Perché per gli uomini è più difficile avere amici intimi?

Lo suggeriscono studi che hanno alimentato un dibattito sull’influenza dei modelli culturali tradizionali e degli stereotipi di genere

amicizie maschili
(Ian Forsyth/Getty Images)
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Una serie di articoli pubblicati negli ultimi due anni negli Stati Uniti e nel Regno Unito, partendo dai dati molto citati di alcuni sondaggi sull’evoluzione delle relazioni sociali durante e dopo la pandemia, si è concentrata su una significativa riduzione delle amicizie tra gli uomini. I dati hanno confermato tendenze all’isolamento che precedono la pandemia e che hanno subito un’accelerazione negli ultimi anni man mano che i livelli di solitudine sono aumentati in tutto il mondo, interessando maggiormente la popolazione maschile e i paesi con più inclinazione all’individualismo.

In molte riflessioni suggerite dall’analisi dei dati la crisi delle amicizie maschili, associata in parte all’aumento delle ore di lavoro e alla maggiore propensione a cambiare lavoro e quindi ambiente, è descritta soprattutto come un effetto indiretto dell’influenza degli stereotipi sulla maschilità nella società contemporanea. Secondo queste interpretazioni la conformità alle norme tradizionali di genere disincentiva la condivisione delle proprie vulnerabilità tra gli uomini e determina una riduzione – in alcuni casi una compromissione – delle espressioni di emotività necessarie a sviluppare intime relazioni interpersonali.

Il dibattito più recente sulla crisi delle amicizie maschili si è sviluppato in particolare nel 2021, dopo la pubblicazione dei dati di un sondaggio del centro studi American Enterprise Institute sulla popolazione statunitense. Secondo il sondaggio la percentuale di uomini che dichiarano di non avere amici intimi è salita dal 3 al 15 per cento negli ultimi trent’anni. E quella degli uomini che dichiarano di avere almeno sei amici è scesa dal 55 al 27 per cento. Tendenze simili sono state registrate anche nella popolazione femminile, ma in misura molto minore.

A dare rilevanza al dibattito sul piano sanitario sono le molte ricerche che descrivono da tempo le amicizie strette come un importante fattore per la salute e hanno mostrato una correlazione tra la riduzione delle relazioni sociali e l’aumento del rischio di disturbi come la depressione, l’ansia, le malattie cardiache e l’ictus. Le correlazioni sono in qualche caso così forti che gli autori e le autrici di quelle ricerche assimilano la mancanza di relazioni sociali a fattori di rischio per la salute noti e comprovati come il fumo di sigaretta. Alcuni studiosi hanno inoltre analizzato il rapporto tra la mancanza di relazioni sociali e l’esposizione alla violenza, e altri hanno associato l’isolamento all’aumento della violenza sociale.

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La ricercatrice statunitense Niobe Way, che insegna psicologia dello sviluppo alla New York University, ha osservato e studiato a lungo il fenomeno della perdita di amicizie maschili intime nella tarda adolescenza, nonostante il desiderio dei ragazzi di mantenerle. Inserito da Way in una collettiva e più ampia «crisi della connessione», il progressivo isolamento tardoadolescenziale sarebbe – insieme a una parallela e crescente aderenza agli stereotipi di genere – uno dei fattori alla base della tendenza di molti adulti a diventare diffidenti ed «emotivamente analfabeti».

L’ipotesi sostenuta da Way è che i ragazzi attraversino una crisi della connessione perché vivono in una cultura che assegna un genere – maschile o femminile – a bisogni, competenze e capacità umane fondamentali, tra cui l’empatia e l’affetto, incoraggiando o scoraggiando a seconda dei casi attività e rapporti. Consapevolmente o inconsapevolmente, secondo Way, tendiamo a insegnare ai ragazzi a mostrarsi invulnerabili e a considerare la severità e l’impassibilità qualità maschili fondamentali, e invece debolezze la sensibilità e la capacità di avere legami emotivi.

«Se osservi i ragazzini sono piuttosto aperti e affettuosi tra loro, e poi succede qualcosa», ha detto al New York Times lo psicologo statunitense Fred Rabinowitz, presidente del dipartimento di psicologia della University of Redlands, in California. In un libro in cui descrive le difficoltà degli psicoterapeuti a superare le barriere che impediscono a molti uomini di cercare aiuto, Rabinowitz sostiene che quelle barriere siano rafforzate dai messaggi sociali e dalla tendenza tra gli uomini adulti a considerare l’apertura e la vulnerabilità emotiva un tabù.

All’inizio degli anni Novanta lo psicologo statunitense Ronald F. Levant, ex direttore dell’American Psychological Association, la più grande associazione di psicologi negli Stati Uniti, osservò in diversi ragazzi – e non nelle ragazze – una specifica forma di alessitimia, una condizione che riduce la consapevolezza delle proprie emozioni e la capacità di descriverle e comunicarle. La definì «alessitimia normativa maschile», dopo averla riscontrata in ragazzi e uomini che erano cresciuti seguendo una rigida aderenza alle tradizionali norme maschili di genere, che enfatizzano la tenacia, la fermezza e la competizione, e scoraggiano l’espressione delle emozioni.

In uno studio pubblicato nel 2012 da Levant e dalla ricercatrice statunitense Emily Karakis, della University of Akron in Ohio, l’alessitimia normativa maschile è stata associata a una minore soddisfazione nelle relazioni, a una minore qualità delle comunicazioni e a una maggiore paura dell’intimità. «Penso che gli uomini abbiano un profondo desiderio di intimità con i loro amici», ha detto al New York Times lo psicoterapeuta statunitense Nick Fager, co-fondatore di Expansive Therapy, un gruppo di psicoterapia statunitense principalmente rivolto alle persone della comunità LGBT+.

Secondo i dati del sondaggio statunitense del 2021 dell’American Enterprise Institute, gli uomini hanno meno probabilità delle donne di condividere i propri sentimenti personali. Solo il 21 per cento di loro, contro il 41 per cento delle donne, ha detto di aver ricevuto sostegno emotivo da un amico o un’amica nella settimana prima del sondaggio. E il 30 per cento, contro il 48 per cento delle donne, ha detto di aver condiviso sentimenti personali con un amico o un’amica. Il 25 per cento degli uomini, contro il 49 per cento delle donne, ha detto a un amico o un’amica «ti voglio bene» almeno una volta.

Secondo l’antropologo e psicologo evoluzionista inglese Robin Dunbar, autore di diverse ricerche sull’amicizia, tradotto anche in italiano e noto per la “teoria di Dunbar” (una discussa stima della quantità massima di relazioni gestibili da una persona), la difficoltà a stabilire relazioni intime da parte degli uomini riflette anche una differenza tipica tra uomini e donne nelle amicizie. Quelle tra le donne tendono a essere più personalizzate e diadiche, cioè di coppia, e a considerare la persona per quello che è più che per il gruppo di cui fa parte.

Al contrario, ha detto Dunbar al Guardian, nelle amicizie tra gli uomini «conta più cosa sei rispetto a chi sei». Relazioni di questo tipo sono spesso costruite intorno ad attività di gruppo che non richiedono condivisioni a livello emotivo, e in cui una persona può essere anche sostituita (quello dei giocatori di calcetto, per esempio).

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Esprimere ogni tanto in modo diretto i propri sentimenti verso gli amici, secondo Rabinowitz, è invece uno dei modi più semplici per esercitarsi a essere più aperti con gli altri uomini a un livello emotivo. E nel caso in cui questo comportamento provochi disagio sarebbe utile acquisire consapevolezza di quel disagio e chiedersi da dove provenga. Un altro modo è provare a unirsi a gruppi di supporto e prendere parte a terapie di gruppo, in cui è più semplice incontrare uomini ugualmente disposti a stabilire relazioni emotive con altri uomini.

Sapere che altri uomini condividono problemi nella sfera dell’emotività, indipendentemente da quanto forti e sicuri di sé appaiano dall’esterno, può inoltre essere utile a ridurre i sentimenti di vergogna. Secondo la statunitense Brené Brown, ricercatrice della University of Texas e autrice di diversi libri e ricerche sulla vergogna, la vulnerabilità e la leadership nei rapporti umani, la vergogna è la principale ragione che mantiene gli uomini isolati e incapaci di ricevere e fornire sostegno emotivo.

Mentre le donne provano vergogna quando non riescono a soddisfare aspettative irrealistiche e spesso contraddittorie, spiegò Brown in una conversazione con l’Atlantic, gli uomini provano vergogna quando mostrano segni di debolezza. Poiché i messaggi sociali a loro indirizzati indicano qualsiasi debolezza come qualcosa di cui vergognarsi, gli uomini tendono a evitare di avere conversazioni sulla propria vulnerabilità, da loro spesso percepita come una debolezza, e che nelle ricerche di Brown è invece considerata proprio un antidoto alla vergogna e una forma di coraggio.

Ammettere di provare paura e dolore, chiedere aiuto agli altri, trasgredire norme culturali di genere che impongono agli uomini di tacere sulla propria vulnerabilità, per Brown, è ciò che permetterebbe loro di creare più facilmente legami umani profondi. E partecipare a incontri con gruppi di sostegno maschili può essere di aiuto, purché la partecipazione sia motivata da quella intenzione e non soltanto dal desiderio di fare nuovi amici.

Connor Beaton, fondatore del gruppo ManTalks, ha raccontato al New York Times di aver fondato il gruppo dopo aver scoperto che imparare a essere vulnerabile aveva migliorato le sue amicizie. Diversi anni fa parlò dei suoi problemi di abuso di sostanze con un amico che conosceva da anni e con cui aveva viaggiato molto, il quale lo sorprese a sua volta dicendogli di aver avuto pensieri sul suicidio. «Mi colpì molto il fatto che allo stesso tempo sapessi tutto di quell’uomo, fino al tipo di scotch che gli piaceva bere, e non avessi idea che fosse così tanto in difficoltà», ha detto Beaton.

Il rapporto tra i modelli di maschilità tradizionali e i pensieri suicidari è da tempo uno dei temi trattati nei men’s studies, un ambito di studi interdisciplinari sulle influenze sociali, storiche e culturali esercitate sul genere maschile nella società contemporanea. In alcune ricerche l’idealizzazione della maschilità tradizionale e l’incapacità di molti uomini di realizzare quell’ideale sono considerate un fattore di rischio, perché espongono gli uomini al rischio di rabbia, frustrazione e depressione collegate a esperienze di insuccesso e che possono tradursi in un’aspettativa di vita ridotta.

In uno studio condotto su 2.431 uomini di 18 e 19 anni, pubblicato nel 2015 dallo psichiatra della Fordham University di New York Daniel Coleman, quelli che condividevano l’idea che gli uomini debbano provvedere al sostentamento della famiglia, essere invulnerabili o autosufficienti avevano maggiori probabilità di sviluppare pensieri relativi al suicidio e di mostrare segni di depressione.

Come detto al Guardian dallo psicoterapeuta inglese Adrian Wilson-Smith il declino delle amicizie tra gli uomini è in parte riconducibile anche alla tendenza riscontrata in molti adulti eterosessuali ad aspettarsi che siano le partner a occuparsi delle relazioni sociali per entrambe le parti della coppia. Questa aspettativa è a sua volta alla base di una progressiva riduzione dell’investimento emotivo in possibili nuove relazioni di amicizia.

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La condivisione intima delle proprie difficoltà può servire anche nelle amicizie maschili più solide e durature, per approfondirle e migliorarle, secondo la psicologa statunitense Marisa G. Franco, docente alla University of Maryland e autrice di un libro sulle difficoltà nel creare e mantenere amicizie in una società che privilegia spesso le relazioni d’amore a scapito delle altre.

A differenza di altre età in cui la condivisione di spazi comuni e la ridotta influenza delle norme culturali rende più spontanea e casuale la creazione di legami intimi, fare amicizia in età adulta richiede un investimento emotivo che non tutte le persone sono disposte a fornire, scrive anche Franco. Secondo una teoria nota in psicologia come «teoria della regolamentazione del rischio» decidiamo quanto investire in una relazione in base alla probabilità stimata di essere rifiutati.

Un ampio studio longitudinale del 2009, che misurò le variazioni del campione nell’arco di cinque anni, mostrò una correlazione tra una maggiore partecipazione sociale e la convinzione che fare amicizie in età adulta richieda un impegno attivo. Basandosi sulle conclusioni di questo studio e di altri, Franco suggerisce che le persone siano solitamente apprezzate dagli estranei più di quanto pensino. Nelle ricerche più recenti in questo ambito il divario tra quanto una persona crede di piacere a un’altra e l’effettiva opinione di quell’altra persona è definito liking gap (“divario di gradimento”). E gli studi mostrano come le persone tendano a sottostimare quanto piacciono agli altri e quanto gli altri apprezzino la loro compagnia.

Uno dei consigli condivisi da Franco e da altri psicologi per aumentare le probabilità di fare amicizia è partecipare ad attività che prevedano incontri regolari nel tempo anziché occasionali. Anche nel caso delle relazioni maschili questo tipo di incontri permette di sfruttare il cosiddetto «effetto di mera esposizione», un fenomeno psicologico noto per cui tendiamo ad apprezzare di più le cose e le persone quanto più diventano a noi familiari.

Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico Italia allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare i Samaritans al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al numero 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.