I dieci anni che hanno cambiato la Mostra del cinema di Venezia

La storia di come gli ultimi due direttori hanno ingigantito il festival staccando i concorrenti e avvicinandosi a quello di Cannes

Zendaya e Timothée Chalamet alla prima di “Dune” alla mostra del cinema di Venezia del 2021 (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)
Zendaya e Timothée Chalamet alla prima di “Dune” alla mostra del cinema di Venezia del 2021 (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)
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Le dimensioni a cui è giunta la Mostra del cinema di Venezia dopo circa dieci anni di crescita interrotta solo dalla pandemia hanno portato i biglietti venduti per i film del festival dai 36.000 circa del 2013 ai 60.477 del 2022, e gli accrediti stampa, una quota molto importante della partecipazione oltre che un buon metro della popolarità e della rilevanza del festival, dai 7.300 del 2014 ai 12.000 del 2022. In dieci anni la frequentazione della Mostra è quasi raddoppiata, seguendo la crescita in importanza e richiamo dei film che vengono presentati e quindi della presenza delle grandi star mondiali. Ad oggi la Mostra del cinema di Venezia ha ridotto sensibilmente la distanza di rilevanza che la separava dal festival di Cannes, il quale anche grazie al suo mercato del film rimane un momento di convergenza di tutto il cinema globale unico per grandezza e importanza.

Un primo cambio di approccio per la Mostra del cinema di Venezia si era notato già a partire dal 2004, quando fu nominato direttore Marco Müller. Durante i suoi due mandati, in totale 8 anni, la Mostra – che si chiama ufficialmente Mostra internazionale d’arte cinematografica, e non “festival” – cominciò ad avere ambizioni maggiori. Nonostante sia il festival di cinema più vecchio del mondo (la prima edizione è del 1932), la Mostra del cinema di Venezia ha sofferto molto gli anni dopo il 1968, quelli delle contestazioni. Al pari di altri festival anche al Lido ci furono proteste da parte degli autori emergenti e di chi in quegli anni chiedeva ai festival un impegno molto più serio nel promuovere istanze di sinistra e nel programmare film politicamente schierati. Dopo alcune edizioni interrotte o condizionate dalle rimostranze la Mostra non riuscì a trovare un nuovo assetto, né a soddisfare almeno in parte le richieste creando nuove sezioni o accogliendo nuove forme cinematografiche.

Tutti gli anni ’70 furono quindi per la Mostra di Venezia un periodo di crisi: non fu più competitiva (non si assegnavano cioè premi e quindi non c’erano film in concorso, solo film presentati) e in alcuni anni non fu proprio organizzata, come nel 1976 e 1977. Una vera ripartenza ci fu solo dal 1979, quando il mondo dei festival era già molto cambiato ed era diventato a tutti gli effetti Cannes il centro degli affari e del pensiero critico. Con l’arrivo di Marco Müller la Mostra di Venezia ha rinnovato le proprie ambizioni di rilevanza, arrivando a proporre solo film in anteprima mondiale a partire dal 2011, suo ultimo anno di direzione di Müller (oggi è la norma alla Mostra).

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È stato però con il direttore successivo, Alberto Barbera (che la Mostra già l’aveva diretta brevemente tra il 1999 e il 2002), che il cambiamento è diventato visibile e rapido. A partire dalla sua seconda edizione, quella del 2013, il cinema americano – pur non essendo mai mancato – ha cominciato a guadagnare centralità, anche grazie ad alcune scelte intelligenti e al tempo stesso fortunate. Per circa sei anni di seguito è stata la Mostra del cinema di Venezia il luogo in cui i film che in un modo o nell’altro avrebbero poi dominato la successiva serata degli Oscar potevano essere visti per la prima volta. Il passaggio di Gravity (2013), Birdman (2014), The Danish Girl e Il caso Spotlight (2015), La La Land (2016), Tre manifesti a Ebbing, Missouri e La forma dell’acqua (2017), Roma e La favorita (2018) e il loro successivo successo contribuì decisamente ad aumentare l’importanza della Mostra. Nel 2017 e nel 2020 poi l’Oscar per il miglior film lo vinse lo stesso film che a Venezia aveva vinto il Leone d’Oro, il premio omologo, cioè La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro e poi Nomadland di Chloé Zhao.

Non è possibile sapere in anticipo chi vincerà l’Oscar, né è possibile intuire i gusti dei giurati che li votano (sono diverse migliaia), ha spiegato spesso il direttore Alberto Barbera a chi gli chiedeva conto di questa coincidenza. Stando a quanto spiegato negli anni dalla Mostra stessa, quello che è successo è stato un misto di fortuna (almeno inizialmente), sensibilità cinematografica e capacità di fare bene una delle cose che è tra le funzioni dei festival di cinema: promuovere i propri film. La collocazione del festival a inizio settembre è inoltre un fattore importante, perché è l’inizio della stagione dei premi. Prima di Venezia infatti il festival di Toronto (le cui date sono più o meno coincidenti) era considerato come la piattaforma di partenza per le campagne Oscar. Il festival di Cannes è invece a maggio, qualche mese dopo la serata di premiazione degli Oscar (che solitamente si tiene tra febbraio e marzo).

Monica Vitti alla Mostra del cinema di Venezia del 1962 (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)

Già dopo i primi anni in cui la corsa all’Oscar veniva lanciata alla Mostra del cinema, i film dei grandi studios hanno iniziato a dimostrare una maggiore disponibilità a essere presentati a Venezia. Oltre a quelli che poi hanno effettivamente vinto il premio più importante o il numero più alto di Oscar della loro annata, moltissimi altri film che hanno tentato la medesima strada senza lo stesso successo sono stati comunque presentati a Venezia: A Star Is Born con Lady Gaga e Bradley Cooper, Jackie con Natalie Portman, Blonde con Ana de Armas sono alcuni esempi. In dieci anni si è così creato un rapporto molto solido e fecondo con gli studios e con le piattaforme di streaming più importanti, avvantaggiato dal fatto che Netflix non può gareggiare a Cannes, perché il festival pretende una distribuzione canonica in sala per i film in concorso, cosa che Netflix non intende garantire. Questo ha portato un grande aumento di investimenti intorno alla Mostra.

Gli studios più importanti quindi portano i loro film a Venezia per iniziare lì la promozione, con le tradizionali e popolari foto sul motoscafo che arriva al Lido, e per farlo portano tutte le star che hanno a disposizione. L’afflusso di un grande numero di attori e attrici da Hollywood ha come conseguenza la presenza di un grande numero di sponsor che desiderano tenere i loro eventi, presenziare o anche solo comparire al festival di Venezia perché hanno la garanzia che quelle star catalizzeranno l’attenzione sull’evento. Della presenza di sponsor e di attenzione a sua volta beneficiano tutti gli altri produttori e distributori medi e piccoli, dagli indipendenti americani agli europei fino per esempio ai filippini (che hanno vinto il Leone d’Oro con La donna che se ne è andata nel 2016), che quindi vogliono essere a Venezia perché sanno che lì ci sarà più stampa e più attenzione e prestigio anche per loro.

Ad ampliare il divario con gli altri festival più importanti, come la Berlinale, il Sundance e Toronto, e a ridurre quello con Cannes, ha poi contribuito il fatto che nelle annate più difficili – cioè quelle della pandemia, in cui la frequentazione delle sale anche nei festival era soggetta al distanziamento sociale – la Mostra ha goduto del suo posizionamento vantaggioso. Nei primi due anni di pandemia molti festival non si sono tenuti o lo hanno fatto solo online o ancora in modalità quasi irriconoscibili (il festival di Cannes saltò l’edizione 2020 e nel 2021 si spostò dal solito maggio a luglio, con un netto calo di affluenza).

Venezia invece arriva dopo l’estate, momento in cui i contagi fisiologicamente erano soliti calare, e così aveva avuto la possibilità di svolgersi regolarmente dovendo badare solo al distanziamento e limitando volontariamente gli accrediti per avere meno persone in giro e nelle sale. Nel 2020 fu il primo grande festival a svolgersi fisicamente e quindi a inventare e impostare protocolli e modalità di svolgimento durante la pandemia, che poi tutti gli altri hanno inglobato o su cui hanno costruito le proprie edizioni successive.

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A fronte di questo aumento di dimensioni e importanza però la Mostra non è ancora riuscita a diventare un luogo di scoperta importante tanto quanto lo è diventato per la promozione. Non sono mancati negli anni film indipendenti, di autori emergenti, e piccoli casi di successo avvenuti grazie alla Mostra, ma nulla che sia a livello dei cambiamenti avvenuti per quanto riguarda i film più grandi. Quella della scoperta e della valorizzazione del nuovo è infatti una parte cruciale per qualsiasi festival, che generalmente ambisce a essere l’occasione in cui un venditore internazionale o un distributore nazionale può scoprire per primo film piccoli che avranno successo, stringere legami che poi si riveleranno fruttuosi e quindi fare buoni affari. In questi dieci anni la Mostra di Venezia è stata vinta spesso da film piccoli, sconosciuti al grande pubblico, o da presunte promesse del cinema. In quasi nessun caso queste promesse sono state però mantenute. E anche i film che pur senza vincere si sono distinti facendo parlare di sé raramente sono stati delle scoperte, più spesso ottimi film di autori già noti.

Gli ultimi dieci anni hanno segnato un profondo cambiamento anche nel rapporto tra Venezia e il cinema italiano: la Mostra si è aperta anche a film che mescolano il cinema d’autore con quello commerciale, eppure non ci sono ancora state nemmeno in questo caso novità, debutti e scoperte che poi abbiano ottenuto il successo internazionale, come successo per esempio con La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo alla Berlinale o con Alice Rohrwacher a Cannes. Tra gli altri, Venezia rifiutò Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti nel 2015, film considerato tra i più importanti e di svolta per il cinema italiano. Mainetti fu accolto nel 2022 in concorso con il suo film successivo, Freaks Out.

La crescita ha consentito la nascita e la sperimentazione di due progetti nuovi. Dal 2016 si tiene contemporaneamente al festival il Venice Production Bridge, una sezione non aperta al pubblico ma di “mercato”, in cui un numero molto limitato di progetti (film, serie o webserie) che abbiano raccolto almeno l’80% del budget di cui hanno bisogno ma in cerca di ulteriori finanziatori per completarlo viene selezionato secondo criteri di eccezionalità, merito e interesse, per essere mostrato a potenziali investitori. Questi spesso non includono solo persone o società operanti nel mondo del cinema, ma anche soggetti interessati a investire piccole quote ed essere solo produttori minoritari, come forma di speculazione. Dal 2017 poi c’è una nuova sezione competitiva, Venice VR, in cui sono presentate in concorso e fuori concorso opere in realtà virtuale di tipologie diverse e da tutto il mondo (sempre con il criterio della première mondiale). È uno dei massimi eventi del settore e, per ragioni di spazi, si tiene all’isola del Lazzaretto Vecchio, molto vicina alla zona del festival.

Quello degli spazi comincia infatti a essere un problema. Se fino ad oggi le aree, una volta più ampie del necessario e in certe edizioni poco frequentate, sono tornate gradualmente piene, le previsioni di crescita e alcuni problemi nel prenotare i posti in sala per i film più importanti potrebbero indurre il festival a immaginare i lavori di ampliamento a cui fino ad ora non aveva dovuto pensare. Gli ultimi di rilievo furono nel 2013, un ampliamento e ammodernamento della sala più grande, la Darsena, indispensabile proprio ad accogliere e proiettare al meglio i film americani più importanti. Oltre a questo l’anno scorso una revisione dell’uso degli spazi esistenti ha creato la possibilità di inaugurare nuove sale piccole. C’è però un progetto molto più grande che prevede di utilizzare tutto un piano del grande palazzo del Casinò, insieme al palazzo del Cinema la sede principale del festival, che fino ad oggi non era aperto a pubblico e accreditati durante la Mostra.

L’edizione 2023 della Mostra del cinema di Venezia si terrà dal 30 agosto al 9 settembre. Tra i film annunciati ci sono molti titoli americani anche di grandi studi (Disney, Paramount e Netflix) e il direttore Barbera ha spiegato che l’impatto dello sciopero di Hollywood sulla selezione è stato minimo e ravvisabile nel solo spostamento ad aprile del film Challengers di Luca Guadagnino, che quindi non potrà aprire la Mostra come previsto. Non è possibile sapere se quando il festival inizierà sarà ancora in corso lo sciopero degli sceneggiatori e soprattutto degli attori americani, che impedisce ai secondi di promuovere i film a cui hanno partecipato, e quindi di essere ospitati dai festival. Proprio la forte identificazione della Mostra con i grandi film di Hollywood (quelli cioè degli studios, la parte contro la quale gli attori scioperano) che tanto ha favorito la crescita è anche ciò che fa sì che l’eventuale mancanza di star sia particolarmente grave. Gli altri festival, che non si svolgono in autunno, probabilmente invece non ne risentiranno, visto che difficilmente lo sciopero si prolungherà fino all’inverno.

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