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  • Lunedì 14 agosto 2023

Gli Stati Uniti vorrebbero imitare i formaggi europei anche in Europa

Vorrebbero vendere anche qui i prodotti che chiamano “feta” o “gorgonzola”, convinti che potrebbero avere un mercato

Forme di Parmigiano Reggiano in uno stabilimento di Noceto, vicino a Parma
Forme di Parmigiano Reggiano in uno stabilimento di Noceto, vicino a Parma (AP Photo/ Antonio Calanni, File)
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L’industria casearia degli Stati Uniti è tornata a protestare contro le norme dell’Unione Europea che prevedono che formaggi come il parmigiano, il gorgonzola o l’asiago possano essere venduti con questi nomi solo se prodotti in specifiche aree geografiche. Da un lato, i produttori di formaggio statunitensi sostengono che le restrizioni sui nomi dei formaggi siano un grosso limite per l’esportazione dei loro prodotti all’estero e comportino mancati guadagni. Dall’altro, le autorità europee ritengono che le norme in vigore tutelino i prodotti di origine europea, senza impedire ai produttori statunitensi di produrre ed esportare i loro.

L’Unione Europea prevede la tutela dei nomi degli alimenti «per i quali esista un legame intrinseco tra le caratteristiche del prodotto e l’origine geografica». La normativa in questo senso protegge «da qualsiasi uso improprio o imitazione» i nomi di circa 3.850 bevande alcoliche, vini, vini aromatizzati, prodotti agricoli e generi alimentari, tra cui 275 tipi di formaggio. Per essere chiamato “feta” e venduto nell’Unione Europea un formaggio deve essere prodotto in Grecia, così come il gorgonzola dev’essere fatto tra Lombardia e Piemonte. Per questo motivo alimenti con caratteristiche diverse, prodotti seguendo standard e tecniche molto differenti e salvo rare eccezioni di qualità inferiore, non possono essere messi in commercio con questi nomi, né nei paesi dell’Unione, né in paesi terzi in cui vigono le medesime regole di tutela dei prodotti europei in virtù di particolari accordi commerciali.

Per fare qualche esempio, l’azienda casearia Klondike Cheese produce nel Wisconsin un formaggio che vende negli Stati Uniti come feta, ma in Europa non potrebbe esportare il proprio prodotto chiamandolo così per via delle regole sui regimi di qualità dell’Unione. Per lo stesso motivo un’altra azienda produttrice di formaggi del Wisconsin, BelGioioso Cheese, ha dovuto cambiare l’etichetta della propria fontina e quella del proprio gorgonzola destinati al Giappone e alla Corea del Sud: il primo è diventato “CrumblyGorg” mentre il secondo “Fontal”, ha raccontato in un recente articolo il Wall Street Journal. Sempre per via degli accordi commerciali che l’Unione Europea ha stretto con altri paesi, BelGioioso Cheese cambierà il nome dell’asiago che vende in Messico, sostituendolo con “Belgiago”.

Negli Stati Uniti la produzione di formaggio è in crescita costante, e rappresenta un settore fondamentale dell’industria agroalimentare. Il principale produttore è proprio il Wisconsin, ed è stato calcolato che nel 2021 il giro d’affari annuo del settore abbia superato i 31 miliardi di dollari a livello nazionale. Per quanto riguarda le esportazioni però gli Stati Uniti sono molto indietro rispetto ai principali paesi europei, in particolare Germania, Paesi Bassi, Italia e Francia.

Sono già diversi anni che le aziende casearie statunitensi provano a entrare nel mercato europeo, ma di recente il Consortium for Common Food Names, un’organizzazione che rappresenta diversi produttori di cibo statunitensi, ha intensificato le pressioni affinché il dipartimento dell’Agricoltura cominci a lavorare più strettamente con il Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti per riuscire a ottenere il diritto di usare i nomi più comuni per gli alimenti che producono.

L’argomento dei produttori americani è che parole come “feta” e “fontina” sono diventate di uso comune da tempo un po’ ovunque, e che formaggi di quel tipo vengono prodotti abitualmente in diverse parti del mondo: secondo loro il nome di un formaggio dovrebbe quindi indicare il suo metodo di produzione, e non la sua provenienza. Se potessero vendere i loro prodotti coi nomi tutelati, confidano che riuscirebbero ad ampliare notevolmente gli affari in Europa: magari non in Italia, in Grecia o nei paesi da cui provengono i prodotti imitati, ma in molti altri.

Un piatto a base di feta

Un piatto a base di feta (AP Photo/ Matthew Mead)

Ovviamente sia le aziende casearie europee sia le autorità dell’Unione difendono da tempo le norme a tutela dei propri prodotti, nomi compresi. «Loro la chiamano feta, ma non è corretto» disse qualche anno fa Manos Kassalias, direttore generale dell’azienda del Peloponneso Kalavryta Cooperative, che produce formaggio da decenni. Secondo Kassalias sia i metodi di produzione che il latte impiegato nelle aziende statunitensi sono «del tutto diversi».

Parlando con il Wall Street Journal, la portavoce della Commissione Europea per il commercio e l’agricoltura Miriam Garcia Ferrer ha ribadito che le indicazioni geografiche dell’Unione «permettono ai consumatori di distinguere prodotti di qualità da altri e tutelano i produttori contro l’uso improprio del nome del loro prodotto». L’Unione Europea nega che il sistema impedisca ai produttori statunitensi di vendere i loro prodotti, e ricorda che limita solo il nome con cui possono metterli in commercio nei paesi dell’Unione e in quelli in cui sono in vigore specifici accordi.

– Leggi anche: Perché i cinesi non mangiano il formaggio

Le dispute su come chiamare certi alimenti non sono una cosa nuova, ed è capitato anche di recente che il formaggio finisse al centro di una contesa tra Stati Uniti e Unione Europea. A marzo un tribunale statunitense aveva deciso che il termine “groviera” poteva essere utilizzato da tutti i produttori di formaggi, e non solo da quelli di Gruyères, in Svizzera, e della regione della Gruyère francese, che sia in base alla Convenzione internazionale di Stresa del 1951 che alle decisioni dell’Unione Europea sono le sole zone proprietarie del nome.

Per ragioni di protezione del marchio, i consorzi produttori di groviera erano impegnati da oltre un anno in una causa legale per ottenere l’uso esclusivo del termine anche sul mercato americano, dove invece vengono venduti come groviera tipi di formaggi che con il groviera non hanno niente a che vedere. La Food and Drug Administration, l’agenzia che tra le altre cose si occupa degli alimenti venduti negli Stati Uniti, aveva stabilito che per rientrare nella definizione fosse sufficiente che il formaggio avesse piccoli buchi e che fosse invecchiato per almeno 90 giorni. I consorzi del groviera europei però avevano fatto causa, perdendo in primo grado: la Corte d’appello statunitense aveva poi stabilito che «un certo tipo di formaggio è stato definito e venduto come groviera per decenni negli Stati Uniti, indipendentemente dal luogo di produzione, tanto da rendere il termine generico». Dopo la decisione, gli avvocati dei produttori franco-svizzeri avevano annunciato che avrebbero continuato a cercare «vie legali per proteggere il marchio anche sul mercato statunitense».

Nell’ottobre del 2019 l’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump invece aveva annunciato l’imposizione di nuovi dazi del 25 per cento su una serie di prodotti provenienti dall’Unione Europea, tra cui il vino proveniente dalla Francia, l’olio d’oliva spagnolo e una serie di formaggi come il pecorino, il Parmigiano Reggiano, il gouda e il gorgonzola. La decisione rientrava in una più ampia disputa legale legata ai sussidi impropri di cui avevano beneficiato l’azienda costruttrice di aeroplani statunitense Boeing e quella europea Airbus, di cui Unione Europea e Stati Uniti si accusavano a vicenda. La questione dei dazi aveva preoccupato molto le associazioni di produttori caseari europei ma si era risolta nel giugno del 2021, con l’accordo per la sospensione dei dazi tra le due parti nell’ambito di una sorta di “tregua” sulla contesa su Airbus e Boeing.

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