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  • Martedì 8 agosto 2023

In Papua Nuova Guinea c’è un gran traffico di leader mondiali

Quelli di Stati Uniti, Francia e India, tra gli altri: c'entrano i tentativi di ridurre l'influenza della Cina nel Pacifico

Una foto postata su Twitter dal primo ministro indiano Narendra Modi, con Modi e il presidente papuano James Marape al centro
Una foto postata su Twitter dal primo ministro indiano Narendra Modi, con Modi e il presidente papuano James Marape al centro
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Negli ultimi mesi alcuni leader mondiali hanno visitato la Papua Nuova Guinea, paese che occupa la parte orientale dell’isola di Nuova Guinea e alcune isole a nord dell’Australia. A fine luglio il presidente francese Emmanuel Macron aveva partecipato a un incontro con il presidente papuano James Marape a Port Moresby, la capitale del paese. A maggio avevano visitato Port Moresby anche il primo ministro indiano Narendra Modi e il segretario di Stato degli Stati Uniti Antony Blinken: avrebbe dovuto essere presente il presidente Joe Biden ma era stato costretto a tornare negli Stati Uniti a causa della crisi del tetto del debito. A luglio, oltre a Macron, è stato in Papua Nuova Guinea il presidente indonesiano Joko Widodo.

L’Economist ha notato come questa crescente attenzione internazionale nei confronti della Papua Nuova Guinea sia inedita, e che si inserisce all’interno dello scontro sempre più intenso tra la Cina e gli Stati Uniti: entrambi i paesi negli ultimi tempi hanno fatto molte promesse al governo locale, che però sta reagendo in maniera contraddittoria. La Papua Nuova Guinea ha storicamente una posizione neutrale che però è messa in crisi da questo grosso interesse internazionale. «È come guardare due elefanti che si contendono un fazzoletto di terra, e quel fazzoletto siamo noi», ha detto all’Economist un’ex diplomatica papuana.

La Papua Nuova Guinea, un paese da 10 milioni di abitanti, è da tempo oggetto delle politiche di espansionismo della Cina, legate soprattutto agli sviluppi della “Belt and Road Initiative”, l’ampio progetto che prevede grandi investimenti su infrastrutture in tutto il mondo, conosciuto anche con il nome di “Nuova Via della Seta”.

Quello che sembra stare succedendo alla Papua Nuova Guinea potrebbe essere simile a quello che è già successo alle Isole Salomone, che da qualche mese hanno iniziato a rafforzare i propri legami con la Cina. L’anno scorso la Cina aveva firmato un accordo di sicurezza con le Isole Salomone per inviare polizia, forze paramilitari e soldati nelle Isole e farvi attraccare navi militari per il rifornimento e i trasferimenti di equipaggio.

Inoltre di recente due inchieste giornalistiche del Guardian e dell’organizzazione di giornalismo investigativo Organized Crime and Corruption Reporting Project hanno rivelato come la Cina abbia finanziato con grosse somme di denaro il Solomon Star, uno dei principali quotidiani delle Isole Salomone, in cambio dell’impegno a parlare positivamente delle proprie attività nel paese.

L’influenza crescente della Cina nel Pacifico preoccupa soprattutto quattro paesi: India, Stati Uniti, Australia e Giappone, ossia gli stati membri del Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad), un’alleanza informale per la cooperazione regionale nata per contenere l’espansionismo cinese.

Per questi paesi rafforzare la cooperazione con la Papua Nuova Guinea è importante in primo luogo per la sua particolare posizione geografica: il paese si trova a nord dell’Australia e, di conseguenza, è un punto di accesso all’Asia e ai paesi del Pacifico. La Papua Nuova Guinea ha un’importanza notevole anche dal punto di vista delle risorse naturali: oro e minerali essenziali per la transizione ecologica, come il nickel (utilizzato nelle batterie) e il rame. Inoltre negli ultimi anni è diventata un importante paese esportatore di gas naturale liquefatto grazie alla collaborazione con aziende francesi e statunitensi.

Proprio nell’ottica di rafforzare la cooperazione con la Papua Nuova Guinea a maggio il segretario di stato statunitense Antony Blinken aveva visitato Port Moresby per partecipare al Forum per la cooperazione dell’Indo-Pacifico. In quell’occasione Blinken e Win Bakri Daki, il ministro della Difesa della Papua Nuova Guinea, avevano firmato un accordo di difesa e cooperazione marittima, che diversi analisti avevano considerato come una risposta all’intesa stipulata tra Cina e Isole Salomone lo scorso anno.

L’accordo (che dovrà essere approvato dal parlamento locale) aggiorna i contenuti di un precedente memorandum d’intesa relativo alla cooperazione nel settore della difesa: tra le altre cose, prevede lo stanziamento di 45 milioni di dollari per migliorare la cooperazione tra i due paesi in materia di sicurezza e aiutare la Papua Nuova Guinea ad affrontare questioni cruciali come gli effetti del cambiamento climatico, la criminalità transnazionale e la salute pubblica. L’Economist ha scritto che, siglando questo patto, gli Stati Uniti sperano di ottenere un accesso preferenziale in Papua Nuova Guinea e aumentare la presenza delle proprie forze militari nel paese.

Dopo la firma dell’accordo una parte di società civile papuana, in particolare alcuni sindacati studenteschi, aveva criticato l’atteggiamento di James Marape, il primo ministro della Papua Nuova Guinea, considerando l’apertura agli Stati Uniti come un potenziale pericolo per la sovranità del paese ed esprimendo preoccupazione per possibili ritorsioni da parte della Cina. Marape aveva tranquillizzato l’opinione pubblica dicendo che il paese aveva bisogno di rafforzare le proprie difese, e che dal suo punto di vista non esisteva opzione migliore che quella di rivolgersi «alla più grande democrazia e al più grande esercito del mondo per stringere questa alleanza».

Le preoccupazioni della società papuana sono dovute anche all’atteggiamento che la Papua Nuova Guinea è solita tenere in termini di politica estera, considerato tendenzialmente neutrale: sia Marape, l’attuale primo ministro, che Peter O’Neill, il suo predecessore, in passato avevano fatto risaltare questa caratteristica nei loro discorsi pubblici, spiegando che la Papua Nuova Guinea era disposta ad accettare accordi di collaborazione con chiunque e descrivendola come «amica di tutti e nemica di nessuno».

Il timore di una parte della società civile papuana è che rafforzare la cooperazione con gli Stati Uniti possa finire per infastidire un partner commerciale importante come la Cina, un paese che sta facendo importanti investimenti infrastrutturali nel paese, legati alla “Nuova Via della Seta”.

Nel novembre del 2017 l’ex presidente papuano Peter O’Neill aveva firmato tre memorandum d’intesa con la Cina nel quadro della “Belt and Road Initiative”, riguardanti la costruzione di infrastrutture e lo sviluppo di un grande parco industriale agricolo. Secondo Peter Connolly, professore dell’Australian National University che si occupa di monitorare gli investimenti cinesi nel Pacifico, nel 2019 le aziende statali cinesi attive in Papua Nuova Guinea sono aumentate significativamente, passando da 21 a 39. In tanti, però, si interrogano sui reali benefici che la Papua Nuova Guinea sta ottenendo da questi investimenti.

In particolare la popolazione locale si lamenta di non venire quasi mai coinvolta nei progetti e del fatto che i migranti cinesi che lavorano in Papua Nuova Guinea spediscano tutti i propri guadagni in Cina, senza reinvestirli nel paese. Questa visione è condivisa anche dall’ex parlamentare papuano Gabia Gagarimabu, che ha detto di recente: «Perché siamo esclusi? Quello che possono fare i cinesi lo può fare anche il nostro popolo».

Lo scetticismo dei papuani è aumentato a partire dal 2020, quando i rapporti tra Cina e Papua Nuova Guinea rischiarono di incrinarsi a causa del rifiuto, da parte di Marape, di rinnovare il contratto di locazione per lo sfruttamento della miniera d’oro di Porgera (che si trova nella provincia di Enga, a nord-ovest di Port Moresby), detenuto congiuntamente dalla società cinese Zijin e dalla società canadese Barrick Gold. In quell’occasione il presidente di Zijin, Jinghe Chen, inviò una lettera a Marape, spiegando tra le altre cose che la sua decisione avrebbe potuto compromettere le relazioni tra Cina e Papua Nuova Guinea. Dopo la pubblicazione della lettera, Marape ottenne l’appoggio di una parte della popolazione per via del suo atteggiamento fermo e deciso.

L’esperto di relazioni internazionali ed ex Alto Commissario australiano in Papua Nuova Guinea Ian Kemish ha scritto che questa disputa ha contribuito ad aumentare il sentimento anticinese in Papua Nuova Guinea. Sempre Kemish ha detto che, nella maggior parte dei casi, la Cina tende a parlare del proprio coinvolgimento economico in Papua Nuova Guinea in maniera «molto esagerata».

Per tranquillizzare l’opinione pubblica, dopo la sottoscrizione dell’accordo con gli Stati Uniti Marape aveva detto che la Cina «non ha alcun problema» con il patto. Il Global Times, tabloid in lingua inglese controllato dal governo cinese e noto per le sue posizioni particolarmente nazionalistiche, ha recentemente espresso una posizione diversa, citando il parere di alcuni esperti cinesi secondo cui gli Stati Uniti sarebbero colpevoli di «attività mafiose nel Pacifico meridionale, dove formano bande e cerchie ristrette».

Secondo alcuni analisti, in realtà Marape non si sarebbe discostato troppo dal principio della Papua Nuova Guinea come “amica di tutti, nemica di nessuno”. Ad esempio, in un’analisi pubblicata su IPS Journal, la giornalista Barbara Barkhausen ha spiegato che, sebbene la Papua Nuova Guinea consideri la Cina un’alleata importante dal punto di vista commerciale, quando si tratta di sicurezza «tende a simpatizzare» con gli Stati Uniti e soprattutto con l’Australia, due paesi membri del Quad. Il legame con l’Australia è dovuto a ragioni storiche: controllava la colonia britannica di Papua, la parte sud-orientale dell’isola, e alla fine della Prima guerra mondiale passò sotto il mandato australiano anche l’ex territorio coloniale della Nuova Guinea tedesca. Anche se la Papua Nuova Guinea ha dichiarato l’indipendenza nel 1975, i suoi legami con l’Australia sono ancora molto solidi. Ad esempio Barkhausen ha ricordato che, nel solo anno fiscale in corso, l’Australia ha già concesso alla Papua Nuova Guinea finanziamenti per 600 milioni di dollari australiani (circa 365 milioni di euro).

Per questi motivi, secondo Barkhausen, la Papua Nuova Guinea sarebbe ancora “amica di tutti e nemica di nessuno”: continuando a coltivare legami commerciali con la Cina e legami di difesa con gli Stati Uniti e l’Australia, è in grado di sfruttare a proprio favore la concorrenza fra questi paesi per il controllo del Pacifico.

A maggio aveva visitato Port Moresby anche il premier indiano Narendra Modi. In quell’occasione, Modi aveva rassicurato gli stati insulari del Pacifico sull’appoggio dell’India per la risoluzione di vari problemi, legati in particolare al cambiamento climatico e alla fornitura di materie prime, e aveva confermato l’impegno del suo governo per un’area indo-pacifica «libera, aperta e inclusiva». Secondo Michael Kugelman di Foreign Policy, Modi sta cercando di rinsaldare i suoi legami con la Papua Nuova Guinea per realizzare tre obiettivi principali: rendere l’India un punto di riferimento per l’area, rafforzare la sua credibilità internazionale e contrastare l’espansionismo della Cina nella regione.