La maggior parte delle api non è in pericolo, e anzi

Anche a causa della sensibilizzazione degli ultimi anni le più diffuse sono più numerose che mai, con effetti negativi sulla biodiversità

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Due apicoltori nei giardini di Buckingham Palace a Londra, il 18 maggio 2023 (Aaron Chown/Getty Images)

Il MoMA di New York, uno dei più importanti musei di arte moderna e contemporanea al mondo, ha recentemente mostrato sul suo profilo Instagram quattro arnie fatte costruire sul tetto dell’edificio «come parte della missione di sostenibilità del MoMA», per «il ruolo essenziale che le api svolgono nel nostro ecosistema». Per l’installazione delle arnie il MoMA aveva contattato a febbraio Andrew Coté, presidente dell’Associazione degli apicoltori di New York, che aveva però rifiutato. La motivazione di Coté era che la popolazione già esistente di api occidentali – uno dei nomi comuni dell’Apis mellifera, la specie di ape più diffusa al mondo – sarebbe responsabile dell’esaurimento delle limitate risorse floreali presenti in città per gli insetti impollinatori.

La convinzione che le api stiano diminuendo pericolosamente cominciò a diffondersi nei primi anni Duemila, quando la popolazione di api mellifere si era ridotta fortemente a causa di un anomalo spopolamento degli alveari. Furono fatti molti studi e una lunga serie di iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, il cui successo ebbe tra i suoi vari effetti una grande attenzione al tema e una rapida espansione delle attività di apicoltura. Questa espansione è ancora oggi sostenuta in alcuni casi dalla convinzione, ormai infondata, che la popolazione delle api stia diminuendo.

Tra il 2011 e il 2021, secondo i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), il numero di alveari nel mondo è cresciuto del 26 per cento, passando da 81,4 a 101,6 milioni. Alle ragioni storiche della diffusione delle api occidentali, allevate su larga scala per l’impollinazione oltre che per la produzione del miele e della cera, si intersecano da qualche anno interessi più ampi e di tipo diverso, tra cui il desiderio delle persone e delle aziende di mostrare un segno visibile di particolare sensibilità e attenzione per l’ambiente.

L’attuale sovrappopolazione di api occidentali pone tuttavia numerosi rischi per l’ambiente e, nello specifico, per migliaia di altre specie di api e di insetti impollinatori con cui le api occidentali competono per le stesse risorse. E per salvaguardare la biodiversità alcuni apicoltori hanno cominciato a suggerire ai loro clienti interessati all’installazione di arnie nelle proprie strutture – di solito sui tetti degli edifici – di scegliere altri modi di tutelare l’ambiente. Suggeriscono di installare cassette per altri insetti, per esempio, o mettere a dimora piante che incrementino la disponibilità di nettare, cioè la risorsa necessaria per gli impollinatori.

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Come raccontato dal giornalista David Segal in un recente articolo sul New York Times l’idea che le api siano in pericolo e il desiderio di molti di difenderle allevandole in una o più arnie risalgono storicamente alla semplificazione dei fenomeni, ancora non del tutto spiegati, che determinarono uno spopolamento degli alveari negli anni Duemila.

Un apicoltore statunitense, David Hackenberg, notò nel 2006 che in molti dei suoi circa 400 alveari le api erano scomparse. E la stessa cosa fu riferita in seguito da altri apicoltori in altri paesi nel Nord America e in Europa: il fenomeno, definito sindrome dello spopolamento della colonia (Colony Collapse Disorder, CCD), fu oggetto di diversi studi che non riuscirono a chiarirne esattamente le cause. Alcune ricerche attribuirono lo spopolamento all’uso di certi pesticidi, altre ipotizzarono che potesse essere causato da un virus e da un fungo parassita, e altre ancora citarono la scarsità di foraggio disponibile per le api e il cambiamento climatico.

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Un’ape raccoglie il polline dai fiori di un ciliegio selvatico vicino a Berlino, in Germania, il 25 aprile 2013 (Sean Gallup/Getty Images)

Le molte campagne di sensibilizzazione avviate in quel periodo resero il ripopolamento degli alveari un obiettivo noto e largamente condiviso dall’opinione pubblica. Fu in generale la prima volta che un così gran numero di persone si interessò agli insetti impollinatori, ha detto al New York Times Scott Hoffman Black, direttore dell’organizzazione internazionale non profit Xerces Society for Invertebrate Conservation. Ma il rovescio della medaglia fu che nel dibattito andarono perse tutte le sfumature di una questione complessa e condizionata da fattori economici.

Negli Stati Uniti per esempio circa un milione di alveari è trasportato ogni anno in paesi come la California, dove le api sono fondamentali per l’impollinazione dei mandorli – un mercato da cinque miliardi di dollari all’anno – e di altri raccolti le cui coltivazioni dipendono da colonie di api numerose e in buona salute. È un’industria estesissima, in parte descritta anche in un recente articolo del New Yorker, e attrezzata per sopperire a una quantità preventivata di perdite stagionali. Una quota compresa tra il dieci e il 20 per cento degli alveari, indipendentemente dalla sindrome dello spopolamento, non sopravvive durante i mesi invernali.

Una parte di queste perdite è correlata all’evoluzione stessa delle tecniche e dei mezzi utilizzati per prolungare il rendimento degli alveari, in cui le api regine vengono spesso sostituite prima del tempo con esemplari più giovani, scrive il New Yorker, e in cui parte del miele che potrebbe servire alle api per superare l’inverno viene prelevato prima che abbiano la possibilità di mangiarlo. Nonostante gli alti tassi di mortalità delle api, la progressiva intensificazione degli sforzi per allevarle su larga scala ha fatto sì che ci siano sul pianeta «più api mellifere oggi di quante ce ne siano mai state nella storia dell’umanità», ha detto Black al New York Times.

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Il dibattito dell’ultimo decennio ha generato inoltre confusione e superficialità riguardo alle api che hanno bisogno di essere salvate. A parte le api mellifere – l’unico gruppo che alimenta un’industria multimiliardaria e che non ha bisogno di aiuto – esistono oltre 20mila specie di api selvatiche (il nome improprio con cui sono di solito definite le api diverse dall’Apis mellifera). Non producono miele e vivono perlopiù in nidi nel terreno o in cavità nei tronchi d’albero, ma sono indispensabili impollinatori di piante, fiori e colture. Eppure molte di queste specie, le cui popolazioni sono effettivamente in declino, non ricevono le attenzioni delle api mellifere.

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Un apicoltore controlla le arnie costruite sul tetto del grande magazzino Fortnum & Mason a Londra, nel Regno Unito, il 22 luglio 2008 (Peter Macdiarmid/Getty Images)

Nella letteratura scientifica l’ape occidentale è a volte paragonata alle specie invasive e definita una «specie controllata introdotta in modo massiccio» (Massively Introduced Managed Species, o MIMS), la cui popolazione è in aumento in quasi tutti i continenti a scapito di altri impollinatori selvatici. Secondo una ricerca del 2020 la densità delle colonie di api nel bacino del Mediterraneo, che ospita circa 3.300 specie di api selvatiche, è aumentata in modo esponenziale tra il 1963 e il 2017. Ma le api selvatiche sono state gradualmente sostituite dall’Apis mellifera: il rapporto tra api selvatiche e fiori era quattro volte maggiore rispetto a quello tra api mellifere e fiori all’inizio del periodo, e le proporzioni di entrambi i gruppi sono diventate più o meno simili 50 anni dopo.

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Il crescente interesse per la costruzione di arnie sui tetti e le terrazze di edifici commerciali come hotel e B&B negli Stati Uniti e in Europa, ha scritto Segal, asseconda in parte un diffuso desiderio di fare qualcosa di positivo per l’ambiente e riflette un’accresciuta attenzione per le iniziative ecosostenibili. Da questo punto di vista le api mellifere sono uno dei modi più popolari e visibili per attuare questa sorta di «greenwashing apiario», anche in paesi – come la Slovenia, per esempio – in cui esiste per giunta una lunghissima tradizione di apicoltura.

Secondo un rapporto del 2020 del Royal Botanic Kew Gardens, l’istituto di ricerca del più grande giardino botanico di Londra, il foraggiamento delle moltissime colonie di api presenti in città rischia di soppiantare altre specie di api. «L’apicoltura per salvare le api potrebbe in realtà avere l’effetto opposto», era scritto nel rapporto. Ad aggravare la situazione contribuisce il fatto che le api mellifere siano diventate una sorta di trofeo vivente che le aziende desiderano mostrare, ha detto al New York Times Richard Glassborow, presidente dell’Associazione degli apicoltori di Londra.

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Un’ape selvatica raccoglie il polline da un fiore in un campo vicino a Wernigerode, in Germania, il 18 giugno 2022 (AP Photo/Matthias Schrader)

Persone come Coté e Glassborow, ha scritto Segal, si trovano nella particolare condizione di essere appassionati di api da miele in luoghi con troppe api da miele. A fronte dell’interesse per l’installazione di nuove arnie cercano piuttosto di convincere le aziende a costruire cassette per insetti diversi dalle api, per esempio i bombi, o piantare alberi e fiori in modo da aumentare gli approvvigionamenti alimentari per gli insetti impollinatori: inclusi quelli meno considerati e in declino come le falene e le vespe, essenziali per l’impollinazione delle piante selvatiche e di molti raccolti.

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In particolare nelle aree urbane gli alveari sono così diffusi da aver provocato una riduzione anziché un incremento della quantità di miele che riescono a produrre. In Slovenia, secondo dati del governo citati dal New York Times, la produzione di miele è inferiore a quella di 15 anni fa nonostante il numero di alveari nel paese sia più che raddoppiato. E questo succede perché non c’è abbastanza nettare per tutti, secondo l’apicoltore sloveno Matjaz Levicar, e le api mellifere lo usano per alimentarsi anziché trasformarlo in miele. «In Slovenia dobbiamo nutrire le colonie di api mellifere con lo zucchero per la maggior parte dell’anno», ha detto Levicar.