• Mondo
  • Venerdì 9 giugno 2023

Le donne con disabilità sterilizzate a forza

È una pratica tuttora diffusa e legale anche in molti paesi europei, e che spesso avviene senza il consenso della persona coinvolta

(Raymond Kleboe/Hulton Archive/Getty Images)
(Raymond Kleboe/Hulton Archive/Getty Images)

La sterilizzazione forzata delle persone con disabilità è una pratica tuttora diffusa nel mondo e in Europa, anche se è esplicitamente vietata da alcuni trattati internazionali e dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne. È una pratica che ha una declinazione di genere, riguarda cioè quasi esclusivamente donne, e che quasi sempre avviene senza il consenso della persona coinvolta. I paesi europei che la consentono sono almeno quattordici. E in quelli che la considerano un reato, il divieto prevede delle eccezioni.

Il quotidiano spagnolo El País ha da poco pubblicato un reportage in cui sono raccontate le storie di alcune donne con disabilità che sono state sottoposte dalla famiglia a sterilizzazione forzata, senza cioè il loro consenso e senza che ne fossero a conoscenza. Nell’articolo una di loro è chiamata con lo pseudonimo Carmen: ha una disabilità intellettiva e ora ha 31 anni. Quando ne aveva 20 la madre l’ha accompagnata con un pretesto in un ospedale di Siviglia e solo quando Carmen era sul lettino della sala operatoria il medico le ha spiegato l’intervento che avrebbe subìto: la legatura delle tube. «Mi hanno detto: firma qui, e vedevo già sfocato dall’anestesia. Non sapevo cosa stavo firmando», ha detto a El País. Quando Carmen è stata sterilizzata era il 2013 e in Spagna la pratica era consentita. È stata vietata nel dicembre del 2020.

Lo scorso settembre l’European Disability Forum, la più grande organizzazione che rappresenta le persone con disabilità in Europa, ha pubblicato un rapporto sulla sterilizzazione forzata. Si dice che sono almeno 14 quelli che la consentono: Austria, Bulgaria, Croazia, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Malta, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria.

Tre stati autorizzano inoltre la sterilizzazione anche su persone minori: Repubblica Ceca, Ungheria e Portogallo. E in almeno altri tre (Belgio, Francia e Ungheria) l’uso della contraccezione o della sterilizzazione può essere un requisito per l’ammissione nelle strutture residenziali per persone con disabilità. L’ostetrica Béatrice Idiard-Chamois, che lavora all’Institut Mutualiste Montsouris di Parigi, ha spiegato a El País che nonostante sulla carta gli istituti francesi per persone con disabilità non possano avere tra i propri requisiti di ingresso alcuna pretesa contraccettiva la realtà è molto diversa: «I centri esigono sempre che le donne con disabilità prendano dei contraccettivi. A volte, lo psichiatra del centro prescrive a tutte la stessa pillola senza prima ordinare una visita ginecologica».

Non esistono dati ufficiali sulle sterilizzazioni forzate effettuate in Europa, nemmeno nei paesi dove la pratica è prevista dallo stato o concessa da un tribunale: sono inesistenti, molto vecchi o non disaggregati. È dunque complicato valutare il numero di persone che subiscono forzatamente questa pratica e stabilire se sia in aumento o in diminuzione. Resta, di fatto, un fenomeno sommerso.

I dati più recenti riguardano la Germania e la Spagna. In Germania, secondo le statistiche del 2017, il 17 per cento di tutte le donne con disabilità è stato sterilizzato. In Spagna, il Comitato dei rappresentanti delle persone con disabilità (Cermi) ha segnalato 140 casi nel 2016. Secondo il Consiglio generale della magistratura spagnola nei dieci anni precedenti al divieto nel paese ci sono state più di mille sterilizzazioni.

Le associazioni spagnole che si occupano di disabilità dicono però che i dati non raccontano quello che accade davvero. Molte sterilizzazioni sono state eseguite al di fuori della legge, che pure fino a un certo punto le consentiva: «Abbiamo avuto a che fare con casi di donne con disabilità che sono rimaste incinte. Le loro famiglie hanno deciso farle abortire senza il loro consenso e in quella stessa operazione le hanno sottoposte a sterilizzazione». Isabel Caballero, coordinatrice di Fundación Cermi Mujeres, spiega ancora: «Alcune donne si sono accorte di essere state sottoposte a una legatura delle tube quando hanno cercato di concepire e non ci sono riuscite. All’improvviso, si sono ricordate che da giovani erano state portate in ospedale per un’operazione senza sapere esattamente di cosa si trattasse». È normale, spiega ancora Caballero, che nei casi di sterilizzazione forzata la vittima non sia informata della procedura, che possa essere ingannata e che la pratica venga mascherata da altri tipi di intervento come un’asportazione dell’appendicite o una biopsia per un altro intervento.

In alcuni dei paesi dove la pratica è generalmente vietata esistono comunque delle eccezioni che consentono di praticarla, ad esempio quando si tratta di una misura urgente o “terapeutica”. È il caso dell’Irlanda, della Slovenia, della Germania, della Francia e anche dell’Italia.

In Italia la sterilizzazione forzata non è punita come un reato specifico, ma può essere perseguita in base all’articolo 583 del codice penale dove compare come circostanza aggravante delle lesioni personali. Tuttavia, e in alcuni casi, la sterilizzazione avviene. Luisella Bosisio Fazzi, che fa parte del Comitato donne dell’EDF, ha spiegato che «nel nostro paese non esistono dati, ma sappiamo per certo che la sterilizzazione forzata rimane una pratica diffusa, magari mascherata da altri tipi di intervento». Il che vuol dire, dice ancora, «che esiste una certa compiacenza nell’eseguire un intervento che, non essendo sempre lecito, stenta a essere portato alla luce. Siamo al corrente dell’esistenza di tale prassi grazie alla testimonianza di alcune donne con disabilità fisica, che si sono accorte di essere state sterilizzate in età adolescenziale, quando hanno deciso di cercare una gravidanza. Ma se per le donne con disabilità fisica i dati scarseggiano, di quelle con disabilità psichica o cognitiva non si sa assolutamente nulla».

Rosalba Taddeini, dell’Osservatorio di Differenza Donna sulla violenza contro le donne con disabilità, ha raccontato che al di là della sterilizzazione forzata «esiste tutta un’area grigia» dove le donne subiscono trattamenti non consensuali relativi alla loro riproduzione sessuale: «A volte si tratta di iniezioni contraccettive somministrate all’insaputa delle donne, specie di quelle con disabilità intellettiva, a cui viene spesso negata la possibilità di scelta rispetto alla maternità. Insomma, nessuno chiede loro se vogliano avere figli, si dà per scontato che non debbano diventare madri».

Nel 2013 il tribunale di Catanzaro ha respinto la richiesta di aborto e di sterilizzazione forzata proposta dal tutore di una donna con disabilità, rimasta incinta. In quel caso il giudice ha ritenuto la donna in grado di comprendere il senso e le responsabilità connesse a una gravidanza, sottolineando anche la disponibilità della famiglia a sostenerla. La sentenza ha poi dichiarato «aberrante» la richiesta del tutore legale di praticare un intervento irreversibile «per compensare vuoti di tutela e la mancanza di un sostegno reale ed efficace» da parte delle istituzioni.

Spesso è proprio la mancanza di risorse che porta alcune famiglie a scegliere un’opzione così drastica come quella della sterilizzazione. Rosa Estarás, del Partito Popolare spagnolo e deputata al Parlamento Europeo, ha spiegato che «non si possono lasciare le famiglie con il bellissimo messaggio sul rispetto dei diritti umani, ma poi senza aiuti e senza che la società stessa dia loro delle alternative».

La pratica della sterilizzazione forzata viene giustificata con varie argomentazioni, tra cui l’interesse della persona e la protezione dagli abusi sessuali, anche se la sterilizzazione evita una gravidanza, ma non un abuso, come si specifica tra l’altro nella sentenza italiana del 2013. Soprattutto, spiega l’EDF, viene legittimata con «la persistente convinzione paternalistica, infantilizzante e patriarcale secondo cui una persona con disabilità non sarebbe in grado di prendersi cura di un bambino». E questo non tenendo conto del fatto che spesso non esista uno stato sociale che promuova percorsi di sostegno, indipendenza e autodeterminazione per le persone con disabilità.

Uno dei problemi principali legati alla sterilizzazione forzata è il concetto di consenso libero e informato. Negli stati membri dell’UE che consentono la pratica, la decisione viene presa senza il consenso o la consapevolezza da parte della persona interessata. Viene cioè decisa da terzi: un tutore, un rappresentante legale, un amministratore o anche un medico. In alcuni paesi invece sono previsti meccanismi di salvaguardia per garantire che il consenso e la volontà della persona siano raccolti e rispettati, ma non è detto che costituiscano una garanzia e anzi, possono generare altre forzature e violenze.

Mancando informazioni e dati, dice il report dell’EDF, è difficile valutare se queste disposizioni legali siano effettivamente applicate. Ne sono prova le numerose testimonianze su casi in cui la persona non era a conoscenza della procedura o era stata ingannata. Non è nemmeno possibile verificare se la persona coinvolta riceva informazioni sulla procedura che siano chiare, accessibili e personalizzate. In Germania, un’indagine del 2020 sulle donne con disabilità che vivono negli istituti dice che sono state utilizzate varie tecniche per indurre ad acconsentire alla sterilizzazione: omissione di informazioni, trasmissione di informazioni false, pressioni emotive. In alcuni paesi, infine, non è stabilito un consenso esplicito della donna, ma l’assenza di un suo esplicito dissenso: «Se la persona con disabilità sta seduta senza dire nulla, si considera che abbia dato il consenso» ha ad esempio spiegato a El País Sándor Gurbai, portavoce dell’associazione ungherese Validity Foundation.

A tutto questo si aggiunge un ulteriore problema. Le donne con disabilità che sono state sottoposte a sterilizzazione forzata senza il loro consenso non è detto che abbiano accesso alla giustizia per ottenere riparazione o risarcimenti, o che sappiano di poterlo fare.

Qualche settimana fa il Parlamento Europeo ha dato il via libera (nonostante l’astensione di Lega e Fratelli d’Italia) alle risoluzioni che chiedono all’Unione Europea di ratificare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, conosciuta più brevemente come Convenzione di Istanbul. Al testo sono stati proposti diversi emendamenti, alcuni dei quali chiedono il riconoscimento della sterilizzazione forzata come reato e l’obbligo degli stati membri di fornire un’assistenza specifica alle vittime di tale pratica.

È solo tramite la ratifica della Convenzione che scatta l’obbligo di adeguare le leggi interne a ciascun stato alle regole previste dal testo dell’accordo. Ed è proprio a questo vincolo che alcuni stati si stanno opponendo: anche stati, ha spiegato Rodríguez Palop, rappresentante di Unidas Podemos e deputata al Parlamento Europeo, che di solito «non sono sospettati di andare contro i diritti umani come Francia, Belgio o Portogallo».

Quando si parla di sterilizzazione forzata spesso si pensa ai programmi attuati in Germania durante il nazismo. La sterilizzazione forzata ha però una storia molto più lunga e molto più ampia.

In Svezia dal 1934 al 1975 è stato attivo un programma per sterilizzare giovani donne considerate «deboli di mente», «ribelli» o di «razza mista». Dopo aver abolito la pratica, la Svezia ha istituito un ente governativo per risarcire le persone che erano state sterilizzate forzatamente. Piani per sistematiche e coatte sterilizzazioni sono stati istituiti negli Stati Uniti, ma anche in Cina, Giappone, Perù, Sudafrica, Repubblica Ceca, India e molti altri paesi ancora. E anche fino ad anni molto recenti. Hanno coinvolto persone appartenenti a determinate etnie, persone con disabilità di vario tipo, persone detenute, tossicodipendenti, sieropositive e anche semplicemente sospettate di avere delle malattie. La maggior parte di questi programmi era rivolta a donne.