington Post ucciso nel consolato saudita a Istanbul nell’ottobre del 2018. Diverse ong come Human Rights Watch e Amnesty International hanno più volte condannato e chiesto l’abolizione della pena di morte in Arabia Saudita. E diverse condanne per il mancato rispetto dei diritti umani in Arabia Saudita, nel tempo, sono arrivate anche da paesi come Francia e Stati Uniti.

Tutto questo è il motivo per cui a livello internazionale gli investimenti del Public Investment Fund all’estero sono piuttosto preoccupanti: il rischio è che un paese autoritario e in cui non sono garantiti i diritti umani possa gradualmente ottenere sempre più capacità di influenza in settori strategici.

Tra i grossi investimenti degli ultimi anni ci sono infatti quelli nel settore delle telecomunicazioni, forse uno dei più strategici a livello globale. Il fondo sta trattando per ottenere una quota di poco inferiore al 10 per cento in Telefónica, la principale società di telecomunicazioni in Spagna e una delle più grandi in Europa. E lo sta facendo tramite la sua controllata STC, una grossa società del settore con la sede in Arabia Saudita. Il fondo è poi entrato con una quota anche nell’affare delle Vantage Towers, una delle più grosse infrastrutture di rete a livello europeo, che un tempo era proprietà di Vodafone e che ora è stato ceduto a un gruppo di fondi internazionali, tra cui il fondo statunitense KKR e appunto il fondo saudita.

Sul fronte energetico il fondo sta anche cercando di diversificare all’estero gli investimenti rispetto alle fonti fossili, in un tentativo evidente di greenwashing, cioè l’ambientalismo “di facciata” con cui aziende e istituzioni portano avanti tra molta promozione attività sostenibili pur mantenendo quelle inquinanti. Il fondo possiede società attive nel settore delle energie rinnovabili, tra cui la ACWA Power, una società che si occupa di impianti di desalinizzazione dell’acqua e ricerca e sviluppo di tecnologie legate al cosiddetto “idrogeno verde”, ossia l’idrogeno prodotto da fonti rinnovabili. La società ha recentemente stretto alcuni accordi di partnership con aziende italiane, tra cui Eni e A2A, coinvolgendo anche Confindustria. Ha poi il 60 per cento della società automobilistica statunitense Lucid, un produttore di veicoli elettrici con sede in California che sta costruendo la sua prima fabbrica all’estero proprio in Arabia Saudita.

Il fondo ha azioni in varie aziende tecnologiche, come Meta, Microsoft e PayPal. Ha partecipazioni anche in Uber e Starbucks, oltre che in alcune grandi banche d’affari come JP Morgan e BlackRock. Ha poi fatto investimenti in due settori da alto impatto mediatico, quello dei videogiochi e quello dello sport: per quanto riguarda il primo, a febbraio è diventato il maggiore azionista straniero di Nintendo, dopo che aveva partecipazioni importanti anche nelle società Activision Blizzard ed Electronic Arts.

E poi c’è lo sport, e soprattutto il calcio. Recentemente le squadre saudite, alcune delle quali gestite dal governo, stanno ingaggiando alcuni dei più noti calciatori in circolazione grazie alle loro gigantesche disponibilità finanziarie. Il principale campionato di calcio locale è la Saudi Pro League: al momento non è certamente paragonabile ai campionati europei e neanche agli altri tornei più competitivi al di fuori dell’Europa, ma l’obiettivo dell’Arabia Saudita è di migliorarlo sensibilmente nel più breve tempo possibile fino a renderlo un’alternativa valida e competitiva su scala internazionale. Anche senza garanzie sulla qualità del campionato, le squadre saudite sono già riuscite, grazie a stipendi enormi, a convincere molti campioni delle squadre europee a trasferirsi.

Le squadre arabe controllate direttamente dal fondo sono quattro e, non a caso, sono quelle più attive nel calciomercato: l’Al-Ittihad, che ha vinto l’ultimo campionato, l’Al-Nassr in cui gioca già dall’anno scorso Cristiano Ronaldo, l’Al-Ahli e l’Al-Hilal. Il Public Investiment Fund detiene il 75 per cento delle quote di tutte e quattro le società. L’Al-Nassr ha garantito a Cristiano Ronaldo un contratto che gli consentirà di guadagnare oltre 200 milioni di euro in due anni e mezzo fino al giugno del 2025. Karim Benzema, ex compagno di Ronaldo al Real Madrid, si è trasferito all’Al-Ittihad, firmando un contratto da circa 200 milioni di euro che gli verranno pagati in due anni. Lo stesso club ha ingaggiato anche il centrocampista della nazionale francese N’Golo Kanté, che guadagnerà 100 milioni di euro complessivi in quattro stagioni. Il campione brasiliano Neymar è invece andato all’Al-Hilal, dove dovrebbe guadagnare circa 300 milioni di euro in due anni.

Recentemente l’Arabia Saudita ha anche ingaggiato come allenatore della Nazionale maschile l’italiano Roberto Mancini, che ha improvvisamente lasciato la Nazionale italiana.

Oltre al calcio, i sauditi negli ultimi anni hanno investito molto anche in altri settori dello sport e dell’intrattenimento, come la Formula 1, il golf, la pallamano, il rally e le arti marziali. A inizio agosto il fondo ha creato una società controllata proprio per gli investimenti nello sport: la SRJ Sports Investments.

Non è chiaro che tipo di ritorno finanziario possano garantire investimenti del genere: per esempio, le somme pagate ai giocatori e agli allenatori di calcio sono molto sopra la media di mercato, ed è difficile pensare che possano effettivamente essere profittevoli in un campionato di calcio ancora piuttosto modesto come quello saudita. È più probabile che il calcio e altri sport, grazie alla loro grande popolarità, vengano considerati degli strumenti particolarmente efficaci per migliorare l’immagine del paese nel mondo tramite la pratica nota come sportwashing, tentata ad esempio in Qatar con i Mondiali di calcio.

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