Un grosso episodio di riciclaggio di denaro sta mettendo in crisi Singapore

Lo scandalo ha messo in luce alcune storture del modello di sviluppo economico del paese, in un periodo politicamente delicato

Marina Bay, il quartiere centrale di Singapore (AP Photo/Wong Maye-E)
Marina Bay, il quartiere centrale di Singapore (AP Photo/Wong Maye-E)
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A inizio agosto a Singapore è stata scoperta una grossa operazione di riciclaggio di denaro: vale 1,8 miliardi di dollari singaporiani (circa 1,2 miliardi di euro) e le indagini hanno portato all’arresto di 10 persone accusate di aver riciclato denaro proveniente da attività illecite avvenute principalmente in Cina, dalle scommesse clandestine all’usura. Alcuni fondi sono stati trovati anche nelle più grosse banche del paese. Di questo caso si sta parlando non solo per la dimensione dell’operazione – che comunque solleva alcune preoccupazioni sulla presenza di scappatoie nella regolamentazione finanziaria – ma anche perché mostra alcune falle proprio nel modello di sviluppo su cui si è basata la crescita del paese negli ultimi decenni.

Singapore ha prosperato per molto tempo soprattutto grazie alla sua reputazione di “Svizzera dell’Oriente”. Si è mostrato come un luogo sicuro e neutrale per gli affari occidentali, oltre che aperto al commercio e ai capitali internazionali. Oggi questo modello, oltre che esposto agli abusi e alle attività illecite, rischia da una parte di non essere più sostenibile in un mondo sempre più orientato a ostacolare la concorrenza straniera sul mercato nazionale, e dall’altra di non portare più gli stessi benefici di un tempo alla popolazione locale, all’interno della quale le disuguaglianze si sono molto accentuate.

Queste indagini, con tutte le riflessioni che hanno innescato, arrivano poi in un momento molto delicato per il paese: è in corso il rinnovo dei principali incarichi di governo, proprio mentre il paese è alle prese con alcuni eccezionali casi di corruzione tra i politici.

Il successo dell’economia di Singapore ha una storia relativamente recente. Sotto la guida di Lee Kuan Yew – il fondatore della moderna Singapore che è morto nel 2015 – dopo l’indipendenza dalla Malaysia nel 1965 la città-stato fu trasformata da zona arretrata del sud-est asiatico in una delle economie di maggior successo al mondo. Oggi il Prodotto Interno Lordo pro capite è di 91 mila dollari l’anno: superiore a quello di Stati Uniti, Australia, Francia, Regno Unito e non molto indietro rispetto alla Svizzera.

Dopo l’indipendenza Singapore beneficiò di un periodo di rapida industrializzazione e dell’espansione in tutto il mondo del fenomeno della globalizzazione. In più la sua posizione strategica lo rese uno snodo ideale per il commercio e per essere un primo punto di approdo per chi vuole investire in Asia.

Ma la vera differenza la fecero le politiche pubbliche, soprattutto nell’attrazione degli investimenti esteri. Lee capì che incoraggiare gli investimenti stranieri, l’immigrazione di lavoratori qualificati e l’adozione di nuove tecnologie avrebbe consentito il rapido sviluppo del paese. In un’epoca in cui molti stati orientali erano sospettosi nei confronti delle multinazionali, Lee le accolse con basse tasse e burocrazia inesistente.

Ma Singapore è diventato molto di più di un semplice paradiso fiscale perché è riuscito a coniugare il capitalismo con uno stato sociale che proteggeva i cittadini e forniva alloggi, assistenza medica e istruzione. Allo sviluppo economico è corrisposto uno sviluppo sociale del paese, che è riuscito a creare un’identità singaporiana grazie alle politiche di integrazione tra stranieri e popolazione locale: oggi Singapore ha 5,4 milioni di abitanti, di cui poco più del 40 per cento è straniero.

Una festa locale nel centro di Singapore (AP Photo/Yeen Ling Chong)

A politiche economiche estremamente lungimiranti e aperte corrispose però una gestione dello stato molto autoritaria. Lee mostrò poca tolleranza verso il dissenso politico, approvò dure norme contro la corruzione e alcune tra le più rigide leggi al mondo per il controllo delle armi e della droga, introducendo l’obbligo di pena di morte per i colpevoli. Le condanne all’impiccagione erano emesse automaticamente per chi comprava o vendeva anche solo piccoli quantitativi di droga o per chi sparava un colpo d’arma da fuoco commettendo un altro reato, per esempio una rapina, a prescindere dal fatto che qualcuno fosse stato colpito o no.

– Leggi anche: Lee Kuan Yew, l’uomo che costruì Singapore

Il successo economico di Singapore è continuato anche con i successori di Lee, prima con Goh Chok Tong e poi con suo figlio, Lee Hsien Loong, arrivato al potere nel 2004 e ancora in carica come primo ministro. L’economia aperta e votata al commercio si è dimostrata resiliente anche alle tendenze degli ultimi anni, come il crescente protezionismo globale, la crisi economica dovuta alla pandemia, la frammentazione delle catene di approvvigionamento delle merci, le conseguenze economiche della guerra in Ucraina, la crisi energetica e l’inflazione.

Tra queste il protezionismo è il problema più grande per un’economia aperta come quella di Singapore, che rischia di diventare gradualmente meno attrattiva rispetto ai grandi paesi che stanno investendo e attraendo massicciamente capitali grazie a sussidi e incentivi.

Per ora il paese ha retto. Anzi, l’incertezza politica ed economica del mondo occidentale ha rafforzato il ruolo di Singapore come rifugio sicuro per gli affari. La sua reputazione, unita alla fiscalità vantaggiosa, ha aiutato il paese a competere con i massicci sussidi industriali offerti dalle grandi economie, come l’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti o il Next Generation EU in Unione europea.

Gli afflussi complessivi di investimenti diretti esteri sono saliti a 195 miliardi di dollari lo scorso anno, il livello più alto mai registrato, in aumento del 10 per cento solo rispetto all’anno precedente. Singapore è riuscito ad attirare 22,5 miliardi di dollari di investimenti in immobili nel 2022, nonostante a livello globale il settore abbia notevolmente rallentato a causa dell’aumento dei tassi di interesse.

(AP Photo/Wong Maye-E)

Il paese è molto attrattivo anche per gli affari cinesi. Molti parlano di “Singapore-washing”, ossia di un fenomeno con cui le aziende cinesi spostano la propria sede legale a Singapore per mettersi al riparo dal rischio geopolitico di restare in Cina, che ha rapporti economici e commerciali sempre più problematici con il mondo occidentale. Ha aperto un ufficio a Singapore anche HongShan, precedentemente noto come Sequoia China, un enorme fondo specializzato in investimenti in startup tecnologiche cinesi.

Il paese è diventato estremamente attrattivo anche per i milionari cinesi in cerca di stabilità: tasse basse, buone scuole, ottimi gestori di grandi patrimoni e forti legami culturali con la Cina (molti parlano mandarino) sono tutte caratteristiche che negli ultimi anni hanno attratto famiglie milionarie cinesi.

Lo scandalo del riciclaggio di denaro da 1,2 miliardi di euro ha riportato però l’attenzione sul fatto che Singapore si presti talvolta a essere un rifugio anche per capitali provenienti da attività illecite, rischio che negli ultimi anni è pure aumentato.

Da dopo la pandemia a Singapore è cresciuto notevolmente il settore della finanza non tradizionale, quello che non riguarda le banche e gli operatori finanziari più classici. Per esempio sono aumentati i family office, ossia società che gestiscono patrimoni dei privati, e i fondi chiusi, come i trust. Queste attività non implicano automaticamente che ci siano interessi illeciti, ma sono effettivamente più difficili da regolare e da vigilare perché non ricadono nella regolamentazione finanziaria tradizionale, al contrario delle banche.

«Penso che l’indagine sul riciclaggio di denaro scalfisca appena la superficie delle attività illecite che si svolgono qui da anni», ha detto al Financial Times il capo della filiale singaporiana di una grande banca d’investimento internazionale, riferendosi ai grossi flussi di capitali stranieri che venivano da attività illecite portate avanti soprattutto nel sud-est asiatico.

Negli ambienti finanziari è un tema noto ed è improbabile che questa vicenda abbia un grosso impatto nella reputazione di Singapore come paese sicuro e tranquillo per la collocazione di grossi investimenti, anche illeciti. A essere scalfita potrebbe essere però la reputazione di un paese che non ambisce a essere solo un paradiso fiscale, ma anche un luogo di crescita e sviluppo. «È qualcosa che il governo deve gestire meglio, anche per non rischiare l’ascesa del populismo e della xenofobia che ha travolto tanti altri paesi», ha detto il banchiere al Financial Times.

Per il paese il rischio è più di carattere politico e sociale, perché in molti si chiedono se un modello economico così dipendente dai capitali stranieri stia ancora avvantaggiando i cittadini come avveniva in passato. Il rischio, insomma, è quello di alimentare una crescente insofferenza della popolazione locale verso le imprese straniere che arrivano a investire nel paese.

Per esempio, il grande afflusso di milionari e di ricchi lavoratori della finanza ha generato alcune distorsioni nel costo della vita. I prezzi delle case sono saliti tantissimo, sia di quelle in vendita che di quelle in affitto. Nel 2022 il prezzo medio di una casa ha raggiunto la cifra di 1,2 milioni di dollari, la quotazione più alta tra le città della regione Asia-Pacifico. Alla fine dello scorso anno gli affitti delle case private superavano addirittura quelli di New York.

(Clive Rose/Getty Images)

In questo lo stato sociale ha in qualche modo compensato. Molti singaporiani sono protetti grazie a un programma di alloggi statali: quasi l’80 per cento vive in appartamenti statali con contratti di locazione a lungo termine. Ma comunque negli anni il costo dei canoni è aumentato anche per questo tipo di alloggi, insieme al generale costo della vita. Con il risultato che le disuguaglianze sono aumentate notevolmente.

Tutto questo avviene in un momento di transizione nella politica del paese. Dal 1965 è stato ininterrottamente al governo il Partito di azione popolare (Pap), in cui dal 2018 è in corso il “passaggio alla quarta generazione”, che prevede il rinnovamento dei politici nei principali incarichi di governo. È un rinnovamento interno al partito, che non coinvolge attivamente la popolazione. Singapore resta comunque uno stato autoritario, in cui il dissenso è molto difficile, le opposizioni sono quasi inesistenti e la democrazia elettiva non è trasparente.

A Singapore le prossime elezioni politiche saranno nel 2025, ma non è ancora chiaro se l’attuale primo ministro Lee Hsien Loong cederà il suo posto oppure se si ricandiderà. Il partito è stato recentemente al centro di alcuni episodi di corruzione, che sono molto rari a Singapore proprio per le rigide regole anticorruzione e che hanno avuto molta risonanza nell’opinione pubblica.

Per i singaporiani l’opacità del piano di successione e gli episodi di corruzione si aggiungono a un generale disorientamento sull’identità del paese. Sudhir Vadaketh, direttore di Jom, un settimanale di Singapore, ha detto al Financial Times che il caso di riciclaggio di denaro ha confermato «la sensazione che la “Svizzera dell’Oriente” sia in realtà progettata più per i plutocrati globali che per i comuni singaporiani».

– Leggi anche: Gli eccezionali scandali nella politica di Singapore