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  • Mercoledì 30 agosto 2023

Che cos’è la vittimizzazione secondaria

Avviene quando una donna che ha subìto violenza ne subisce altra: è successo per esempio con il commento di Andrea Giambruno sullo stupro di Palermo

Performance della canzone “Un violador en tu camino” contro la vittimizzazione secondaria e la violenza istituzionale, Lima, Perù, 7 dicembre 2019 (Carlos Garcia Granthon/ZUMA Wire)
Performance della canzone “Un violador en tu camino” contro la vittimizzazione secondaria e la violenza istituzionale, Lima, Perù, 7 dicembre 2019 (Carlos Garcia Granthon/ZUMA Wire)

Domenica 27 agosto la ragazza che ha subito lo stupro di gruppo a Palermo, dopo l’ennesimo commento sui social che la accusava di essere stata consenziente durante la violenza o di essersela “andata a cercare”, ha scritto su Instagram: «Sinceramente sono stanca di essere educata quindi ve lo dico in francese, mi avete rotto con cose del tipo: “ah ma fa i video su tik tok con delle canzoni oscene”, “è normale che poi le succede questo”, oppure “ma certo per come si veste”». Martedì 29 agosto, e sempre rispondendo a dei commenti simili, ha scritto: «Sono stanca, mi state portando alla morte».

Quello stesso giorno Andrea Giambruno, giornalista e compagno della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, durante la puntata del programma che conduce su Rete 4 in cui si stava parlando degli stupri di Palermo e Caivano, ha detto: «Se vai a ballare, tu hai tutto il diritto di ubriacarti, non ci deve essere nessun tipo di fraintendimento e nessun tipo di inciampo. Ma se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi».

All’inizio di luglio il presidente del Senato Ignazio La Russa, difendendo il figlio Leonardo Apache accusato di violenza sessuale, aveva detto di avere «molti interrogativi» sul racconto della denunciante: «Per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio», e aveva aggiunto come prova a favore dell’innocenza del figlio che la donna aveva denunciato «quaranta giorni dopo» i fatti.

Nel 2021 Beppe Grillo nel video in cui difendeva il figlio Ciro allora indagato e poi rinviato a giudizio per violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza conosciuta in vacanza, mettendo in dubbio la violenza stessa, aveva definito «strano» il fatto che «una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf, e dopo 8 giorni fa una denuncia».

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I commenti riportati dalla ragazza che ha subito lo stupro a Palermo e le frasi di Giambruno, La Russa e Grillo spiegano molto bene che cosa sia la cosiddetta “vittimizzazione secondaria”: la donna che ha subito violenza (una violenza che si potrebbe definire “primaria”) rivive delle condizioni traumatiche o subisce altra violenza da parte di soggetti che non sono gli autori della violenza primaria. E le rivive proprio nel momento in cui sceglie di parlarne o di cercare aiuto per uscirne (denunciando, ad esempio). Secondo il Consiglio d’Europa la vittimizzazione secondaria «non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale (l’abuso subito, ndr)» ma attraverso la risposta che le «istituzioni» e altri soggetti ancora danno alla vittima: possono essere i familiari della vittima, le istituzioni o i giornali, per esempio. Di fatto la vittimizzazione secondaria sposta l’attenzione o la responsabilità dalla persona che ha commesso la violenza alla persona che l’ha subita, e ne rappresenta un continuum.

La vittimizzazione secondaria è molto diffusa: può avvenire nel contesto sociale, sui giornali per come raccontano la violenza maschile, durante la fase di denuncia alle forze dell’ordine, quando si entra in contatto con i servizi sociali o con gli ospedali, all’interno dei percorsi giudiziari nei tribunali civili, penali o minorili. E può avvenire anche quando i procedimenti giudiziari si concludono con determinate sentenze.

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In generale, la vittimizzazione secondaria si basa sulla mancata conoscenza del fenomeno della violenza maschile contro le donne e su una radicata cultura dello stupro, un’espressione utilizzata dagli studi di genere e dai femminismi per descrivere una “cultura” nella quale non solo la violenza e gli abusi di genere sono molto diffusi, minimizzati e normalizzati, ma dove sono normalizzati e incoraggiati anche gli atteggiamenti che giustificano e sostengono quella violenza e che pretendono di avere il controllo sulla sessualità femminile.

La vittimizzazione secondaria (che la Convenzione di Istanbul ratificata dall’Italia nel 2013 chiede di prevenire e di evitare) si alimenta con i pregiudizi e gli stereotipi sessisti che minano a priori la credibilità delle donne che parlano della violenza subita. Si concretizza, come nel caso di Grillo, nelle accuse di non aver denunciato prima quella violenza, anche se la legge prevede che una violenza sessuale si possa denunciare entro 12 mesi. È vittimizzazione secondaria anche quando si dice che la vittima di una violenza se l’è “andata a cercare” o ha una responsabilità nella violenza che ha subito, per esempio per gli abiti che indossava, per le sue abitudini sessuali o perché era ubriaca proprio come ha sostenuto Giambruno. È infine vittimizzazione secondaria diffondere o pubblicare immagini o video della violenza subita.

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Quando la vittimizzazione secondaria avviene nei contesti istituzionali con cui la vittima entra in contatto – polizia, servizi sociali, tribunali, tra gli altri – i movimenti femministi parlano esplicitamente di “violenza istituzionale”. È una violenza compiuta da quelle stesse istituzioni che dovrebbero sostenere la vittima (o che avrebbero dovuto prevenire la violenza). Cosa significa e quali sono le sue conseguenze l’ha spiegato la Corte di Cassazione in una sentenza del 17 novembre 2021, la numero 35110:

«Essa consiste nel far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, ed è spesso riconducibile alle procedure delle istituzioni susseguenti ad una denuncia, o comunque all’apertura di un procedimento giurisdizionale. La vittimizzazione secondaria è una conseguenza spesso sottovalutata proprio nei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere, e l’effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima stessa».

La “violenza istituzionale” nei tribunali è stata analizzata l’anno scorso anche dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nella “Relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli”. Qui si trovano i risultati di un’inchiesta sull’ampiezza del fenomeno nei casi di affidamento e responsabilità genitoriale, casi in cui la “vittimizzazione secondaria” produce delle conseguenze giudiziarie concrete.

Nei procedimenti di separazione e divorzio in tribunale e nei tentativi di conciliazione la donna che ha subito violenza e il partner violento si trovano a doversi confrontare, senza tener conto della soggezione psicologica che subisce la vittima, del fatto che venga nuovamente esposta a pressioni e che non riesca a esporre ciò che ha subito. Il rischio è che la violenza non emerga e che questo influisca sulla decisione del giudice.

La forma più ricorrente e grave di vittimizzazione secondaria può realizzarsi nei procedimenti di affidamento dei figli quando non vengono presi in considerazione gli episodi di violenza e viene stabilito un affidamento condiviso del minore a entrambi i genitori, senza distinguere tra il genitore violento e la genitrice che è stata vittima di violenza. Il mancato riconoscimento della violenza, o la sottovalutazione del fenomeno, può poi portare a non stabilire delle tutele specifiche per i figli in fase di separazione: e sono diversi i casi di cronaca in cui, per una mancata valutazione del rischio, padri violenti a cui era stato concesso il diritto di visita hanno ucciso i propri figli.

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L’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei diritti umani per non aver tutelato le donne che avevano subito violenza o i loro figli dalla vittimizzazione secondaria.

La vittimizzazione secondaria ha conseguenze molto concrete, non solo se avviene nei processi penali, nei procedimenti civili e minorili: ha conseguenze sul benessere, sulla salute e sulla sicurezza delle donne, ma anche sulla loro determinazione a parlare della violenza subita o a cercare aiuto per uscirne. La vittimizzazione secondaria induce le donne per esempio a non andare da un medico, a non denunciare: favorisce l’occultamento, fa in modo che la violenza nelle relazioni di intimità resti sommersa e instilla un profondo senso di sfiducia nelle istituzioni.