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  • Mercoledì 3 maggio 2023

Che cos’è il “fallimento” nello sport?

Una risposta del giocatore di NBA Giannis Antetokounmpo dopo un’eliminazione inaspettata ha attirato commenti e valutazioni sui diversi significati di una sconfitta

Michael Jordan 1992
Michael Jordan durante una partita dei Chicago Bulls contro i Cleveland Cavaliers a Chicago, il 17 febbraio 1992 (Jonathan Daniel/Allsport/Getty Images)
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Una recente opinione di Giannis Antetokounmpo, uno dei più forti giocatori di basket NBA degli ultimi anni, è circolata molto sui social e sui media generalisti oltre che su quelli sportivi dopo che la squadra in cui lui gioca, i Milwaukee Bucks, è stata eliminata al primo turno dei playoff dai meno quotati Miami Heat. A un giornalista che in conferenza stampa gli aveva chiesto se considerasse un fallimento la stagione sportiva appena conclusa, Antetokounmpo ha risposto che «non esiste il fallimento nello sport» e ha definito «sbagliata» la domanda.

«Michael Jordan ha giocato 15 anni, ha vinto 6 titoli: gli altri 9 anni sono stati un fallimento? […] Ci sono giorni buoni e giorni meno buoni, in alcuni riesci ad avere successo e in altri no. A volte è il tuo turno, a volte no, e questo è lo sport. Non si vince sempre, vincono anche gli altri. E quest’anno vincerà qualcun altro. Ci riproveremo l’anno prossimo e cercheremo di essere migliori».

La risposta di Antetokounmpo è stata apprezzata da molti commentatori e anche da altri sportivi di alto livello, a cui spesso vengono rivolte domande di questo tipo dopo sconfitte impreviste e clamorose. È piaciuta sia per la profondità del pensiero che esprime, sia in generale per la capacità di Antetokounmpo di rispondere a una domanda prevedibile portando avanti un ragionamento privo di frasi fatte o già sentite in queste circostanze. Allo stesso tempo la sua risposta è sembrata ad altre persone un modo di eludere una domanda più banale e meno profonda rispetto a come lui l’ha intesa, e ha generato una discussione riguardo al significato e alla diffusione della parola “fallimento” nello sport.

L’impressione largamente condivisa è che gran parte del dibattito che si è sviluppato sulla risposta data da Antetokounmpo ruoti attorno a due diverse interpretazioni della parola “fallimento”. Una delle due, la più elastica e diffusa in ambito sportivo, lo intende come un divario più o meno ampio tra un risultato sportivo negativo e le aspettative di vittoria intorno alla squadra o all’atleta che ottiene quel risultato: aspettative generalmente commisurate alle qualità di quell’atleta o alle risorse a disposizione di quella squadra. L’altra interpretazione intende invece il fallimento in un senso più esteso ed “esistenziale”, simile a quello che questa parola tende ad assumere in altri contesti, diversi da quello sportivo: un insuccesso estremo e irreparabile.

Respingendo il concetto di fallimento, inteso in questo senso più ampio, Antetokounmpo ha descritto la sconfitta come parte essenziale di una normale dinamica che è alla base dello sport: per ogni squadra che vince una partita ce n’è per forza una che perde, nonostante l’impegno e la volontà di vincere da parte di entrambe. Ha quindi contestato l’idea che il successo di una squadra implichi sempre il “fallimento” di tutte le altre che non hanno vinto.

– Leggi anche: Giannis Antetokounmpo e chi chiama «fallimento» ogni sconfitta

Il pensiero di Antetokounmpo è stato apprezzato, tra gli altri, dall’allenatore italiano della squadra di calcio del Real Madrid Carlo Ancelotti, uno dei più vincenti di tutti i tempi, che ha individuato nell’impegno – a prescindere dal successo – l’elemento utile a definire la differenza tra cosa sia e cosa non sia un fallimento. «Il fallimento è quando non provi a fare qualcosa al meglio delle tue possibilità. Quando cerchi di fare del tuo meglio, hai la coscienza a posto, e questo non è mai un fallimento, non solo nello sport ma nella vita», ha detto Ancelotti, elogiando Antetokounmpo.

Ancelotti è conosciuto tra le altre cose per essere l’unico allenatore di calcio nella storia ad aver vinto quattro volte (due con il Milan e due con il Real Madrid) la Champions League, la più importante competizione calcistica annuale per squadre di club europee. Considerato uno dei trofei più difficili da vincere nel calcio mondiale, per la quantità di variabili imprevedibili che condizionano la competizione, la Champions League è descritta spesso dai media sportivi come il principale obiettivo di alcune grandi squadre europee in particolare, a fronte dei cospicui e costanti investimenti che le società proprietarie di quelle squadre hanno sostenuto negli ultimi anni.

Una di queste è il Manchester City, squadra inglese allenata dallo spagnolo Pep Guardiola, che vinse la Champions League da allenatore del Barcellona nel 2009 e nel 2011. Insieme all’acquisto di alcuni dei calciatori più forti al mondo, l’assunzione di Guardiola nel 2016 rientra in un vasto piano di investimenti compiuti nel tempo dal gruppo che acquisì il Manchester City nel 2008 e che fa capo alla famiglia reale degli Emirati Arabi Uniti. Nonostante gli investimenti e le molte vittorie nelle competizioni nazionali ottenute da allora, il Manchester City non ha ancora mai vinto una Champions League, pur essendoci andato molto vicino nel 2021, quando perse in finale contro il Chelsea.

L’anno successivo, dopo che il Manchester City perse in semifinale contro il Real Madrid, Guardiola rispose a una domanda in conferenza stampa utilizzando un argomento simile a quello di Antetokounmpo: rifiutò di considerare un fallimento quella sconfitta o le altre subite in passato dalla squadra, anche con altri allenatori prima del suo arrivo. «Che le persone considerino un fallimento se questi allenatori e questi giocatori non vincono lo accetto ma non lo condivido per niente. Le persone che vivono nello sport sanno quanto sia difficile ogni cosa», disse Guardiola. E aggiunse: «Nello sport, nelle nostre vite, a volte fai tutto il possibile, e non hai successo. Che male c’è?»

Una delle più comuni obiezioni all’idea sostenuta da Antetokounmpo, Ancelotti e Guardiola è che il fallimento nello sport sia una categoria associata non a qualsiasi sconfitta, ma soltanto agli insuccessi di squadre che in teoria, poiché più attrezzate, forti e ambiziose, hanno più probabilità e possibilità di vincere il campionato rispetto alle altre. Ed era certamente il caso dei Milwaukee Bucks rispetto ai Miami Heat: la prima contro l’ultima squadra nei playoff per punteggio totalizzato durante la stagione regolare nella Eastern Conference.

A questo sbilanciamento di forza e ambizioni sembrava alludere il giornalista della rivista The Athletic Eric Nehm quando ha rivolto la domanda ad Antetokounmpo, dopo averla posta peraltro anche all’allenatore dei Bucks, Mike Budenholzer. E in genere, a fronte di questo tipo di domanda, ci si aspetta che allenatore e giocatori forniscano attenuanti particolari e ragioni specifiche dell’insuccesso, oppure nessuna giustificazione: soltanto un’ammissione di responsabilità per un’eventuale mancanza di impegno o di altre qualità necessarie nei momenti fondamentali delle partite. Risposte come quella di Antetokounmpo sono invece molto più rare, sia perché frutto di capacità analitiche non comuni, sia perché rischiano di sembrare eventualmente elusive o fuori luogo a chi non ritenga che la squadra perdente ma più forte tra le due abbia fatto tutto il possibile per vincere.

«Non userei quella parola [fallimento], piuttosto siamo delusi e frustrati», aveva risposto Budenholzer, dicendosi consapevole delle aspettative «incredibilmente alte» intorno alla squadra. «Jon Horst [general manager dei Bucks] ha messo insieme un roster straordinario. La proprietà ha fatto quello che doveva fare. Abbiamo spinto, eravamo la testa di serie numero 1, ma l’unica cosa che conta sono i playoff», ha detto Budenholzer, ponendo l’attenzione sulla fase del campionato in cui la forma fisica e la fortuna tendono a diventare fattori più influenti di quanto lo siano durante la stagione regolare, fermo restando il valore complessivo delle squadre.

Nel caso di Antetokounmpo, che gioca da 10 anni in NBA ed è stato eletto migliore giocatore del campionato (MVP) nelle stagioni 2018-2019 e 2019-2020, la domanda a lui posta da Nehm assumeva anche un significato più personale e prospettico. Dopo aver vinto il campionato nel 2021, l’unico finora vinto da Antetokounmpo, i Milwaukee Bucks erano stati eliminati nel 2022 nelle semifinali di Conference. E in pochi avrebbero immaginato che quest’anno, da primi in classifica di Conference (nel 2022 conclusero terzi), potessero addirittura uscire al primo turno.

Se Antetokounmpo finirà per giocare altre 10 stagioni in NBA e quest’anno è da considerare – per utilizzare le sue parole – soltanto un passo verso il successo, allora «è stato sicuramente un passo indietro», ha poi scritto Nehm su The Athletic. E per quanto la risposta di Antetokounmpo possa sembrare incredibilmente matura, ha aggiunto l’esperto di basket Ben Golliver sul Washington Post, Antetokounmpo «sicuramente sa che i Bucks dovrebbero vincere di più» di quanto non stia accadendo.

Secondo altri commentatori sportivi, che non hanno messo in discussione l’impegno di Antetokounmpo, la sua risposta dovrebbe invece essere soltanto apprezzata per originalità e audacia, tanto più in un contesto solitamente contraddistinto da domande e risposte tutte uguali. In un’epoca in cui le scuse e le ammissioni di responsabilità della sconfitta da parte dei giocatori sono diventate così comuni da essere insignificanti, secondo il giornalista sportivo del Guardian Barry Glendenning, è rassicurante sentire un atleta di alto livello ribadire che nonostante la forza della sua squadra e l’impegno «esiste sempre la possibilità di perdere» e che «la sconfitta non equivale necessariamente a un fallimento».

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In generale questo tipo di approccio che interpreta la sconfitta come un avvicinamento alla vittoria, secondo Glendenning, può apparire paradossale a chiunque consideri il risultato finale l’unico indicatore rilevante del successo e dell’insuccesso nello sport, a prescindere dallo sviluppo delle competizioni e delle partite. Sviluppo che però è utile a comprendere se un eventuale insuccesso può o non può effettivamente essere considerato un passo verso il successo, dal momento che c’è modo e modo di perdere.

Antetokounmpo non ha cercato di eludere le responsabilità della squadra né le sue individuali, in una serata in cui ha fatto 38 punti e 20 rimbalzi, ma in cui ha anche sbagliato 13 tiri liberi su 23. Ha però rifiutato di accettare una logica binaria che, come ha scritto sul Wall Street Journal il giornalista Jason Gay, porta a considerare «un disastro assoluto qualsiasi cosa che non sia sollevare trofei alla fine di una stagione». Si può quindi sia ammettere che i Bucks abbiano deluso le aspettative, perdendo una serie di partite che erano ampiamente in grado di vincere, sia che questa eliminazione non faccia dei giocatori e dell’allenatore un gruppo di falliti.

Anche alla luce della storia personale di Antetokounmpo – uno sconosciuto giocatore greco di origini nigeriane considerato un incompiuto, quando arrivò nella NBA – la parola “fallimento” dovrebbe peraltro suonare ancora più inappropriata e fuori luogo a chi di quella storia sappia qualcosa, ha scritto Gay. «È difficile pensare a un atleta che abbia lavorato più di lui per costruire il suo talento e trascinare una squadra», portandola nella stagione 2020-2021 a vincere un campionato 50 anni dopo il primo e fino a quel momento unico successo.

Secondo Gay, che come Antetokounmpo e altri tende a considerare le analogie e non le differenze tra lo sport e le altre esperienze della vita, i fallimenti possono essere bruschi e improvvisi, ma «i successi sono incrementali» e il modo in cui arrivano è spesso nascosto alla vista. Già l’idea che una singola esperienza, nella vita come nello sport, possa «serenamente essere etichettata e messa da parte» è quindi abbastanza assurda. E Gay ha attribuito questa inclinazione a una tendenza sociale più ampia, che predilige la sintesi estrema e tende a rifiutare la possibilità che una domanda ammetta una risposta strutturata, cioè «qualsiasi risposta più lunga di sei parole».

La frequente attitudine di una parte dei media e del pubblico a descrivere le prestazioni sportive nei termini sintetici ed estremi del successo o del fallimento è peraltro un argomento discusso anche all’interno di un dibattito sulle particolari pressioni a cui gli atleti professionisti sono sempre più spesso sottoposti nello sport ad alti livelli, con conseguenze più o meno gravi sulla loro salute mentale. A rendere noto questo fenomeno furono in particolare nel 2021 i clamorosi ritiri della ginnasta statunitense Simone Biles da un’importante gara alle olimpiadi di Tokyo e della tennista giapponese Naomi Osaka dal Roland Garros, entrambi associati a problemi di stress e disagio aggravati dalle pressioni mediatiche.

Una delle opinioni sostenute in quel dibattito è stata in un certo senso ripresa da chi ha interpretato la risposta di Antetokounmpo come uno sfogo, e quindi un segno di debolezza e insofferenza verso le domande dei giornalisti, ipotesi contestata ed esclusa da Gay. Secondo quell’opinione, il disagio degli atleti dovrebbe essere inquadrato principalmente in termini di frustrazione e fragilità caratteriale di fronte alle normali pressioni della competizione sportiva e della stampa specializzata.

Secondo altre opinioni, più inclini a tenere in considerazione anche le amplificazioni di quelle normali pressioni mediatiche attraverso Internet e i social, le pressioni attuali nello sport ad alti livelli – a partire dalla disinvoltura con cui si tende a definire gli insuccessi sportivi un “fallimento” – sono invece spesso inconciliabili con il benessere mentale degli atleti.