Cosa c’è nel Piano Strutturale di Bilancio del governo

Il nuovo e atteso documento di finanza pubblica prevede un severo piano di risanamento dei conti pubblici, ma pochi dettagli su come avverrà

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti alla Camera dei deputati durante il voto sul Piano Strutturale di Bilancio, il 9 Ottobre 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti alla Camera dei deputati durante il voto sul Piano Strutturale di Bilancio, il 9 Ottobre 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Mercoledì è stato approvato dal parlamento il PSB, il Piano Strutturale di Bilancio, cioè il nuovo documento di finanza pubblica previsto dalla riforma delle regole europee sui bilanci degli Stati. Nel PSB il governo spiega cosa ha intenzione di fare coi conti pubblici nei prossimi sette anni, quindi quanto e in cosa spendere, da dove prendere i soldi, e come intende gestire l’andamento del debito pubblico. Rappresenta dunque la base non solo per la legge di bilancio che il governo deve presentare in queste settimane per l’anno prossimo, ma anche per tutte quelle fino al 2031. È una novità enorme per la programmazione economica dello Stato: il PSB è vincolante, e potrà essere modificato solo nel caso in cui dovesse entrare in carica un nuovo governo o nel caso di eventi eccezionali (una grave crisi economica o una calamità naturale) che renderebbero oggettiva la necessità di aggiornare i piani di spesa.

Il documento in sé è complicato e verboso, ha oltre 200 pagine, e mancano le informazioni davvero necessarie a capire bene la direzione dei conti pubblici. Lo avevano fatto notare anche la Banca d’Italia e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, nelle audizioni dei giorni scorsi.

Ma oltre che la forma, hanno fatto discutere anche i contenuti, perché il piano prospetta anni di forte risanamento del bilancio e «sacrifici», come ha ripetuto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Sebbene i dettagli diverranno più chiari con la legge di bilancio, dai pochi numeri che ci sono è evidente che ci sarà la necessità di una sostanziosa riduzione della spesa pubblica o di un aumento delle entrate, dunque delle imposte complessive pagate allo Stato da persone e imprese.

Il piano si basa sulle indicazioni della Commissione Europea di giugno, quando è stata chiesta per l’Italia la procedura per deficit eccessivo, riservata a quei paesi che superano certi parametri sul debito pubblico e sul disavanzo dello Stato (se un paese spende più di quanto incassa con le tasse, deve necessariamente indebitarsi). La Commissione aveva dunque individuato un percorso di andamento della spesa coerente con gli obiettivi di riportare entro la fine del piano il deficit sotto la soglia del 3 per cento del PIL (il prodotto interno lordo) e di avviare una riduzione del debito pubblico: nel 2023 è stato del 7,2 per cento e quest’anno è previsto al 3,8 per cento.

Nelle intenzioni della Commissione Europea il PSB deve avere una programmazione economica di legislatura, che in Italia è di cinque anni: il piano dura dunque fino al 2029, anche se di fatto gli anni residui della legislatura corrente sono tre. Il governo ha poi deciso di usare la possibilità prevista dalle regole di diluire in sette anni il percorso di risanamento dei conti, a patto di impegnarsi in riforme e investimenti: per questo poi ci sono anche previsioni fino al 2031.

Nel PSB il governo ha rispettato l’andamento richiesto dalla Commissione, e anzi si è impegnato ancora di più: prevede infatti che il rapporto tra deficit e PIL scenderà sotto il 3 per cento già nel 2026. Questi soldi vanno trovati o tagliando le uscite, cioè le spese della pubblica amministrazione, oppure aumentando le entrate, cioè le tasse. Come risultato il debito pubblico inizierà a scendere dal 2027.

Il cosiddetto “saldo primario”, cioè la differenza tra entrate e spese dello Stato senza considerare il pagamento degli interessi sul debito pubblico, tornerà positivo già da quest’anno per la prima volta dal 2019, seppur di solo 0,1 per cento del PIL: significa che l’Italia avrà per la prima volta un avanzo primario dopo anni di grande spesa per sostenere l’economia durante la pandemia e la crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina. Secondo il PSB un miglioramento del genere è dovuto a entrate più alte del previsto (il 3,6 per cento in più di quanto previsto ad aprile nel DEF, il Documento di Economia e Finanza) e a una spesa pubblica inferiore.

Il raggiungimento dell’avanzo primario è un obiettivo che nell’introduzione del documento il ministro Giorgetti ha definito «di natura morale prima che di contabilità pubblica»: da quando è in carica Giorgetti si è assunto la responsabilità delle decisioni più impopolari sulla finanza pubblica, a fronte di una linea di segno diverso e spesso opposto tenuta da alcuni altri membri del governo. Sta succedendo anche in questi giorni: mentre dal PSB e dai discorsi di Giorgetti è chiaro che il governo si è impegnato in un piano assai ambizioso e gravoso di risanamento dei conti, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in un video pubblicato su Instagram ha detto che il governo non aumenterà le tasse e che questo «lo facevano i governi di sinistra», e che anzi le ridurrà.

Non è chiaro su cosa si basi Meloni, perché nel PSB non ci sono dati né dettagli su quello che vuole fare davvero il governo per raggiungere gli ambiziosi obiettivi di risanamento dei conti che si è dato: mentre il documento è pieno delle cosiddette indicazioni tendenziali – quelle che indicano come andrebbe il bilancio a politiche invariate, cioè come se il governo non facesse nulla – mancano del tutte quelle programmatiche, ossia quelle che farebbero capire cosa cambierebbe con le misure che vorrebbe introdurre.

Le uniche indicazioni programmatiche sono quelle essenziali per la Commissione Europea e la procedura in corso, cioè valori di deficit, debito e spesa, poi poco altro. Per esempio, sono indicati chiaramente solo i limiti di spesa generali, e non c’è dunque un vero vincolo su come questa viene distribuita tra le varie voci (sanità, pensioni, personale, eccetera). Mancano poi molte delle tabelle della Nota di Aggiornamento al DEF (NADEF), il documento che fino all’anno scorso veniva diffuso in queste settimane e che è stato di fatto sostituito dal PSB: tra le varie, non c’è per esempio quella su come andranno le entrate fiscali con le politiche che intende attuare il governo, e quindi quante imposte il governo prevede di far pagare. Di come andranno le cose dal 2025 in poi si sa dunque poco.

Una tabella del PSB sulle entrate programmatiche, vuota dal 2025 (PSB, pagina 90 del pdf)

Il risultato è che un piano che doveva essere di più lungo periodo rispetto alla programmazione passata non consente di capire bene neanche cosa il governo vuole fare per la legge di bilancio dell’anno prossimo: ci saranno più dettagli con il Documento Programmatico di Bilancio, che dovrebbe essere pubblicato entro il 15 ottobre.

Nel PSB ci sono però alcune indicazioni, emerse anche durante l’audizione del ministro Giorgetti di martedì sui contenuti del piano, su cui infine si è concentrato il dibattito nei giorni scorsi. Per il 2025 il governo intende confermare e rendere strutturale il taglio sui contributi di cui hanno beneficiato negli ultimi due anni i lavoratori dipendenti con un reddito fino a 35mila euro l’anno, e anche la riduzione da quattro a tre delle aliquote delle imposte sul reddito (l’IRPEF). Il taglio sui contributi, per ammissione dello stesso Giorgetti, cambierà per evitare la perdita totale del beneficio subito oltre la soglia dei 35mila euro: diventerà più progressivo, ma ancora non ci sono dettagli su come funzionerà. Insieme le due misure costano complessivamente 18 miliardi.

Il governo vuole poi garantire «le risorse necessarie al rinnovo dei contratti pubblici, al finanziamento di misure per favorire la natalità e al rifinanziamento delle missioni di pace». E vuole «salvaguardare il livello della spesa sanitaria». Non è chiaro come intenda reperire i soldi per tutto, complessivamente la legge di bilancio dovrebbe prevedere 24 miliardi di euro di interventi aggiuntivi.

Dal piano si può intuire quanti di questi arriveranno in deficit, cioè facendo ricorso al debito pubblico: tra il deficit tendenziale, quello che si avrebbe cioè se le cose non cambiassero, e quello programmatico c’è una differenza di 0,4 punti percentuali, cioè 9 miliardi di euro. Mancano dunque altri 15 miliardi, che dovranno per forza arrivare da tagli alla spesa o aumenti delle tasse. Su questo non si sa molto, solo qualche indicazione di Giorgetti e alcune indiscrezioni sui giornali.

Una parte di questi dovrebbe arrivare da una sostanziale revisione della spesa dei ministeri e da riduzioni dei cosiddetti bonus fiscali, cioè quella enorme massa di agevolazioni fiscali riconosciute dallo Stato a specifiche categorie sociali o attività economiche e commerciali: da queste due misure – una riduzione di spesa e un aumento delle tasse – dovrebbero arrivare 5 miliardi di euro, secondo il Sole 24 Ore.

Ci sono poi gli effetti del cosiddetto concordato preventivo, quella serie di agevolazioni fiscali riconosciute a chi nei precedenti anni ha evaso le tasse, con l’obiettivo di invogliare gli evasori a dichiarare: è di fatto un condono, con cui il governo aveva inizialmente stimato di incassare 1,8 miliardi. È però una stima ambiziosa. Anzi, c’è anche l’ipotesi che alla fine il saldo sarà negativo, e produrrà una spesa per agevolazioni anziché un guadagno per maggiori redditi emersi.

La scorsa settimana poi Giorgetti aveva parlato di come il governo stesse studiando una nuova tassa sugli “extraprofitti” per quelle imprese a cui l’attività è andata particolarmente bene negli ultimi anni, come le banche e le imprese del settore della difesa. Non ci sono ancora dettagli su come e quanti effetti potrebbe produrre.

Giorgetti ha poi parlato di due misure: il primo è un intervento sulle accise, cioè le tasse che si pagano sul carburante. Il governo prevede di raccogliere circa 1 miliardo di euro livellando le accise su benzina e gasolio, abbassando cioè leggermente quelle sulla benzina e aumentando quelle sul gasolio, il più usato dai mezzi pesanti. La decisione ha suscitato molte polemiche, perché i partiti che sostengono il governo Meloni abbia sempre sostenuto di voler ridurre le accise, non aumentarle, e sarebbe invece la seconda volta che lo fa da quando è in carica.

Infine c’è l’intervento sulle rendite catastali, assai discusso come qualsiasi intervento riguardi le case: per la verità non sarà una misura di nuova introduzione, ma il governo ha detto di voler introdurre maggiori controlli. La questione riguarda l’adeguamento dei valori catastali degli edifici che hanno beneficiato del Superbonus, il costosissimo sgravio fiscale con cui sono stati finanziati i lavori di efficientamento energetico. L’idea è che con i lavori questi edifici abbiano acquisito valore, che deve essere adeguato anche nei registri catastali, facendo aumentare di conseguenza la base su cui si calcola l’IMU, l’imposta sugli immobili che finanzia i bilanci degli enti locali. Questo adeguamento era già stato imposto con la legge di bilancio dello scorso anno, ma Giorgetti ne ha ribadito la necessità per far sì che aumenti il gettito degli enti locali.