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  • Mercoledì 13 settembre 2023

A Trieste il sistema di accoglienza si è inceppato

È il punto d’arrivo della rotta balcanica, ma i migranti sono troppi e centinaia di persone sono senza un posto in cui stare

Volontari dell'associazione Linea d'Ombra aiutano i migranti arrivati a Trieste dalla rotta balcanica, agosto 2020 (ANSA/MAURO DONATO)
Volontari dell'associazione Linea d'Ombra aiutano i migranti arrivati a Trieste dalla rotta balcanica, agosto 2020 (ANSA/MAURO DONATO)
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Da mesi la città di Trieste, in Friuli Venezia Giulia, ha difficoltà a gestire il numero di migranti sempre più alto: i posti messi a disposizione dal sistema di accoglienza nazionale sono finiti da tempo, e anche le tante associazioni attive sul territorio non riescono a garantire a tutte le persone che arrivano, tra cui anche minorenni, un posto in cui stare. Sono i migranti che raggiungono l’Italia e l’Europa tramite la cosiddetta rotta balcanica, un percorso lungo e ostile che parte dall’Asia e via terra attraversa la Grecia, l’Albania, poi la Croazia e la Slovenia per arrivare proprio a Trieste, crocevia sempre più trafficato e punto di partenza verso gli altri paesi europei.

Da gennaio a luglio del 2023 sono arrivate a Trieste attraverso la rotta balcanica 7.890 persone. Sono numeri non paragonabili rispetto a quelli degli arrivi via mare (nello stesso periodo sono sbarcate quasi 90mila persone), ma comunque in forte aumento rispetto agli anni precedenti: nei primi sette mesi del 2022 arrivarono poco più di 3mila persone. Gli arrivi sono aumentati anche durante i mesi invernali, quando solitamente la rotta è meno trafficata, principalmente a causa del freddo: tra gennaio e marzo del 2023 sono arrivate a Trieste 2.051 persone, oltre il quintuplo delle 370 registrate nello stesso periodo del 2022.

La situazione è presto diventata difficile da gestire, e questa estate quasi 500 persone reduci da mesi di cammino sono state costrette a dormire per strada. Grazie al passaparola molte si sono riunite nel Silos, una sorta di grande capannone abbandonato proprio di fianco alla principale stazione ferroviaria della città. Le condizioni nel Silos sono tutt’altro che confortevoli, anche perché al suo interno non c’è praticamente niente. Mancano l’elettricità e l’acqua corrente, non ci sono i bagni e le persone dormono per terra nei sacchi a pelo, o su materassi di fortuna. Quando piove entra l’acqua, e i rifiuti si accumulano dato che nessuno passa a pulire o a ritirare l’immondizia.

«È un girone infernale», dice Corrado Mandreoli, un attivista di ResQ. L’associazione è nata per aiutare i migranti che cercano di raggiungere l’Italia e l’Europa via mare, ma negli ultimi mesi ha attivato una sede anche a Trieste, per occuparsi della prima accoglienza nei confronti di chi arriva dalla rotta balcanica. «Le prime volte che andavo [al Silos] per distribuire vestiti puliti tutti mi chiedevano pantaloni stretti sulle caviglie, per evitare che entrassero i topi: questo è il livello», dice.

Il Silos di Trieste nel 2020 (ANSA/MAURO DONATO)

Mandreoli racconta che la maggior parte dei migranti che arrivano a Trieste ha tra i venti e i trent’anni, e sono quasi tutti maschi: la rotta balcanica è rischiosa, anche dal punto di vista fisico, per questo gli arrivi di donne e famiglie con figli al seguito sono rari. I ragazzi e gli uomini partono quindi da soli o in piccoli gruppi, dal Bangladesh, dal Pakistan o dalla Siria e attraversano molti altri paesi, dall’Afghanistan alla Turchia e alla Grecia, per arrivare poi nei Balcani. Dopodiché proseguono su un corridoio che si snoda tra Bulgaria, Romania, Slovenia e Croazia e raggiunge infine l’Italia.

In media il percorso dura qualche mese, ma ogni esperienza è soggettiva: «Chi ha disponibilità alterna tratti a piedi con spostamenti in pullman», dice Mandreoli, raccontando che spesso i migranti fanno un pezzo di tragitto e si fermano poi a fare lavori di fortuna per guadagnare i soldi necessari a proseguire. La conoscenza delle lingue e la disponibilità di risorse economiche sono fondamentali, ma in un viaggio così lungo anche la fortuna è un fattore da non sottovalutare.

«Arrivano con vestiti logori, la prima cosa che facciamo è dare loro la possibilità di lavarsi e di cambiarsi, poi controlliamo le condizioni di salute. Molti hanno ferite ai piedi o tendiniti, patologie legate al cammino», dice Mandreoli. Dopo l’assistenza legale e la compilazione della domanda di asilo c’è il problema dell’alloggio. Secondo i dati del Sistema nazionale di accoglienza e integrazione (SAI), ad agosto del 2023 in Friuli Venezia Giulia erano disponibili 268 posti per i migranti suddivisi su sei strutture. Soprattutto a Trieste, buona parte del sistema si basa anche sul modello dell’accoglienza diffusa, con cui i migranti vengono sistemati in normali appartamenti: quelli disponibili nel 2022 erano più di 180.

– Leggi anche: I comuni hanno finito i posti per i migranti minorenni non accompagnati

Per anni il sistema di accoglienza ha funzionato in modo soddisfacente, soprattutto grazie ai ricollocamenti. «Trieste è il terminale della rotta balcanica, non è possibile che tutte le persone che arrivano rimangano qui, altrimenti servirebbe un numero di posti eccessivo rispetto alle caratteristiche del territorio», dice Gianfranco Schiavone,  presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS) e membro dell’ASGI, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. «Una quota dei migranti viene assorbita a Trieste, ma il resto deve essere ricollocato» in altre città.

A partire dalla fine del 2022, però, l’intensificarsi degli arrivi ha messo in crisi il sistema di accoglienza in tutta Italia. Secondo i dati del ministero dell’Interno, dal 1° gennaio al 12 settembre sono sbarcate oltre 118mila persone, quasi il doppio delle 65mila arrivate nel 2022 e il triplo rispetto al 2021. Negli ultimi mesi le strutture di accoglienza su tutto il territorio nazionale si sono riempite rapidamente, e il meccanismo dei ricollocamenti su cui Trieste faceva affidamento si è bloccato.

Secondo Schiavone quindi «dall’estate del 2022 il sistema non ha più funzionato», soprattutto perché «il ministero dell’Interno ha cominciato a dare un numero di quote per i ricollocamenti del tutto insufficiente, creando il fenomeno dei richiedenti asilo per strada, che a Trieste non c’era mai stato». In questo modo il governo sta implicitamente incoraggiando i migranti a lasciare l’Italia per spostarsi verso altri paesi in modo irregolare, dato che secondo le norme europee del Regolamento di Dublino il paese di primo arrivo dovrebbe essere quello responsabile delle pratiche di accoglienza.

È un dato di fatto però che per molti dei migranti che arrivano dall’Est Europa, Trieste è solo un altro punto di passaggio. La maggior parte infatti non vuole restare in Italia e punta a raggiungere altri paesi europei in cui magari ha già una rete di contatti su cui poter fare affidamento, in Germania, in Francia o nei paesi scandinavi.

A Trieste il Consorzio Italiano di Solidarietà presieduto da Schiavone coordina il lavoro delle tante associazioni che assistono i migranti. Molte attività di prima accoglienza si svolgono in piazza della Libertà, davanti alla stazione ferroviaria, in orario serale. Dalle 18 a mezzanotte inoltrata c’è la distribuzione del cibo e dei vestiti, mentre dalle 9 alle 19 è sempre attivo il “centro diurno”, una struttura in cui i migranti possono ripararsi, andare in bagno, ricaricare il cellulare, parlare con qualcuno e sottoporsi a qualche visita medica. Nonostante le difficoltà generali del sistema di accoglienza, nella città gli attivisti e le associazioni che si muovono per aiutare i migranti si conoscono e cooperano con una certa efficienza: «Sono persone che si aiutano e collaborano, in un clima molto bello dal punto di vista umano», dice Mandreoli.

Un altro tassello fondamentale del sistema di accoglienza è quello delle cure mediche, indispensabili ma anche più difficili da garantire, dato che hanno bisogno di una forza lavoro preparata e specializzata. DonK Humanitarian Medicine (DonK HM) è un’associazione di volontariato triestina che offre assistenza sanitaria gratuita a chi non ha accesso alle cure, tra cui i richiedenti asilo che spesso si trovano a dover aspettare mesi per ricevere la tessera sanitaria necessaria per accedere al servizio nazionale.

Nel 2022 i medici volontari di DonK HM hanno fatto più di 3mila visite, ma ora il ritmo sta aumentando molto. Secondo Stefano Bardari, presidente dell’associazione, i disturbi di cui i migranti soffrono con più frequenza, come la scabbia, sarebbero facilmente risolvibili con cure mirate e ormai considerate ordinarie in tutti gli ospedali. Le condizioni in cui spesso queste persone sono costrette a vivere però complicano la situazione e fanno in modo che le malattie si protraggano o peggiorino più del dovuto. Oltre ai problemi fisici causati dal viaggio, molti migranti soffrono anche di disturbi psichici: «Ma chi nella loro situazione non li avrebbe?» si chiede Bardari.

Secondo le associazioni attive sul territorio, per tornare a funzionare correttamente il sistema di accoglienza a Trieste avrebbe bisogno di più sostegno da parte degli enti pubblici locali e nazionali. Al momento sia il comune che la regione sono governati dalla destra: il sindaco della città è Roberto Dipiazza, di Forza Italia, mentre il presidente del Friuli Venezia Giulia è il leghista Massimiliano Fedriga. «Con qualche struttura in più, e il funzionamento corretto dei trasferimenti, la situazione sarebbe assolutamente gestibile», dice Mandreoli.

Dipiazza è stato sindaco di Trieste dal 2001 al 2011, e poi nuovamente dal 2016. «È da vent’anni che mi occupo dalla rotta balcanica: come è andata in crisi Lampedusa, oggi siamo in crisi anche noi», dice. Secondo Dipiazza l’accoglienza diffusa si è rivelata essere «un fallimento» e, per risolvere almeno parzialmente il problema, il comune propone di sistemare i migranti nelle tante caserme vuote presenti sul territorio. Per questo però servirebbe un intervento del governo, che finora non è arrivato.

La regione invece propone un approccio diverso, e più radicale: «C’è un errore di fondo che continuiamo a fare: trattare il Friuli Venezia Giulia come se fosse un punto di primo ingresso nell’Unione Europea», dice l’assessore regionale a Sicurezza e Immigrazione, Pierpaolo Roberti. Prima di arrivare in Italia infatti i migranti che attraversano la rotta balcanica passano quasi sempre dalla Slovenia, che fa parte dello spazio di libera circolazione europea (l’area Schengen), e dalla Croazia, che è anche uno stato membro dell’Unione Europea. Di conseguenza secondo Roberti le responsabilità pratiche e amministrative legate all’accoglienza non dovrebbero ricadere esclusivamente sull’Italia. «Manca un filtro adeguato, e oggettivamente c’è una carenza di controlli alle altre frontiere», dice.

È la dinamica dei cosiddetti “movimenti secondari” con cui i migranti che entrano nell’Unione europea non si fermano nel paese di primo arrivo, ma proseguono in modo irregolare verso la loro destinazione finale. Succede spesso anche in Italia, primo punto di ingresso nell’Ue per moltissimi migranti che poi però chiedono asilo in Francia, in Germania o in altri paesi europei. Anche se le regole internazionali non lo permetterebbero il governo spesso non fa nulla per bloccare questi spostamenti, dato che il sistema nazionale già fatica a farsi carico dei migranti che decidono volontariamente di rimanere in Italia e avviare qui le procedure burocratiche.

In ogni caso, di recente anche i paesi vicini all’Italia hanno registrato un forte aumento degli arrivi, e di conseguenza delle domande di asilo. Il ministro dell’Interno croato Davor Božinović ha detto che le domande nel 2023 sono aumentate del 700 per cento rispetto all’anno precedente, mentre nei primi otto mesi dell’anno la Slovenia ha fermato 36mila migranti che cercavano di superare il confine illegalmente, di cui 34mila provenienti dalla Croazia. Negli ultimi anni varie inchieste giornalistiche e report curati dalle associazioni umanitarie hanno mostrato molti casi di torture, abusi e violenze ai danni dei migranti che cercavano di attraversare il confine greco e bosniaco, tra gli altri.

Inoltre secondo Roberti il governo dovrebbe aprire anche in Friuli Venezia Giulia uno o più hotspot, ossia centri di primissima accoglienza dove i migranti vengono identificati e registrati, due passaggi necessari per poter poi organizzare un eventuale ricollocamento. Oggi in Italia sono attivi solo quattro hotspot, tutti al Sud: a Lampedusa, Pozzallo (in provincia di Ragusa), Messina e Taranto.