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  • Venerdì 7 luglio 2023

«Esiste una disabilità “bella” e una disabilità “brutta”»

Un capitolo di "Come d'aria" di Ada d'Adamo, l'autobiografia che ha vinto il Premio Strega 2023

Da sinistra l'editrice di Elliot Loretta Santini, il marito di Ada d'Adamo Alfredo Favi, la scrittrice Elena Stancanelli e Andrea D'Angelo, vicepresidente di Strega Alberti, poco dopo la mezzanotte del 7 luglio 2023 (ANSA/ MASSIMO PERCOSSI)
Da sinistra l'editrice di Elliot Loretta Santini, il marito di Ada d'Adamo Alfredo Favi, la scrittrice Elena Stancanelli e Andrea D'Angelo, vicepresidente di Strega Alberti, poco dopo la mezzanotte del 7 luglio 2023 (ANSA/ MASSIMO PERCOSSI)
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Come d’aria, il libro di Ada d’Adamo che ha vinto la 77esima edizione del Premio Strega, il più importante riconoscimento letterario italiano, è un’autobiografia di 132 pagine in cui l’autrice racconta il proprio rapporto con sua figlia Daria, una ragazza con una disabilità del tutto invalidante. Il libro parla anche della malattia di d’Adamo, che era una critica di teatro e danza ed è morta ad aprile a 55 anni, pochi giorni dopo la candidatura allo Strega.

Secondo lo scrittore Francesco Piccolo, che era amico di d’Adamo, Come d’aria è un libro che sebbene possa far soffrire «non ha l’intenzione di farti soffrire» e non «vuole provocarti qualcosa, fosse pure commuoverti». In un articolo pubblicato qualche giorno fa su Repubblica, Piccolo ha scritto che per diverso tempo non aveva voluto leggere il libro di d’Adamo temendo che chi lo aveva fatto e ne parlava bene confondesse «un libro bello e un libro doloroso», ma alla fine si è ricreduto: «Affronta senza risparmiare nulla anche le cose più indicibili. (…) La capacità di saper guardare, e raccontare, e tenere in primo piano, anche ciò che potrebbe sembrare di secondo piano (a chi non sa cosa sia la letteratura); insomma mi sono trovato dentro pagine che hanno questa combinazione di dignità e durezza, che affrontano la vita come si fa e si deve fare in letteratura, in modo frontale, senza risparmio». Ne pubblichiamo un estratto.

***

In casa nostra non circolavano né musica classica né libri. Se si eccettuano i mitici “Quindici” (il mio preferito era quello delle fiabe, con certi disegni che mi catturavano e mi terrorizzavano al contempo) e la «Selezione dal Reader’s Digest».

La televisione, quella c’era… e nel 1975 la Rai stava cominciando le prove tecniche di trasmissione della tv a colori.

Così, nei lunghi pomeriggi d’inverno, dopo i compiti la accendevo e, invece di guardare i programmi, mi mettevo a improvvisare mini balletti sulle note di Albinoni, Rossini, Chopin. Sullo schermo scorrevano immagini di fiori variopinti che sbocciavano, ma a me importava solo della musica: adagi, notturni, Gazze ladre… Peccato solo per quel «Prove tecniche di trasmissione» che una voce femminile fuori campo ripeteva a intervalli regolari, interrompendo gli slanci delle mie evoluzioni coreutiche.

Poi, un giorno, ricevetti in regalo da una zia un trentatré giri di musica classica. Era il primo che faceva ingresso in casa nostra: finalmente avrei avuto un disco tutto mio e, soprattutto, una colonna sonora degna delle mie improvvisazioni. Lo misi sul piatto e aspettai trepidante che l’Ouverture finisse per lanciarmi nella danza, ma… mi avevano regalato La sagra della primavera di Igor Stravinskij. Per me, che nulla sapevo di musica, fu una delusione bruciante. Niente giravolte e piroette al tempo di 3/4, niente passettini sulle punte: quella musica era semplicemente indanzabile. Allora non sapevo ancora perché, provavo solo una frustrazione fisica che non riuscivo a capire razionalmente. Io volevo una colonna sonora sulla quale volare e invece sul piatto girava il massacro di Stravinskij e Nizinskij contro la grazia. Così, con la coda tra le gambe, me ne tornai alle “prove tecniche di trasmissione”, nel grembo accogliente della tv, nel linguaggio rassicurante dei pochi passi accademici che cominciavo a padroneggiare.

Molti anni dopo avrei incontrato di nuovo La sagra, che tanto ho amato e studiato con passione. Un rito di sacrificio, di morte e rinascita, coreografato da Vaclav Nizinskij nel 1913, di cui ignoravo la portata rivoluzionaria. Ma il mio corpo di ballerina classica in erba ne aveva colto istintivamente l’essenza, sebbene solo per via negativa. Centinaia di coreografi hanno tentato, con alterne fortune, di domare quella massa sonora con il corpo. Alcuni, grandissimi, ci sono riusciti. Qualcuno ha dichiarato in partenza l’impossibilità dell’impresa, sottraendosi al rischio di farsi divorare dalla musica di Stravinskij.

Ho passato la vita prima a danzare, e poi a guardare gli altri danzare. Desideravo la bellezza. Per anni ho ricercato la grazia del gesto, la precisione del dettaglio, il gioco delle proporzioni che si armonizzano nell’insieme. Un lavoro paziente a cui il ballerino sottopone il proprio corpo in ogni istante, una ricerca quotidiana che non si placa mai.

La tua disabilità, da questo punto di vista, mi appariva come un’autentica beffa. Proprio io, abituata a tenere sotto controllo la posizione di un mignolo, mi ritrovavo alle prese con un corpo completamente fuori controllo, con scatti epilettici, una schiena e una testa incapaci di stare dritte. Tetraparesi spastico-distonica, clonie, alternanza di ipertono e ipotono, nistagmo, scialorrea.. altro che mignolo! Fin dal principio il tuo corpo insorto si è imposto con una forza che contravveniva a qualsiasi regola. Con orrore ricordo le parole profetiche della caposala della Terapia Intensiva Neonatale, che al momento delle dimissioni dall’ospedale mi suggerì di ricorrere al Valium per calmarti – scoprii poi dalla cartella clinica che nei tuoi primi dieci giorni di vita lei e le sue colleghe ne avevano fatto largo uso – e di mostrarmi severa perché tu mi avresti fatto passare i guai. Disse proprio così: «Questa le farà passare i guai».

Tornata a casa, non avevo dovuto aspettare molto per vedere avverarsi la profezia dell’infermiera. Ben presto avevi cominciato a piangere. Un pianto ininterrotto, inconsolabile, che non riuscivo a decifrare. Era impossibile lasciarti anche solo pochi minuti da sola nella culla. Metterti nella carrozzina per uscire significava sfidare la sorte e gli sguardi di riprovazione dei passanti che, allarmati dalle tue urla, mi additavano severi costringendomi a battere in ritirata verso casa. «Avrà fame!». «Deve dormire!». «Bisogna cambiarla!». Sento ancora l’eco di quelle voci. Sento ancora addosso lo sguardo accusatore di una donna nella farmacia sotto i portici. Ti avevo messa nel marsupio sperando che il nostro contatto fisico ti aiutasse a stare tranquilla, ma non era bastato. Eri scoppiata a piangere e lei aveva scosso la testa: «Ah, queste madri…».

Un’amica mi consigliò di chiedere il parere di un’ostetrica. Era una signora di una certa età, dolce, materna, ma capii subito dal suo spaesamento che il tuo pianto anomalo eccedeva la portata della sua pur solida esperienza. Si prodigò, tuttavia, per spiegarmi come contenerti, avvolgendoti stretta come in un bozzolo in modo che ti sentissi più protetta. Tuttora, quando ti contorci nei tuoi spasmi, cerco di adattare quella strategia di contenimento alle tue dimensioni non più da neonata. Ormai è impossibile racchiuderti in una specie di guscio, ma creare con te dei punti di contatto – fronte contro guancia, mani contro pancia, polso contro collo – riduce in parte l’esplosione scomposta degli arti, l’inarcarsi della schiena, la torsione del busto.

Desideravo la bellezza, l’ho detto. E tu, a dispetto degli occhi molto ravvicinati e delle sopracciglia unite, nonostante lo strabismo e la microcefalia, sei sempre stata una bella bambina. Si può dire che la bellezza sia stata insieme la tua condanna e la tua salvezza. Forse se avessi avuto qualcuna delle orrende malformazioni del volto assai comuni nell’oloprosencefalia, l’ecografia morfologica l’avrebbe rilevata e tu non saresti mai nata. Insomma, si potrebbe quasi dire che sei venuta al mondo in virtù della tua bellezza: esisti perché sei bella. Una volta nata, poi, il tuo aspetto grazioso ti ha tenuto al riparo da quella sgradevolezza che molto spesso si associa alle persone disabili, suscitando in chi le guarda un senso di disagio, quando non di autentico fastidio. È dura da ammettere, ma seguendoti nella tua giovane vita, ho capito che esiste una disabilità “bella” e una disabilità “brutta” e che anche in questo “mondo a parte” le persone – dagli sconosciuti, ai terapisti, ai medici – subiscono il fascino del bello, proprio come avviene nel “mondo normale”.

All’inizio questo mi infastidiva, mi domandavo se fosse giusto che gli altri si avvicinassero a te solo perché eri bella. Ma poi in quel “solo” ho trovato il senso più nobile e profondo della parola bellezza. Ho pensato che ciascuno di noi riceve almeno un dono dalla vita e che, nella sfiga generale, tanto vale approfittarne.

Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te.

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