Torneranno le province?

Una proposta di legge in discussione al Senato e sostenuta da tutti i partiti vuole introdurre di nuovo l'elezione diretta di presidenti e consiglieri provinciali

(Emanuele Cremaschi/Getty Images)
(Emanuele Cremaschi/Getty Images)
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Da mesi la Commissione affari costituzionali del Senato sta lavorando a una proposta di legge per riorganizzare la composizione e le funzioni delle province e delle città metropolitane. È un tema importante, e i vari passaggi parlamentari si stanno rivelando difficoltosi: nella legislatura in corso, iniziata a ottobre del 2022, sono state presentate nove proposte di legge per riformare le province, da esponenti di tutti i principali partiti politici. Il 6 giugno la Commissione ha approvato un testo unificato che riunisce tutti i vari testi e costituisce la base di partenza per la riforma.

Secondo la leghista Daisy Pirovano, relatrice della proposta di legge, l’obiettivo è approvare la legge in tempo per organizzare la prima tornata di elezioni provinciali insieme alle prossime elezioni europee, tra il 6 e il 9 giugno del 2024.

Della necessità di riformare il sistema delle province si discute ormai da anni: nel 2014 fu approvata un’importante riforma, nota come “legge Delrio”, che trasformava le province in enti di secondo livello ed eliminava quindi l’elezione diretta per i loro rappresentanti. In questo modo le province furono di fatto sostituite da assemblee formate dai sindaci dei comuni del territorio. Esiste anche un consiglio provinciale, formato dal sindaco che è anche presidente della provincia e da un gruppo di 10-16 membri – il numero varie in base agli abitanti della provincia – eletti tra gli amministratori dei comuni.

La legge Delrio però era stata pensata come una legge transitoria in attesa del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, promosso dal governo di Matteo Renzi per chiedere tra le altre cose di eliminare la parola “province” dalla Costituzione: un passaggio formale e obbligato per il compimento della riforma, che però non ci fu mai per la netta vittoria dei “no” in quel referendum. Di fatto quindi la riorganizzazione delle province è sempre rimasta incompleta, creando problemi organizzativi e incertezze sulla divisione di compiti e responsabilità tra i vari organi territoriali, dai Comuni alle Regioni allo Stato.

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Negli anni tutti i partiti hanno riconosciuto le conseguenze negative della riforma Delrio, causate soprattutto dal mancato compimento delle modifiche costituzionali su cui questa si basava. Durante la scorsa legislatura furono presentate diverse proposte di legge per modificare l’assetto delle province, ma nessuna ebbe successo. Ora però le cose potrebbero cambiare, anche perché diversi parlamentari e leader di partito condividono la necessità di una riforma: l’11 agosto, per esempio, Matteo Salvini si è detto «straconvinto» del ripristino delle province e del ritorno all’elezione diretta dei loro rappresentanti, e già alla fine dell’anno scorso il senatore di Fratelli d’Italia Marco Silvestroni aveva detto che la legge Delrio andava superata.

Anche se potrebbe essere modificato prima dell’approvazione definitiva, oppure non essere approvato affatto, ci sono buone probabilità che il testo in discussione al Senato passi senza grandi cambiamenti, dato che nella maggioranza c’è un generale accordo sulla questione.

In ogni caso il testo prevede che le province siano composte da tre organi governativi principali: un presidente, una giunta provinciale nominata dal presidente e composta da un massimo di otto assessori, e un consiglio provinciale di 20-30 componenti (sempre con il numero variabile a seconda della popolazione).

Il presidente della provincia dovrebbe essere eletto direttamente dai cittadini tramite il sistema dei collegi plurinominali, con cui ogni partito può presentare una lista di candidati e l’assegnazione dei seggi avviene con metodo proporzionale, cioè in base ai voti ottenuti. Per essere eletto al primo turno sarà necessario raccogliere almeno il 40 per cento dei voti totali, altrimenti si andrà al ballottaggio. Alcuni emendamenti presentati chiedono invece di utilizzare il sistema dei collegi uninominali, e quindi il sistema di voto potrebbe cambiare prima dell’approvazione definitiva del testo. Al di là di questi dettagli tecnici, anche il consiglio provinciale verrà eletto direttamente dai cittadini: l’approvazione della riforma aprirebbe quindi una serie di nuove cariche elettive, di cui potrebbero beneficiare soprattutto i partiti più radicati sul territorio.

La legge non specifica le funzioni né il sistema di finanziamento che avranno le province, ma delega al governo il compito di definirli in modo preciso tramite una serie di decreti attuativi. Per ora la proposta si limita a dare alcune linee guida: le province dovranno adottare un «piano strategico triennale» per definire gli aspetti fondamentali degli interventi sul territorio, organizzare i servizi pubblici in collaborazione con i comuni, pianificare i trasporti, gestire i servizi e l’edilizia scolastica, tra le altre cose. Per definire nel dettaglio i compiti e i finanziamenti il governo dovrà confrontarsi con gli enti coinvolti, a partire dai Comuni e dalle Regioni.

«La riforma non risolve tutti i problemi delle province, è un inizio per ridare ai cittadini la possibilità di votare ma anche di mettersi in gioco, per candidarsi e rappresentare il proprio territorio», dice Pirovano. Per quanto riguarda i finanziamenti, per ora la legge stanzia solamente i fondi necessari a svolgere le elezioni dei presidenti e dei consiglieri provinciali nel 2024 (225 milioni di euro). Pirovano spiega però che la cifra scenderebbe notevolmente se venisse organizzato un election day, ossia accorpando le elezioni europee, regionali e metropolitane in un solo giorno.

Come spesso accade, durante l’esame in Commissione al Senato sono stati presentati centinaia di emendamenti al testo unificato, e uno in particolare sta facendo discutere. È stato presentato da Meinhard Durnwalder, del Gruppo per le Autonomie, e chiede di estendere da due a tre il numero massimo di mandati consecutivi sia per i presidenti di provincia che per i sindaci, un cambiamento che permetterebbe di ricandidarsi a molti sindaci sia di centrodestra – come Luigi Brugnaro a Venezia e Marco Bucci a Genova – che di centrosinistra, come Beppe Sala a Milano e Antonio Decaro a Bari.

Non è detto però che l’emendamento venga approvato, perché potrebbe essere considerato come un primo passo verso l’estensione da due a tre del numero massimo di mandati anche per i presidenti di regione. In questo modo si potrebbero ricandidare, tra gli altri, Vincenzo De Luca in Campania e Luca Zaia in Veneto. Pirovano ha detto che gli emendamenti devono ancora essere discussi, ma in ogni caso la legge «non si occupa dei comuni», e quindi nemmeno dei sindaci.

Il percorso della legge è ancora lungo, dato che il testo dovrà essere approvato dalla Commissione affari costituzionali del Senato e poi dalle due aule parlamentari, il Senato e la Camera. Secondo Pirovano però i lavori sono a buon punto: «Il testo base è stato deciso, ma il confronto è continuato. I nodi riguardano il sistema elettorale e, di conseguenza, la composizione dei consigli provinciali», dice.