Api, bombi e altri impollinatori da proteggere

Il campo da gioco? Attualmente (quasi) otto miliardi di persone. Nel 2050 arriveremo a 10 miliardi (poi comincerà la decrescita demografica, dicono quelli che hanno il coraggio di avventurarsi nel futuro). L’età media delle popolazioni si sta alzando, tranne in India e in Africa (sono più giovani), viviamo dunque più a lungo (poi magari non aggiungiamo vita agli anni) e di sicuro, via via, mangeremo cose diverse (noi occidentali abbiamo perso il primato, siamo in pochi ormai, nemmeno due miliardi). Per mangiare bisogna coltivare, ovvio, ma gli ettari coltivabili (a meno che non si mettano a colture i deserti) rimarranno pressoché invariati. Come si fa? Se intensifichiamo non causeremo squilibri? Come si dice in gergo, succhiamo risorse, e poi? Esempio di squilibro, spesso citato, sono le api domestiche. In alcuni paesi la popolazione si è contratta. Perché Che succede? Di chi è la colpa? Quattro chiacchiere con Mauro Mandrioli.

Ciao, presentati

Mi chiamo Mauro Mandrioli, ho 48 anni e sono Professore Associato in Genetica all’Università di Modena e Reggio Emilia. Mi occupo da quasi vent’anni di insetti di interesse agrario studiando sia l’evoluzione dei loro geni che dei loro simbionti, cioè dei numerosi batteri che vivono all’interno del corpo di tutti gli insetti (e non solo).

Ti concentri soprattutto sugli insetti di interesse agrario, immagino

Gli insetti che studio, tra cui afidi e cicaline, sono accomunati dal fatto di essere dannosi per numerose piante che coltiviamo e in particolare sono in grado di trasmettere microrganismi che causano malattie, spesso molto gravi, alle piante.

Che si può fare?
Lo scopo del mio lavoro consiste nell’identificare nuovi metodi per eliminarli senza arrecare danni agli altri insetti. O almeno… per arrecarne il meno possibile.

Lo chiedo anche a te, perché è una questione che genera fraintesi, e poi vorrei tornare sull’argomento, se non difendessimo le piante che accadrebbe?

Come dimostrato da stime della FAO, la produzione agricola mondiale calerebbe del trenta per cento senza interventi di difesa. È per questo che tutti gli agricoltori (anche quelli che fanno agricoltura biologica) devono usare insetticidi.


A proposito di bio, premessa, ti devo confessare che mi sono formato negli anni ’80 con un’impostazione bio, quindi sono interessato a tutti gli strumenti efficaci e testati che permettono un risparmio di input (ma questo causa fraintesi: alcuni strumenti sono malvisti) ma detto questo, di insetti ci capisco poco, quindi partiamo dalle basi (dal campo da gioco)… Mi sembra che il 90% dell’impollinazione sia entomofila, il resto anemofila, poi ci sono altri modi, gli uccelli (il Colibrì), animali, corsi d’acqua. Mi confermi questi dati?
Complessivamente circa il 90% delle piante usa un animale per trasferire il polline durante l’impollinazione. Questi animali (che sono effettivamente spesso insetti) sono anche definiti pronubi, proprio perché permettono l’incrocio tra due piante. Per gli antichi Romani, con questo termine si indicava chi assisteva lo sposo nella cerimonia nuziale, oggi siamo meno formali e ci interessa solamente che le piante si incrocino, perché senza impollinazione non avremmo molti dei frutti che servono all’alimentazione umana. Non è un caso che molte piante abbiano fiori vivacemente colorati, riuniti in infiorescenze vistose che emanano profumi inebrianti.

Puoi spiegare?
Questo è il modo in cui le piante si assicurano di essere impollinate e per assicurarsi i servizi degli animali pronubi sono pronte a ripagarli (letteralmente) con deliziosi nettari.

Va bene, eppure quando parliamo di insetti pronubi spesso ci riferiamo solo alle api

Infatti, quando si pensa agli impollinatori i primi animali a venire in mente sono generalmente le api da miele, quelle che gli scienziati chiamano Apis mellifera. Questo abbinamento è così forte che molto spesso quando si parla di impollinatori, tantissime persone (anche nei media) pensano subito (e solo!) alle api.

Mi puoi fornire dei numeri?
Se vogliamo parlare di impollinatori, alle api domestiche dobbiamo aggiungere tra cento e duecentomila diverse specie animali in grado di agire da impollinatori. Solo il quindici per cento dei vegetali si “appoggia” in realtà alle api domestiche e per giunta non in forma esclusiva: molte piante preferiscono infatti affidarsi contemporaneamente a più “servizi di trasporto”.

Riusciamo anche a quantizzare la produzione?
Gli impollinatori sono molto importanti in agricoltura perché dal loro lavoro deriva la possibilità di avere un’agricoltura produttiva. Sebbene io non ami abbinare a un vivente un valore economico, la produzione agricola mondiale direttamente associata all’impollinazione animale vale tra i duecento e i cinquecento miliardi di dollari. Gli impollinatori non si occupano però solamente di piante coltivate, per cui la loro azione è importante in generale per la conservazione di molte specie vegetali in natura e quindi la loro importanza non è legata esclusivamente al servizio ecosistemico che svolgono a nostro vantaggio.

Ok, senti, scusami, ti chiedo ancora numeri. Ma le piante di interesse agrario che si affidano alle api per l’impollinazione in senso stretto, quali sono? Dovrebbero essere poche, cioè colza, girasole, soia e alcune fruttifere, le altre, grano, mais, patate ecc. sono anemofile?
A livello globale, il 75% delle principali colture agrarie si basa sull’impollinazione operata da animali, mentre in Europa la produzione di circa l’80% delle 260 specie coltivate dipende dall’attività degli insetti impollinatori. Se ci riferiamo invece alle sole api domestiche effettivamente le piante che dipendono solamente da loro sono poche.

Facciamo un elenco di massima?
Volendo fare un elenco possiamo considerare le api domestiche essenziali per kiwi, frutto della passione, sorbo, anguria, zucca e zucchine, mentre per molte altre piante le api domestiche sono importanti, ma anche bombi e api solitarie danno un contributo decisamente rilevante. Ad esempio, per impollinare i pomodori in serra si preferiscono i bombi alle api.

Quindi, parlare solo delle api domestiche è riduttivo?
Sebbene possa sembrare un tecnicismo sarebbe più corretto in genere parlare di impollinazione data da Apoidei, che è il termine con cui si indica un ampissimo numero di imenotteri, tra cui anche le api domestiche e quelle solitarie, specializzati nella raccolta di polline. Da un punto di vista comunicativo è certamente più facile dire api e non Apoidei, ma il rischio è che il termine ape venga inteso come ape domestica e non in genere come nome comune di un ampio gruppo di specie.

E c’è un problema di biodiversità, intendo di impollinatori? Più sono meglio è
Sì, come dimostrato in vari articoli scientifici, i servizi ecosistemici legati all’impollinazione funzionano bene quando è presente in campo un’ampia biodiversità di impollinatori e una singola specie di impollinatore non può compensare la perdita delle altre. Sebbene quindi spesso si parli di conservazione delle api domestiche, in realtà dovremmo ragionare in termini di tutela degli impollinatori nel loro complesso. Probabilmente questo deriva dal fatto che ci piace credere che con soluzioni semplici si possono ottenere grandi risultati. La realtà, come spesso accade in campo, è purtroppo decisamente più complessa.

Senti, a proposito di complessità, che sta accadendo alle api domestiche? Guarda, ti faccio più domande. Sta accadendo solo in Italia? in Europa, in tutto il mondo? cosa dicono i dati?
A partire dai primi anni del 2000, primariamente negli Stati Uniti ma anche in alcune nazioni europee (tra cui Francia, Belgio, Svizzera, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia e Spagna), vi è stata una importante diminuzione delle popolazioni di api. La moria di api negli USA è stata sicuramente la più significativa e si è iniziato a parlare di sindrome da spopolamento degli alveari (dall’espressione inglese Colony Collapse Disorder o CCD) per indicare quanto stava accadendo.

Ok, quindi a partire dal 2000 sono cominciate le indagini?
Sono stati condotti numerosi studi nel corso degli ultimi 15 anni per capirne le cause, ma ad oggi mancano risultati conclusivi. È abbastanza diffusa l’idea che la CCD derivi da un insieme di più fattori, che comprendono sia la diffusione di patogeni e parassiti delle api, che la presenza nell’ambiente di alcuni principi attivi verso cui le api domestiche sono particolarmente sensibili. Secondo alcuni ricercatori anche la frammentazione degli habitat, la presenza di estese monocolture e il nomadismo (molto comune in particolare negli USA dove le api sono spostate per centinaia di chilometri per impollinare ampie aree coltivate) sono parte del problema.

L’Italia?
L’Italia ha avuto alcuni problemi, ma la perdita è stata fortunatamente più contenuta rispetto alle altre nazioni europee. In Italia ci sono stati alcuni casi che hanno avuto ampio risalto mediatico, ma anche in questi casi non sono state identificate cause univoche.

Va bene, puoi fare un elenco di probabili cause?
Quello che intendo è che in alcuni anni la causa primaria è stata la presenza di alcuni patogeni (tra cui un virus che deforma le ali delle api), mentre in altri casi la causa sembra essere l’utilizzo non corretto di alcuni agrofarmaci. Lo scorso anno, ad esempio, in Friuli c’è stata una segnalazione di molti casi di api morte ed era stato suggerito che la causa fosse da ricondurre a una mancata cautela nell’uso del Mesurol 500, un composto usato per conciare i semi di mais che contiene il Methiocarb, sostanza nota per avere un tasso elevato di tossicità per le api. Da quanto ho però letto all’inizio di quest’anno, adesso gli esperti parlano di diffuso inquinamento ambientale da fitofarmaci come primaria causa della moria. Sarà interessante vedere i risultati di queste analisi per capire cosa è realmente accaduto.

Senti e negli altri continenti?
Ad oggi non sono state registrate morie di apia in Asia e Africa e, su scala globale, i dati della FAO ci mostrano che gli apiari sono in continuo aumento dagli anni ’60 ad oggi. La situazione è oggi migliorata in molte nazioni, tra cui anche negli USA, dove negli ultimi anni le perdite, seppure ancora presenti, sono divenute meno diffuse.

A proposito di complessità, ho visto un grafico che allego qui sotto (che tra l’altro conferma quanto dici), dove si indica un crollo (tutto europeo) della popolazione di Api domestiche intorno al 1989/90, periodo conseguente alla caduta del muro. C’erano infatti molti cittadini della Germania Est che coltivavano api (il regime glielo concedeva) per integrare il reddito statale. Dopo il crollo del muro, molti apicoltori smisero l’attività. In Francia invece un altro studio segnala un forte cambiamento del paesaggio agricolo, come causa più importante, ma io resterei un attimo sugli agrofarmaci: c’è una particolare categoria di agrofarmaci sotto accusa? I neonicotinoidi, per esempio.

La tua domanda evidenzia benissimo quanto sia complessa la situazione, nel senso che quando cambiamo ciò che coltiviamo o il modo in cui lo facciamo andiamo a influenzare tutti i viventi che in quell’ambiente vivono, api comprese. Il problema è la complessità dei sistemi agricoli. Mi spiego meglio.

Dai…
Negli ultimi dieci anni in alcune nazioni, tra cui in particolare in Francia, i neonicotinoidi (che sono insetticidi di sintesi con struttura simile alla nicotina) sono stati banditi in quanto accusati di essere la principale causa della moria api.

Sì, si usano (anche) per la concia dei semi. Che tra l’altro scusa, guarda l’ironia, apro una parentesi, negli anni ’80, quando cominciavo ad andare per campi, avevo a disposizione o molecole poco efficaci (piretro) o alcune veramente micidiali (estratti di nicotina, prodotti derivati dalla ricerca bellica come i gas nervini o i prodotti clorurati). Un casino per l’ambiente, per questo, cioè per eliminare gli effetti collaterali, prima si studiarono sostanze naturali poi si sintetizzarono molecole similari: i piretroidi (somiglianti al piretro naturale) e i neonicotinoidi (ricalcanti gli estratti di nicotina naturali). Sembrava andasse tutto bene, anche perché le dosi da usare calarono moltissimo. E invece… ma dimmi. Com’è la situazione ora?
Dopo aver condotto un’analisi dei dati scientifici, l’EFSA, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, ha affermato che non sussistono dubbi sul fatto che tre neonicotinoidi (clothianidin, imidacloprid e thiamethoxam) sono pericolosi sia per le api mellifere che quelle selvatiche. Nelle settimane scorse la Francia ha annunciato che rivedrà questa decisione, perché non potendo usare i neonicotinoidi molti agricoltori hanno trovato i propri campi pesantemente invasi da afidi, per cui le produzioni sono state decisamente scarse.

Che si fa?
Penso che si arriverà a una situazione di compromesso, in cui i neonicotinoidi saranno nuovamente utilizzabili, ma ricorrendo a disciplinari aggiornati, vere e proprie indicazioni pratiche che gli agricoltori devono seguire per usare tutti gli agrofarmaci.

Comunque, il campo, proprio per la sua complessità è sempre un banco di prova, tra situazione ideale, un mondo dove i parassiti non attaccano le piante, e un mondo reale…
Sì, quanto accaduto in Francia per me è interessante da un punto di vista pratico perché ci ricorda che in natura non esistono pasti gratis e che gli insetticidi sono essenziali per una agricoltura produttiva. Certamente dobbiamo usarne il meno possibile e serve seguire regole precise, oltre che nuovi strumenti per liberarli nell’ambiente. Questi risultati li possiamo oggi ottenere ricorrendo all’agricoltura di precisione: non basta vietare, serve innovare.

Credo che le voci critiche contro gli agrofarmaci siano state utili, anche per studiare agrofarmaci migliori…
In effetti, ridurre l’uso dei neonicotinoidi (e in generale degli insetticidi) non è una utopia, ma è anzi quello che sta già accadendo da decenni. Come mostrano i pubblicati da Our world in data, in Italia dal 1990 in poi c’è stato un calo del quaranta per cento nella quantità di agrofarmaci usati in agricoltura e un andamento simile si registra in altre nazioni europee. Questa penso che sia la via più utile da seguire, possiamo mettere in campo una agricoltura che, consapevole degli effetti avversi sull’ambiente, innova per diventare più sostenibile.

Sì, nello specifico capitolo agrofarmaci, i cittadini (anche quelli che hanno combattuto per un’agricoltura migliore) non ci credono, sospettano che sia un inganno. A volte, specie in agricoltura, ignoriamo i miglioramenti. Senti un’ultima cosa sulle api, poi volevo approfittare anche del tuo libro, Nove miliardi a tavola (Zanichelli) per chiederti delle cose sul futuro dell’agricoltura. Dunque, visto che ci sono in gioco più fattori, dagli acari, ai cambiamenti del paesaggio, ai tre neonicotinoidi, sono allo studio protocolli che affrontano la complessità e insomma cercano di difendere le api?
L’approccio tradizionale usato in agricoltura considera il campo coltivato come un’unità omogenea, dove le pratiche agricole sono uniformemente gestite, mentre in realtà la presenza di insetti infestanti è spesso limitata a una parte del campo, per cui trattare l’intera area coltivata non è necessario.

Sì, questo era il vecchio approccio, ma oggi…
Oggi possiamo, ad esempio, adottare sistemi di monitoraggio “smart” costituiti da trappole dotate di sensori e/o telecamere in grado di segnalare a distanza (tramite wireless) la presenza di insetti infestanti e la loro abbondanza. Questo ci permette di usare gli insetticidi solo dove servono e con tempi celeri. Alcune di queste trappole permettono di integrare i dati relativi all’abbondanza degli insetti infestanti con i dati meteorologici permettendo all’agricoltore di pianificare l’intervento da realizzare in modo ottimale, tenendo anche conto dei precedenti trattamenti. Ricorrendo a sistemi simili possiamo risparmiare sino al 70% degli insetticidi usati e questo è utile sia per l’ambiente che per l’agricoltore.

Senti, e nel complesso, quali sono i modelli in campo grazie ai quali possiamo proteggere produzione e biodiversità?
Penso che serva decidere quale modello produttivo vogliamo seguire e come integrare conservazione della biodiversità e produzione. Secondo alcuni ricercatori dovremmo seguire un modello definito land sharing in cui l’agricoltore ricorre a una agricoltura meno intensiva allo scopo di mantenere la biodiversità (come può fare in parte l’agricoltura biologica).

Ok
A me questo modello non piace non solo perché si rischia che per mettere a tavola nove miliardi di persone si debbano aumentare le aree coltivate (dove le troviamo?), ma anche perché gli ambienti coltivati non sono ambienti naturali, proprio perché coltivati, e possono sostenere solo una parte della biodiversità. Io preferisco il modello land sparing che, semplificando, mira ad avere la massima resa in aree ben determinate di territorio, così da dedicare le restanti aree alla conservazione delle api (tutte!) e della biodiversità, senza introdurre alcuna pratica agricola.

Perché dici tutte le api?
Perché ogni volta che parlo di api, qualcuno mi manda l’affermazione attribuita ad Albert Einstein secondo cui se le api scomparissero dalla Terra, per l’uomo non resterebbero che quattro anni di vita. Al di là del fatto che Einstein non si è mai interessato alle api e che questa frase risale ad una manifestazione tenutasi quarant’anni dopo la sua morte, l’obiettivo che dobbiamo avere è di tutelare la biodiversità e non una singola specie bandiera. Tra l’altro l’ape domestica è in una situazione di vantaggio rispetto agli altri pronubi perché è cosmopolita, generalista e protetta dal lavoro degli apicoltori.

Va bene, senti, domanda con premessa lunga. Ma non è che esistono vari modi di fare agricoltura e ognuno deve cercare (e provare con dati alla mano: fuori l’ideologia dai campi) la sostenibilità (e la necessaria innovazione?) A volte il bio è fantastico, prendi alcune zone marginali o luoghi dove è possibile farlo. Eppure, la mia impressione è che manchi la consapevolezza del campo da gioco, ormai siamo 8 miliardi (pochi occidentali, nemmeno due miliardi, il resto diviso tra Asia e Africa, altri cibi, altre dinamiche, altri scambi commerciali). L’età media si alza, viviamo di più e andiamo verso i 9/10 miliardi. Ora, questo mondo è anche figlio dei nostri sogni migliori, un mondo, perlomeno, senza fame e malattie e carestie (se non in una limitata parte), con aspettativa di vita aumentata, mortalità infantile ridotta (per questo stiamo aumentando di numero, prima su 6 bambini 4 morivano, ora per fortuna vivono). Capisco che i sogni facilmente diventano incubi, ma è chiaro che dobbiamo pensare a 9/10 miliardi di persone. Eppure, il messaggio non è facile da far passare. Devi per forza usare categorie. Se dici bio, sei nel giusto (anche se poi le odiate multinazionali producono e vendono agrofarmaci bio), se dici biotech sei a favore delle multinazionali (anche se parli di ricerca pubblica), se parli di un prodotto innovativo, che so un concime che viene maggiormente assorbito o di una nuova tecnica per difendere le piante (RNA i) ti rispondono che la soluzione è altra (come se potesse esistere solo una soluzione), se vai nello specifico ti dicono che devi guardare il contesto, se tratti un argomento ti accusano di non trattarne altri: cioè, è un modo difficile, quello agricolo, sembra che ognuno protegga la sua terra, i vecchi confini. Diciamo così, io penso che esistano più strumenti, il problema è testarli prima e poi integrarli. Tu cosa ne pensi, quali sono nella pratica gli strumenti per i famosi e inevitabili 9/10 miliardi di cittadini?
Sono assolutamente d’accordo con te, non esiste un unico modo giusto di fare agricoltura. Come ho scritto in Nove miliardi a tavola, ciascuna coltivazione ha specifici problemi e necessità, così come aree geografiche differenti devono fronteggiare sfide diverse.

Vogliamo fare esempi specifici per specifiche situazioni?
Ad esempio, nei campi dell’Italia del Sud, a causa dei cambiamenti climatici, possono servire nuove varietà vegetali che siano maggiormente resistenti agli stress idrici, mentre al Nord può essere utile puntare sull’ottimizzare i sistemi di irrigazione grazie alla raccolta di dati che indichino il vigore delle piante. In alcune aree possiamo pensare di produrre in modo biologico, in altre di ricorrere a produzioni intensive.

E la questione campo da gioco? Insomma, i nove miliardi?
Per mettere a tavola i nove miliardi di coinquilini con cui conviviamo, per me serve in primo luogo conoscere cosa accade, letteralmente!, in campo. Non serve solo agli addetti del settore, ma a ciascuno di noi perché le nostre scelte influenzano le decisioni politiche ed economiche che regolano il funzionamento delle produzioni alimentari e di questo dobbiamo essere tutti consapevoli: la storia dell’agricoltura è una storia di continue innovazioni. La vera sfida è riuscire a mettere in campo quelle innovazioni che oggi ci servono e che spesso sono già presenti nei laboratori di ricerca. Come ricorda sempre Deborah Piovan: ciò che noi chiamiamo tradizione, i nostri nonni chiamavano innovazione.

Bisognerebbe intendersi anche sulle vecchie e care tradizioni…
Molto spesso vedo citare l’agricoltura di una volta, quella delle nonne e ripenso ovviamente a mia nonna. Un giorno, mentre da bambino mi gustavo una buonissima focaccia con la panna (il sapore che ancora oggi mi riporta alla mia infanzia), chiesi a mia nonna Venerina quale fosse il sapore che lei più di tutti associava alla sua infanzia. La risposta mi lasciò sorpreso: il sapore della mia infanzia è quello della fame. Ed è proprio grazie all’agricoltura moderna, con tutti i suoi limiti e le “cose” da migliorare, se noi oggi possiamo avere la fortuna di ricordare sapori diversi e sperare di garantire a tutti un posto a tavola.

Senti ultima cosa, ma se scomparissero le zanzare? A chi dispiacerebbe?
Effettivamente non sono tra gli insetti più amati, però le zanzare sono parte di catene alimentari (quelle che in biologia chiamiamo catene trofiche), per cui sia le larve che gli adulti sono letteralmente cibo per molti altri animali, tra cui ad esempio pipistrelli, rane, gechi e molti uccelli, come le rondini. Se le eliminiamo, a cascata rischiamo di perdere anche altri animali. Per altro proprio con le zanzare ho realizzato alcuni dei miei lavori scientifici più belli, per cui alle zanzare devo sia pubblicazioni in riviste scientifiche che la soddisfazione di catturarle per poi sezionarle in laboratorio. Un modo decisamente utile per vendicarmi delle loro punture notturne.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.