• di Camilla Allegrucci
  • Storie/Idee
  • Martedì 18 aprile 2023

L’adozione, la fecondazione assistita e io

Questo testo nasce da una discussione nella sezione commenti sotto un articolo del Post che parlava della gestazione per altri. «La Procreazione Medicalmente Assistita è la scelta che più mi permetterebbe di riavvicinarmi all'immagine di famiglia che avevo in mente e quindi di lenire la sofferenza fortissima che mi dà il non riuscire a coronare un progetto centrale per me come persona e per noi come coppia. L'adozione, da questo punto di vista, per me non è un'alternativa equivalente»

(Lea Suzuki/San Francisco Chronicle via AP)
(Lea Suzuki/San Francisco Chronicle via AP)
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Forse dovrò ricorrere alla fecondazione assistita.

E vorrei provare a spiegare il perché.

Lo so: alcuni di voi, arrivati a questa altezza, commenteranno con «ma c’è bisogno di dirlo al mondo?» e passeranno oltre. E faranno bene: perché in effetti non c’è bisogno di dirlo al mondo, perché la scelta di avere o non avere figli – e di come averli, e di come non averli – è personale, e nel mondo ideale ogni coppia o singola persona dovrebbe e potrebbe regolarsi come meglio crede.

Ma il mondo reale è un po’ diverso da quello ideale: e come dimostra la cronaca, intorno ai figli – alla scelta di averli o di non averli, di averli con certi metodi piuttosto che con altri, di adottarli o di darli in adozione – si sviluppano dibattiti infiniti. Spesso e volentieri, si tratta di dibattiti animati da persone che hanno ottimi sentimenti, ma scarsa conoscenza di quanto possano essere complessi certi percorsi, e di quanti dubbi agitino chi non ha la fortuna di riprodursi biblicamente e senza sforzo.

Per questo vorrei parlare della mia esperienza personale: per cercare di evidenziare aspetti che «dall’esterno» potrebbero sfuggire (e che sfuggivano anche a me, prima). Non credo affatto che quello dell’esperienza personale sia l’unico punto di vista valido, e non sono una di quelle che si rifanno alla linea di pensiero del «soffro, dunque ho ragione». Ma spero che queste righe possano essere utili a chi s’è sempre chiesto «perché la gente fa di tutto per avere un figlio biologico, quando è pieno di bambini che crepano di fame? Non sarebbe più semplice adottarlo?».

La risposta breve è «no».

La risposta lunga è quella che segue.

La scoperta di «non poter avere figli naturali» è meno lineare di quanto si pensi. Ci sono persone per cui la diagnosi è netta: penso a chi non ha, per motivi genetici o per pregresse malattie, gli organi o le ghiandole necessarie per riprodursi; e questo è un caso. Ma in tanti altri casi, la scoperta è graduale, e parte dalle difficoltà di avere (o, peggio ancora, di mantenere vitale) una gravidanza: da lì partono esami di vario genere, e si cerca di arrivare a una diagnosi e dunque a una terapia. Per questa tipologia di coppie non c’è un momento netto in cui si scopre che «non puoi avere figli»: c’è la consapevolezza sempre maggiore che per te avere figli non sarà così semplice e lineare come per tante altre persone che conosci; magari avrai figli, magari no, ma tu non lo sai. Sai solo che è più complicato, e che per scoprire quanto è complicato devi fare degli esami e poi un percorso terapeutico.

Io sono nella fase «devo fare gli esami», e quindi non so né quale sia il problema né se sia risolvibile né come lo si possa risolvere. Però mi sono posta il problema di cosa farei nei vari scenari, e le conclusioni a cui sono giunta per ora sono queste.

1) Non avrei mai pensato che la maternità sarebbe stata qualcosa di difficile da raggiungere. Credevo sarebbe stato tutto semplice e lineare, e quindi l’immagine che avevo in mente (da vent’anni, non da ieri) era quella di una famiglia in cui i figli vengono naturalmente e sono figli biologici. Non perché il mio patrimonio genetico e quello del mio compagno siano più fighi di quelli degli altri, né perché ritenga che sia il legame biologico a fare il genitore (io avrei donato i miei gameti, se ce ne fossero state le condizioni, pensa tu); ma perché questo è il modo comune, ordinario, di diventare genitori, quello che hanno sperimentato il 95 per cento delle coppie che conosco e il 100 per cento dei miei coetanei. Dover accettare che questa normalità potrebbe non essere alla nostra portata è già, di per sé, un lutto: «ma come, tutte restano incinte tranne me?» è un pensiero che faccio spesso. Più ci si discosta da quell’immagine che avevo in mente, più la ferita si fa profonda e diventa necessario lavorare su se stessi per sanarla. La PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) è la scelta che più mi permetterebbe di riavvicinarmi all’immagine di famiglia che avevo in mente e quindi di lenire la sofferenza fortissima che mi dà il non riuscire a coronare un progetto centrale per me come persona e per noi come coppia. L’adozione, da questo punto di vista, per me non è un’alternativa equivalente.

Trovo difficile fare paragoni che spieghino cosa provo, ma forse il più calzante è questo: perché una persona dovrebbe rassegnarsi a una limitazione permanente e sostanziale della vista se può operarsi di cataratta? Poi magari va male, e si deve fare i conti con la realtà: ma ha senso dire a quella persona «è il destino, la vista non è un diritto, cerca delle alternative invece di tentare la strada medica»? Per me no (e ripeto: non voglio convincere, voglio presentare un punto di vista).

2) È difficile dire quanto andrei a fondo sulla strada della PMA. Ora come ora dico «non troppo» perché se non riuscissi ad avere figli sarebbe un lutto, non la fine del mondo (ci tengo molto a questa distinzione). Vorrei un figlio per alzare la qualità della mia vita, ma se per averlo devo distruggere me stessa e il rapporto col mio compagno, alzo bandiera bianca, con dolore ma anche con la consapevolezza che è la cosa migliore per noi. Ma non tutte le tecniche di PMA sono uguali e non tutte sono fortemente invasive. Un conto è prendere farmaci per stimolare l’ovulazione e un conto è la FIVET. In molti casi – e credo che dall’esterno non si comprenda bene – ricorrere alla PMA può essere molto meno invasivo, difficile e doloroso che scegliere il percorso dell’adozione. Scegliere la PMA invece dell’adozione, quindi, non è sempre una scelta illogica, di accanimento, dettata dalla volontà di avere figli propri a tutti i costi: spesso è la scelta più razionale e sensata, quella che inciderà di meno sull’equilibrio di coppia (e sul portafogli, ma questo è il meno).

3) Molte persone sanno, almeno per sentito dire, che adottare è difficile. Non tutte, secondo me, apprezzano in cosa consista la difficoltà. Quando ho iniziato ad avere difficoltà, mi sono informata su come funzioni il processo adottivo in Italia che può seguire due strade: l’adozione nazionale, in cui si adottano minori presenti sul territorio italiano, e l’adozione internazionale, in cui si adottano minori da una serie di paesi che hanno accordi col nostro.

In entrambi i casi la coppia (sposata) deve soddisfare alcuni requisiti d’età, di salute e deve essere stata giudicata idonea. Per avere l’idoneità bisogna sostenere vari colloqui con gli assistenti sociali e, credo, anche con i giudici del tribunale per i minori: questo comporta un’intrusione di estranei (che saranno bravissimi a fare il loro lavoro, ma sono sempre estranei) che non si vive e non si deve subire quando si hanno figli in altri modi (PMA compresa). Per quanto mi riguarda è uno stress che, se possibile, mi eviterei volentieri, anche ricorrendo a certe forme di PMA.

Anche nel caso in cui si ottenga l’idoneità, la via dell’adozione nazionale rimane difficilissima. I minori adottabili in Italia sono pochissimi, perché quelli nelle case-famiglia non sono adottabili: possono essere presi in affido, ma non in adozione. Resta la strada dell’adozione internazionale, che però ha un costo non irrilevante e tempi lunghi (e che dal mio punto di vista solleva problemi etici non indifferenti).

Però, quando si fanno presenti le difficoltà dell’adozione, la risposta è sempre quella: «Ma allora facilitiamo il processo!». Il punto, per me, è che il processo non si può semplificare oltre un certo limite. Si potrebbero gestire le domande di adozione a livello centrale, e non su base di distretto di Corte d’Appello, come avviene ora, ma non molto di più. Che un bambino non possa essere dato in mano ai primi che passano, e che quindi siano necessari controlli sulla coppia che adotta, è un principio sacrosanto. Bisogna accettarlo: se i minori da adottare in Italia non ci sono, non ci sono; e se adottarli all’estero richiede tempo e denaro, richiede tempo e denaro. 

Mi sembra, quindi, comprensibile che tra un percorso accidentato – la PMA – che permette a una coppia di riavvicinarsi alla sua idea di famiglia, e un percorso ancora più accidentato che impone di rivedere quell’idea di famiglia, la maggioranza delle coppie sceglierà la prima strada. E non per il culto dei propri geni (infatti c’è chi ricorre alla fecondazione eterologa), ma perché si sceglie la strada che fa meno male.

4) Un altro aspetto da considerare è che l’adozione impone di confrontarsi, anzi, di mettere al centro non il proprio dolore e il proprio lutto per non essere riusciti ad avere figli «come tutti», ma un’altra persona: il figlio che si adotta. Che non arriva dal nulla. Anche se è piccolissimo (e per vari motivi è l’eccezione, non la regola), il bambino avrà una storia con cui confrontarsi, e questo confronto non sarà sempre facile.

Ho letto varie storie di persone adottate. Quelle positive sono molte, ma ce ne sono anche varie che evidenziano fallimenti, difficoltà, problemi che riesplodono magari dopo anni di totale armonia e serenità. E mi sono chiesta: tu ce la faresti a farti carico della sofferenza di tuo figlio? Tu ce la faresti ad accettare il fatto che il tuo amore possa non essere abbastanza per lenire il dolore del suo abbandono? Tu lo sosterresti se volesse cercare la sua famiglia d’origine (il culto dei geni non ce l’hanno solo i genitori) o vedresti questo suo bisogno come un rifiuto di te, dell’alternativa che rappresentavi? Saresti capace di non farlo o farla sentire una seconda scelta, anche se non avresti adottato potendo avere figli biologici? Saresti capace di mettere in secondo piano il tuo lutto per sostenere tuo figlio nell’elaborazione del suo lutto? La risposta a tutte queste domande è stata «non lo so, ma credo di no». Per questo mi sembra doveroso escludere l’adozione: perché non ho la serenità, la stabilità, il distacco per sentire di essere un porto sicuro per mio figlio. Inizierei quel percorso sperando che lui lenisca le mie ferite, quando dovrebbe essere il contrario.

A questo si aggiunga il fatto che ho grossi dubbi sull’adozione internazionale. Non credo che sradicare un bambino (che nei casi di adozione internazionale non è quasi mai un neonato) dall’unica realtà che conosce per catapultarlo in un mondo dove deve ripartire da zero equivalga sempre a fargli un favore. Se poi il bambino adottato fosse di un’etnia diversa, si porrebbe un altro problema: posso garantirgli che non sentirà mai battute razziste che potrebbero ferirlo a fondo? È un altro problema che non si porrebbe con la PMA.

Spero di aver reso almeno in parte, anche se in modo confuso, gli interrogativi e i passaggi che vivo (e che probabilmente vivono molte altre persone nella mia condizione), e spero di aver dato un’idea della complessità e della difficoltà che sfugge a chi ha avuto il lusso di avere figli in modo semplice e naturale. Si può non essere d’accordo con quanto dico, non capire perché parlo di lutto, ma spero che si capisca perché trovo semplicistico parlare di «ossessione per il figlio biologicamente tuo» e perché credo che gli inviti ad adottare non colgano affatto nel segno.

I bambini che crepavano di fame c’erano anche quando molte delle persone che mi consigliano l’adozione hanno scelto di avere i loro bambini per via naturale. Perché non sono andate a «salvarli»?

Camilla Allegrucci
Camilla Allegrucci

È dottore di ricerca in Scienze Giuridiche. Lavora come copywriter.

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