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  • Lunedì 11 settembre 2023

Il colpo di stato in Cile, 50 anni fa

L'11 settembre del 1973 Salvador Allende venne destituito e per i successivi diciassette anni il paese fu governato dalla dittatura militare del generale Augusto Pinochet

La Moneda, Santiago del Cile, 11 settembre 1973 (AP Photo, File)
La Moneda, Santiago del Cile, 11 settembre 1973 (AP Photo, File)
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L’11 settembre di cinquant’anni fa il presidente cileno democraticamente eletto Salvador Allende venne destituito da un colpo di stato che, per i successivi diciassette anni, portò al potere la dittatura militare del generale Augusto Pinochet, sostenuta dai servizi segreti americani della CIA.

Allende era il leader del Partito Socialista ed era stato eletto il 3 novembre del 1970 grazie all’appoggio degli operai e degli studenti, della borghesia progressista e di molti intellettuali di sinistra. I suoi stretti rapporti con Cuba (allora governata da Fidel Castro) e la politica che avviò (il suo programma di nazionalizzazione delle miniere e delle principali industrie private, la riforma agraria e la sospensione del pagamento del debito estero, tra le altre cose) furono accolti con preoccupazione dalla gran parte della borghesia cilena, dei proprietari terrieri, degli imprenditori, della Chiesa cattolica e degli Stati Uniti, spaventati dalla possibilità che il “comunismo” contagiasse il Sudamerica.

Subito dopo la vittoria di Allende, Henry Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di stato durante la presidenza di Richard Nixon, disse: «Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli». L’amministrazione Nixon cominciò dunque a esercitare una pressione economica sempre maggiore attraverso diversi canali: l’embargo, il finanziamento degli oppositori politici nel Congresso cileno e, nel 1972, l’inconsueto appoggio economico al sindacato dei camionisti, che portò a continui scioperi e manifestazioni.

L’anno del colpo di stato l’economia cilena era in forte crisi, in parte per le misure prese dagli Stati Uniti e in parte per le scelte economiche del governo di Allende. La situazione sociale e politica era molto tesa. Il 29 giugno un reggimento dell’esercito cileno circondò con i carri armati La Moneda, il palazzo presidenziale nella capitale Santiago, e cercò di rovesciare il governo: il tentativo fallì per l’intervento di una parte dei vertici militari fedele al governo, ma fu poi considerato una “prova generale” del colpo di stato di due mesi dopo.

L’11 settembre avvenne tutto nel giro poche ore. Alle sette del mattino alcune navi della Marina militare cilena occuparono il porto di Valparaíso, sull’Oceano Pacifico. L’ammiraglio Raúl Montero Cornejo, comandante della Marina e fedele al presidente Allende, venne imprigionato e sostituito da José Toribio Merino Castro, uno degli ideatori del colpo di stato insieme ad Augusto Pinochet, generale capo dell’esercito che Allende stesso aveva nominato da poco più di un mese.

Il prefetto della provincia di Valparaíso informò subito delle manovre della Marina il presidente Allende, che diede ordine alla scorta, il Gap (Gruppo di Amici Personali), di lasciare la sua residenza di calle Tomás Moro per raggiungere La Moneda, il palazzo presidenziale. Erano circa le otto. Nel frattempo, a Santiago, le forze aeree e i carri armati dell’esercito avevano già chiuso e bombardato le sedi e le antenne di tutte le stazioni radio e tv. L’unica che quel giorno riuscì a non interrompere le trasmissioni (nonostante il bombardamento) fu la radio Magallanes del Partito comunista cileno da cui, poco dopo, Allende avrebbe parlato alla nazione per l’ultima volta.

In quelle prime ore il Presidente Allende e il ministro della Difesa Orlando Letelier ricevettero informazioni incomplete sul golpe: pensavano che solo una parte della Marina avesse cospirato contro il governo e che Augusto Pinochet fosse stato imprigionato dai responsabili del colpo di stato. Solo alle 8:30, quando le forze armate dichiararono di aver preso il controllo sul paese, fu chiaro quello che era successo.

Nonostante la mancanza di qualsiasi sostegno militare, Allende rifiutò di dare le proprie dimissioni come gli avevano chiesto i golpisti e tenne un ultimo discorso di addio alla nazione attraverso radio Magallanes in cui disse: «Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano. Ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento».

Verso mezzogiorno i militari ribelli circondarono con i carri armati il palazzo presidenziale e gli aerei militari iniziarono a bombardarlo. Alle due del pomeriggio era tutto finito. Nei combattimenti dell’11 settembre 1973 morirono 34 persone tra i militari ribelli e 46 tra i GAP. All’interno del palazzo della Moneda morirono due persone: il giornalista Augusto Olivares e il presidente Allende.

Ci sono state numerose indagini e discussioni per stabilire se Allende, ritrovato morto nel suo ufficio alla Moneda il giorno del golpe, fosse stato assassinato o se si fosse suicidato prima di essere catturato. Nel 2011, dopo la riesumazione del corpo chiesta dalla famiglia, la commissione incaricata di chiarire le circostanze della morte dell’ex presidente ha affermato, come sostenuto nella versione ufficiale, che sia stato un suicidio.

La giunta che prese il potere dopo il colpo di stato era formata da quattro persone che si accordarono per una presidenza a rotazione (cosa che poi non avvenne) e nominarono Pinochet capo permanente. Il 13 settembre la giunta sciolse l’Assemblea Nazionale, distrusse i registri elettorali, mise fuori legge tutti i partiti che avevano fatto parte di Unidad Popular, la coalizione di Allende, decise da subito una serie di restrizioni della libertà individuale ed emanò leggi speciali per la magistratura.

Subito dopo il golpe lo Stadio Nazionale di Santiago venne trasformato in un enorme campo di concentramento dove, nel corso di quei primi mesi, vennero torturate e interrogate migliaia di persone. Moltissime donne furono stuprate dai militari addetti al “campo” e centinaia di persone scomparvero nel nulla. Qualche giorno fa il governo cileno guidato da Gabriel Boric, il presidente più giovane della storia del paese e il più progressista dai tempi di Allende, ha annunciato l’avvio di un programma per cercare di identificarle.

– Leggi anche: Il Cile vuole identificare le persone scomparse durante la dittatura di Pinochet

Pinochet attuò una politica economica fortemente liberista ispirata al pensiero di Milton Friedman e alla scuola di Chicago: ridimensionò il ruolo dello stato, privatizzò molte aziende, riformò il mercato del lavoro, avviò un programma di totale apertura verso l’estero. In questo venne appoggiato dall’oligarchia finanziaria, dalle classi medie e dalle multinazionali a cui aveva affidato il controllo delle imprese che Allende aveva nazionalizzato.

Fino al 27 giugno 1974 Pinochet rimase a capo della Giunta militare, poi, il 17 dicembre di quell’anno, assunse il titolo di “Capo Supremo della Nazione” e di presidente del Cile. La Moneda venne ricostruita, venne varata una nuova Costituzione e Pinochet cominciò ad apparire in pubblico in abiti civili. Durante gli anni Ottanta le conseguenze della crisi economica, il crescere delle proteste contro il governo e uno sciopero generale aumentarono le difficoltà del regime.

Nell’ottobre del 1988 venne deciso un plebiscito per votare un nuovo mandato presidenziale di 8 anni per Pinochet, che era convinto di vincere e dunque di veder riconfermata la propria carica. Vinsero invece i sostenitori del “no” con il 55,99 per cento dei voti. In accordo con le norme della Costituzione furono dunque convocate delle elezioni libere che si svolsero l’anno dopo. Pinochet rimase in Cile a capo delle forze armate fino al 1998 e poi come senatore a vita, godendo così dell’immunità parlamentare. Il Cile, intanto, accelerò il percorso verso il ritorno alla democrazia che raggiunse negli anni successivi.

Nel 1998 il giudice spagnolo Baltasar Garzón emise contro Pinochet un mandato di cattura internazionale per la sparizione di cittadini spagnoli durante la dittatura. Pinochet venne accusato di genocidio, terrorismo e tortura. Fu arrestato a Londra dove si trovava per farsi curare, ma non venne mai condannato. Il 2 marzo del 2000 il ministro dell’Interno inglese Jack Straw decise di liberarlo e di farlo tornare in patria dove riuscì ripetutamente a evitare qualsiasi processo a suo carico e dove morì per un attacco di cuore il 10 dicembre del 2006, a 91 anni.

Non ci sono prove che gli Stati Uniti abbiano appoggiato direttamente il colpo di stato di Pinochet nel 1973: da un rapporto che si è concluso nel 2000 è risultato che la CIA «non assistette Pinochet nell’assumere la presidenza». Dallo stesso documento risulta però che gli Stati Uniti fossero informati del colpo di stato, come hanno confermato i documenti desecretati pochi giorni fa dal presidente USA Joe Biden, e che fornirono un supporto materiale al regime dopo il golpe e che molti uomini di Pinochet divennero informatori degli Stati Uniti.

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