X minuti di applausi

«Nessuno può toccare i “minuti di applausi” alla stampa italiana, nonostante sia più una trovata di marketing che di giornalismo. Il dato non ha nessuna reale rilevanza al di là della quantificazione del potenziale successo di un film. È promozione, e come tale non è un indicatore imparziale. In oltre dieci anni di frequentazione di festival internazionali posso affermare di non aver mai assistito a un applauso più lungo di 2 o 3 minuti, ma in verità non li avevo mai cronometrati e avevo sempre partecipato, lo confesso, alle proiezioni sbagliate, quelle per la stampa e non alle prime ufficiali. Quindi quest'anno ho provato a cronometrarli davvero»

L'attore Pierfrancesco Favino alla 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (Ansa)
L'attore Pierfrancesco Favino alla 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (Ansa)
Caricamento player

Alla Mostra del cinema di Venezia la misurazione degli applausi è una cosa seria. È una pratica organizzata e istituzionalizzata. Applicando sul normale badge l’apposito bollino (verde) si può entrare a pochi minuti dalla fine del film alle proiezioni di gala (cioè alle “prime”, le uniche di cui si misurino gli applausi). Non è stato difficile ottenerlo. Quando lo esibisco gli steward agli ingressi del Palazzo del cinema spalancano porte e cancelli senza fare domande. Lo sanno tutti che cosa significa.


Luca Guadagnino, Taylor Russell, Timothée Chalamet, Mark Rylance applauditi alla prima del film “Bones and All” alla Mostra del cinema di Venezia 2022

Nessuno può toccare i “minuti di applausi” alla stampa italiana, nonostante sia più una trovata di marketing che di giornalismo. Anche Variety ha da poco stilato una classifica dei film con più minuti di applausi nella storia del festival di Cannes, decretando come vincitore, con l’incredibile risultato di 22 minuti, Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro. In casi eccezionali la stampa internazionale si interessa della durata degli applausi alle prime, ma solo per quella italiana il conteggio sembra essere un’istituzione.

Si tratta ovviamente di numeri senza senso per l’anatomia del palmo della mano umana. Per intenderci: in 10 minuti si può ascoltare due volte e mezzo Imagine di John Lennon; in 20 minuti quasi sette volte Acqua azzurra, acqua chiara o due volte e mezzo Layla nella versione originale di Derek and the Dominos, quella lunga con la coda di pianoforte. Dieci minuti sono un tempo lunghissimo che richiede pubblici con palmi delle mani resistentissimi e dalla forza mentale eccezionale, spettatori che non intendono smettere di applaudire quando sarebbe ragionevole farlo. Anatomicamente e mentalmente sono durate impossibili, semplicemente. Quindi, dietro, ci deve essere un altro tipo di logica. E soprattutto: se davvero i minuti di applausi fossero sinonimo di successo come parrebbe implicito da quel che scrivono i giornali, allora l’incasso sarebbe proporzionato. Ma non è così. Al festival di Cannes il film di Nanni Moretti con il peggior box office della sua carriera, Tre piani, è stato anche uno di quelli con il minutaggio d’applausi più elevato (superato solo, in questa rincorsa alla magnificenza, dal film successivo, Il sol dell’avvenire).

Il dato non ha nessuna reale rilevanza al di là della quantificazione del potenziale successo di un film. È promozione, e come tale non è un indicatore imparziale. In oltre dieci anni di frequentazione di festival internazionali non ho mai assistito a un applauso più lungo di 2 o 3 minuti, ma la verità è che non li avevo mai cronometrati e avevo sempre partecipato, lo confesso, alle proiezioni sbagliate, quelle per la stampa e non alle prime ufficiali. Per questo avevo sempre fantasticato su queste proiezioni in cui i minuti di applausi si misurano nell’ordine delle decine o in certi casi limite addirittura delle ventine. Quindi quest’anno a Venezia ho provato a cronometrarli davvero.

La prima serata in cui ho potuto mettere a frutto il bollino verde sul badge della 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia è stata quella d’apertura. Il film proiettato era Comandante di Edoardo De Angelis. Come sempre non mancavano le autorità politiche. In sala erano presenti il presidente della regione Veneto Luca Zaia e il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, entrambi seduti nella fila principale, la stessa di regista e attori, quella su cui cade l’occhio di bue.

Comandante è un film italiano di sottomarini ambientato durante la Seconda guerra mondiale che racconta di fascisti che salvano stranieri in mare contro il volere del regime e per umanità. Ma è anche un film militare il cui protagonista (interpretato da Pierfrancesco Favino) è un eroe della tradizione navale italiana, Salvatore Todaro, che per l’appunto salvò dalla morte in acqua l’equipaggio di una nave belga (da lui stesso affondata), nonostante l’azione mettesse a rischio il suo equipaggio. La motivazione che fornì, e che si becca la scena madre del film, fu: «Perché sono un italiano!». Un film a favore dei salvataggi in mare, quindi, ma anche militaresco e di grande fierezza patriottica. In un cinema come il nostro in cui l’esercito non è mai protagonista positivo, i politici di destra si sanno accontentare.

Già dalla prima è chiaro che il primo dato cruciale da considerare per capire gli applausi è il pubblico. Cioè chi sono le persone che applaudiranno per minuti e minuti. In tutti i festival si tratta in minima parte di un pubblico reale e in gran parte di invitati del festival (sono quelli le cui foto sul red carpet poi girano molto, non sempre veri appassionati di cinema, spesso veri appassionati di tappeti rossi) e poi ci sono proprio le persone che hanno fatto il film in questione: attori, registi, loro parenti, produttori, persone che hanno lavorato nella produzione, loro parenti, uffici stampa, loro parenti, i distributori, i venditori e ancora amici della produzione stessa a cui è stato regalato un invito per la serata. Non proprio il pubblico più imparziale del mondo, e nemmeno uno molto incline a fischiare. È una tradizione che viene dritta dalla claque del teatro ottocentesco, anche se non è pagata come in quel caso. Ognuno porta “i suoi” e quindi la sala è piena almeno per metà (a tenersi stretti) di applauditori per interesse o affetto, che si daranno da fare per battere i minutaggi altrui. E se non ci riescono loro ci penserà poi la stampa.

Quando entro in sala, Comandante è alle battute finali, in un crescendo di ardore. Nella sala grande, quella delle prime, si viene invitati a sistemarsi in un punto che non disturba nessuno, al buio, proprio sulla scalinata, un punto perfetto per attendere che tutto finisca e parta l’applauso nel momento convenuto. Nei cinema normali nessuno applaude o fischia alla fine di un film, invece ai festival è la prassi e il pubblico è tenuto a esprimersi quando appaiono i titoli di coda. Nei film moderni sono di due tipi: all’inizio ci sono quelli con i nomi più importanti che compaiono a tutto schermo, uno dopo l’altro, con un sottofondo di musica; dopo arrivano i titoli canonici a scorrimento verticale con tutta la troupe. Durante i primi le luci rimangono spente, spesso c’è una grafica elaborata e un font creativo. Quando invece partono i secondi le luci in sala si accendono e la grafica sparisce. Sembrano dettagli ma, come ho imparato, per i misuratori di applausi i dettagli sono importanti.

Bisogna considerare che il primo misuratore di applausi del cinema, almeno in Italia, è stato Lello Bersani, storico giornalista di spettacoli per radio e televisione RAI, passato a Canale 5 dopo il pensionamento. Bersani fu corrispondente dalla Mostra del cinema di Venezia già negli anni Cinquanta e fu allora che si inventò la durata degli applausi come dato di sintesi per raccontare e mettere a confronto la ricezione di film diversi. A quei tempi non c’era alcuna esigenza di precisione e la veicolazione di notizie create ad arte era parte integrante della promozione dei film (i protagonisti di un film sentimentale che avrebbero avuto davvero una relazione, i forzuti dei film sull’antica Roma la cui rivalità sullo schermo sarebbe sfociata in una rissa a sganassoni nella vita reale, attrici che si sarebbero contese l’amore della medesima star in film rivali…). Da Bersani la registrazione del minutaggio è diventata una prassi talmente fissa che nessuno ha più osato metterla in discussione.

Avendo io già visto Comandante a una proiezione stampa ero prontissimo e ho fatto partire il cronometro proprio allo scoccare dello schermo nero e quindi al primo battito di mani. Gli applausi sono partiti con buona intensità che hanno mantenuto lungo tutti i primi titoli di coda, quelli al buio, per poi diminuire e ripartire all’accendersi delle luci, nel momento cruciale in cui il regista e gli attori sono apparsi, illuminati e in piedi come a teatro, a prendersi l’applauso, abbracciare le autorità e fare la faccia da «È troppo! Grazie! Grazie! È per voi!». Fino a che tutti hanno avuto il loro momento, uno dopo l’altro, chiaramente non si poteva finire di applaudire. Alla fine ho controllato il cronometro: per Comandante parliamo di un totale di 4 minuti e 3 secondi, di cui circa 3 a luci spente a cui si sono aggiunti altri 63 secondi a luci accese. A me sono sembrati comunque tantissimi, ma per gli standard trionfalistici della stampa sarebbero pochini.

Il giorno dopo sui giornali nazionali non c’era traccia dei “minuti di applausi” e io mi sono molto preoccupato per il buon esito di questo articolo che si fonda tutto sullo spread tra applausi veri e applausi percepiti dalla stampa. La presenza di Salvini aveva cancellato i minuti dai titoli. Per fortuna qualche serata dopo alla prima di Finalmente l’alba di Saverio Costanzo i titoli sui minuti di applausi sono tornati (“ben otto” secondo la recensione di Cinecittà News). È dunque animato dallo spirito del mio Lello Bersani interiore che al quinto giorno di festival (e a 5 minuti dalla fine) sono entrato alla prima del terzo film italiano in concorso, Adagio di Stefano Sollima, per cui il giorno dopo giornali, radio e tv avrebbero calcolato 10 minuti di applausi.

Se Comandante era un film di sottomarini, Adagio è un film di gangster romani con tensione, azione e sparatorie nello stile di Sollima (quello che ha creato le serie Romanzo criminale e poi quella di Gomorra, praticamente rifondando da solo il cinema criminale in Italia). Avevo visto anche questo e sapevo che ha un finale abbastanza strappapplausi. Quindi, mi aspettavo molto. E infatti gli applausi sono arrivati, anche se una differenza con Comandante mi è stata subito evidente e ha generato serie difficoltà nelle modalità di cronometraggio: in Adagio i primi titoli di coda, quelli al buio con i nomi grandi a schermo intero, sono inframezzati da scene di pochi secondi che chiudono una parte della storia, e da foto dei personaggi che servono a dare un senso a quel che abbiamo visto. La scelta ha prolungato i titoli e li ha resi funzionali alla trama, ma ha gettato il pubblico nel dubbio su come applaudire. Alcuni hanno smesso di farlo appena nei titoli iniziava una scena o compariva una foto, altri nel dubbio hanno continuato ma con scarsa convinzione. Alla quinta scena che interrompeva i titoli di coda in pochi hanno avuto la forza di ricominciare ad applaudire. A quel punto, però, eravamo già al quarto minuto di applausi e perfino quelli della produzione in sala non ce la facevano più. Un conto è applaudire in un’unica lunga tirata e un altro applaudire a intermittenza.

Sembrava finita, ma quando si sono accese le luci e sono comparse le star il pubblico ha ricominciato a battere le mani, con più intensità. Alla fine l’applauso per Adagio è stato molto più lungo di quello per Comandante per il semplice fatto che ci sono più attori importanti. Se Favino è il protagonista assoluto del primo film, nel secondo ci sono almeno quattro attori importanti, più il regista e il giovane esordiente che in quanto vero protagonista della storia non poteva non essere applaudito. Oltre di nuovo a Pierfrancesco Favino (chissà se può cumulare i minuti di applausi di film diversi per avere il suo personale minutaggio totale veneziano…) in Adagio ci sono anche Valerio Mastandrea, Toni Servillo e Adriano Giannini, ognuno dei quali è stato applaudito singolarmente, poi ancora quando è tornato sul palco a scherzare e infine quando il regista Stefano Sollima li ha invitati a prendersi un applauso tutti insieme. La cosa si è fatta lunghetta e complicata da cronometrare: ai primi 4 minuti se ne sono aggiunti altri 4 scarsi, per un totale di 8 minuti e 13 secondi. A essere fiscali, però, i primi quattro non andrebbero contati, viste le continue interruzioni e ripartenze. Sarebbe più corretto ragionare sui minuti effettivi, come avviene nella pallacanestro, fermando il cronometro a ogni interruzione, e in questo modo, secondo me, saremmo intorno ai 6 minuti totali.

Sui giornali e le tv del giorno dopo gli 8 minuti da me registrati (di cui 6 effettivi) sarebbero diventati 10, con un lieto arrotondamento del 20% su un dato di suo già discutibile. L’obiettivo comunque è stato raggiunto: dare l’idea di aver superato gli altri, compreso Enea di Pietro Castellitto, per cui qualche giorno dopo sarebbero stati calcolati 8 minuti (ma il regista è solo al secondo film, e il cast non vanta altri grandi nomi a parte lo stesso Castellitto, anche attore, e il padre Sergio nella parte del padre Sergio).

La dinamica giornalistica è simile a quella che regola il conteggio dei partecipanti alle manifestazioni: ognuno tira l’acqua al proprio mulino sapendo che l’idea che gli applausi significhino qualcosa conviene a tutti e fa promozione. È un dato importante su cui si possono immaginare trattative complicatissime. Quest’anno per esempio per i tre italiani in concorso a Cannes ci deve essere stata una specie di accordo o di cartello, in virtù del quale tutti e tre, Rapito di Marco Bellocchio, Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti e La Chimera di Alice Rohrwacher sarebbero stati applauditi per esattamente 13 minuti (che curiosamente è il tempo identico a quello calcolato qualche mese prima per il Boris Godunov alla prima della Scala).

L’assioma più o meno è confermato: gli applausi sono una funzione della lunghezza della reazione del pubblico sommata alla durata della prima parte dei titoli di coda sommata all’ampiezza del cast e all’intenzione del regista, degli attori e della produzione di prolungarli il più possibile. Per averne di lunghi è consigliabile, per esempio, invitare un maggior numero di persone del cast sul palco.

Gabriele Niola
Gabriele Niola

Critico cinematografico e giornalista freelance. Ha scritto libri, realizzato podcast, selezionato film ai festival e fatto da autore per trasmissioni televisive. Tutto pur di non lavorare.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su