Ricordi di un lobbista delle Ong

«Venivo assiduamente informato dell’andamento delle operazioni di soccorso, affinché potessi intervenire presso le istituzioni di governo e contribuire, così, all’individuazione di un porto sicuro per lo sbarco dei naufraghi. Mi resi conto immediatamente che le Organizzazioni non governative agivano in piena cooperazione, e talvolta integrazione, con la Guardia Costiera e con il Centro di coordinamento per il soccorso marittimo di Roma»

(Foto Tullio M. Puglia/Getty Images)
(Foto Tullio M. Puglia/Getty Images)
Caricamento player

«Si è spostato l’approccio dell’immigrazione da una gestione di ricerca e salvataggio in mare a una securitaria». Franco Gabrielli, già capo della Polizia, 26 marzo 2023. Confesso: sono stato un lobbista delle organizzazioni non governative del soccorso in mare. E molto mi rammarico del non poter continuare a esserlo. Questa storia inizia nel 2015 a distanza di pochi mesi dalla conclusione della missione Mare Nostrum. Quest’ultima era stata voluta dall’allora presidente del Consiglio Enrico Letta dopo la strage del 3 ottobre 2013, che aveva visto oltre 368 persone morire davanti l’isola di Lampedusa.

Mare Nostrum, come operazione militare e umanitaria nel Mare Mediterraneo meridionale, impiegò il personale e i mezzi navali e aerei della Marina Militare, dell’Esercito, dell’Aeronautica Militare, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Guardia Costiera, con la partecipazione di personale sanitario militare e volontario. L’operazione prevedeva il rafforzamento del dispositivo italiano di sorveglianza e soccorso in alto mare già presente dal 2004, consistente nel pattugliamento permanente dello Stretto di Sicilia, oltre all’ordinario controllo dei flussi migratori.

L’operazione si concludeva il 31 ottobre del 2014 e veniva sostituita dalla missione europea Triton guidata dall’agenzia Frontex. La nuova missione, tuttavia, non prevedeva la vigilanza oltre le 30 miglia nautiche dalle coste italiane, diversamente da Mare Nostrum, che copriva un’area assai più vasta.

Il bilancio di Mare Nostrum è stato riassunto così dalla Marina Militare: «I migranti soccorsi nell’ambito dei 439 interventi sono stati 156.362». E, secondo il ministero dell’Interno, «sono stati rinvenuti 499 cadaveri, mentre i dispersi, sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti, potrebbero essere più di 1.800; sono stati arrestati 728 scafisti e sequestrate otto imbarcazioni». Questi i costi dell’operazione: 9,3 milioni di euro al mese, di cui 7 per il funzionamento e la manutenzione dei mezzi e 2,3 per gli oneri relativi alle indennità del personale (coperti dall’Italia e in parte minima dall’Ue). I costi della missione, presumibilmente, sono stati tra le cause principali della sua interruzione, nonostante i buoni risultati raggiunti.

D’altra parte, Mare Nostrum era circondata da grande interesse e da qualcosa di simile a un sentimento di patriottismo umanitario, al punto che a ridosso della missione crebbe in maniera significativa il numero di richieste di arruolamento nella Marina Militare. Tuttavia, già allora cominciò a diffondersi la categoria di pull factor: si introduceva, così, quell’argomentazione che vorrebbe l’attività di soccorso come determinante incentivo all’incremento dei flussi migratori: argomentazione che avrebbe inquinato tutto il successivo dibattito sul tema.

In ogni caso, la conclusione di Mare Nostrum aveva rimosso quei presidi nel Mediterraneo, che per un certo periodo avevano consentito di vigilare sui flussi di migranti che lo attraversavano e di intervenire in soccorso dei naufraghi. Il mare era tornato a essere un campo aperto, privo di assetti di controllo e salvataggio.

Ciò proprio nel momento di massimo afflusso di persone dal Mediterraneo verso l’Europa. Secondo l’UNHCR, nei primi sei mesi del 2015, i dati ricevuti da Grecia, Italia, Malta e Spagna mostrarono un aumento dell’83 per cento del numero di profughi e di migranti che attraversavano il Mediterraneo: 137.000 rispetto ai 75.000 dello stesso periodo del 2014. A fronte di tale incremento, crebbe il numero di morti in mare: tra gennaio e marzo del 2015, 479 persone annegarono o scomparvero in mare, rispetto alle 15 del primo trimestre dell’anno precedente. Nel mese di aprile del 2015 la situazione peggiorò ulteriormente: una successione di naufragi portò alla morte o alla scomparsa di 1.308 profughi in un solo mese.

Nel 2015, in assenza di ogni monitoraggio e di ogni vigilanza a opera delle istituzioni statali e comunitarie su larga parte del Mediterraneo, e mentre Frontex confermava sempre più la sua funzione di polizia dei confini, arrivarono le prime imbarcazioni delle organizzazioni umanitarie.

All’epoca ero parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani e fui contattato da due esponenti di quelle organizzazioni. Dalla portavoce italiana di Sea Watch, Giorgia Linardi, una comasca meno che trentenne, che aveva già lavorato per l’Alto commissariato per i rifugiati e per Medici Senza Frontiere. E da uno dei comandanti delle imbarcazioni di Open Arms, Riccardo Gatti, di Calolziocorte (Lecco), appena più anziano, in passato operatore in una comunità per minori.

Open Arms – il particolare è poco noto – nasce dalla trasformazione in organizzazione umanitaria della Pro-Activa, una compagnia di salvataggio e recupero in acqua, con base a Badalona, in Catalogna. In altre parole, una piccola società di bagnini, guidata da Òscar Camps, allora cinquantaduenne, nato a Barcellona, dalle notevoli doti di organizzatore e di leader. Contemporaneamente presi contatto con Marco Bertotto, dirigente di Medici Senza Frontiere, con cui già avevo collaborato per altre iniziative di carattere umanitario. Nei confronti delle Ong del soccorso in mare cominciò a esserci molta curiosità, ma limitatissimo interesse politico: e così mi trovai pressoché solo nell’accompagnarne l’attività, nel sostenerne le iniziative e nel cercare di trasferire sulla sfera politica le loro istanze (appunto un’azione di lobbying secondo la classica definizione della scienza politica).

In realtà, questo mio lavoro, nel corso dei primi tempi, si limitava alla presentazione di interrogazioni e interpellanze parlamentari su quanto accadeva nel mar Mediterraneo, sulla sorte dei naufraghi e sugli sbarchi e alla partecipazione alle conferenze stampa. Poi, via via, una crescente attività lobbistica vera e propria, che si svolgeva come segue: dalle imbarcazioni delle organizzazioni (in particolare Open Arms e Sea Watch) venivo assiduamente informato, ora dopo ora, dell’andamento delle operazioni di soccorso, affinché potessi intervenire presso le istituzioni di governo e contribuire, così, all’individuazione di un porto sicuro per lo sbarco dei naufraghi. Mi resi conto immediatamente che le Ong agivano in piena cooperazione, e talvolta integrazione, con la Guardia Costiera e con il Centro di coordinamento per il soccorso marittimo di Roma.

In un arco di tempo di circa sette anni ho intrattenuto rapporti con i ministri dell’Interno Angelino Alfano, Marco Minniti e Luciana Lamorgese e con i rispettivi capi di Gabinetto; e con i ministri delle Infrastrutture, titolari dell’autorità sui porti e sulla Guardia Costiera, Graziano Delrio, Danilo Toninelli, Paola De Micheli, Enrico Giovannini. Quella particolare attività legata al reperimento del porto sicuro assumeva spesso toni drammatici perché prevedeva un negoziato, talvolta concitato e sempre in condizioni di emergenza, su due punti: il luogo e i tempi dello sbarco.

In genere, non solo l’urgenza della missione di soccorso imponeva decisioni rapide, spesso rapidissime, che i dirigenti ministeriali tendevano invece a differire, ma anche la scelta del porto dove far sbarcare le persone salvate vedeva contrapposte esigenze diverse. Questo determinava lunghe e aspre trattative in cui io svolgevo una sorta di ruolo di mediazione.

Ricordo in particolare una telefonata molto tesa con il ministro Minniti (mi sembra si trovasse in Nigeria) e, poi, un lungo negoziato con il suo capo di Gabinetto, Mario Morcone, su quale dovesse essere la località siciliana dove far sbarcare i naufraghi recuperati da Open Arms. E, anni dopo, telefonate ancora più lunghe con la ministra Lamorgese, la quale riteneva possibile risolvere “con il buon senso” situazioni assai ingarbugliate per le quali la ragionevolezza non sempre si rivelava sufficiente.

Tutto questo per dire come vi fosse un rapporto costante e durato alcuni anni tra le organizzazioni non governative e i governi italiani; e che ciò ha consentito un’opera di soccorso che ha avuto enormi meriti. Ma quello che va notato è che questo rapporto, così evidentemente indispensabile, mai venne formalizzato. Mai fu indicato un funzionario del ministero dell’Interno o di quello delle Infrastrutture o un responsabile del coordinamento delle organizzazioni umanitarie o anche solo un numero di telefono per rendere automatiche e semplici le comunicazioni.

Ciò a causa dell’ostinata volontà di tutti i governi susseguitisi in questo periodo di non accordare una qualche forma di riconoscimento alle organizzazioni non governative. Non si è voluto, cioè, considerare le Ong come parte integrante di un complessivo sistema di soccorso capace di mettere in campo una pluralità di differenti soggetti. Nella prima fase, fino alla metà del 2017, funzionò una sorta di riconoscimento de facto: le organizzazioni venivano considerate legittimi interlocutori costantemente messi a parte delle operazioni di soccorso e delle strategie che le ispiravano. Successivamente, prevalse un diverso orientamento: le organizzazioni venivano, nella migliore delle ipotesi, sopportate. Quando i comandanti delle navi inviavano le e-mail al Centro di coordinamento, «più volte non ricevevano riscontro e spesso nessuno rispondeva al telefono», ricorda Valentina Brinis, dirigente di Open Arms. Da questo atteggiamento di sufficienza è stato facile passare, col cambiamento delle coalizioni di governo, a uno di ostilità, culminato nei “decreti Salvini” (luglio del 2018). Ma già nell’estate del 2017 il ministro dell’Interno Marco Minniti proponeva un codice di condotta che Medici Senza Frontiere si rifiutò di sottoscrivere e che le altre Ong accettarono, ma con molte riserve. Tuttavia anche in quella fase il rapporto di cooperazione tra le organizzazioni del soccorso in mare e il governo italiano procedeva, seppur faticosamente.

Questo nonostante qualche mese prima fosse stato firmato tra Italia e Libia un Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere, che avrebbe avuto conseguenze pesantissime sui flussi migratori tra il Paese nordafricano e l’Europa; e sulla stessa attività delle Ong.

Nel frattempo la presenza delle imbarcazioni di soccorso nel mar Mediterraneo stava crescendo notevolmente: vi si trovavano Open Arms, Sea Watch, Medici Senza Frontiere, SOS Mediterranée, Iuventa, Sea Eye, Salvamento Marítimo Humanitario, Save The Children; e altre, come Alarm Phone, Lifeline, Louise Michel, Mediterranea, ResQ ed Emergency sarebbero scese in mare successivamente.

Perché tutto questo poteva accadere e l’attività di soccorso, tra tragedie e respingimenti, tra aggressioni della Guardia costiera libica e fermi delle imbarcazioni poteva continuare? Perché la collaborazione tra Ong e la Guardia Costiera italiana, da quel 2015 fino all’altroieri, non si è mai davvero interrotta. Questo è il cuore del problema.

Quando un’imbarcazione riceve notizia (spesso da Alarm Phone o dai velivoli di Sea Watch) di un barcone in difficoltà si mette in moto una precisa sequenza:

  1. E-mail da parte del Comandante dell’imbarcazione dell’organizzazione ai centri di coordinamento del soccorso marittimo (RCC) competenti nel Mediterraneo Centrale (Libia, Malta e Italia), nonché allo Stato di bandiera, in cui si comunica la ricezione di informazioni relative a un possibile caso di distress (situazione di pericolo), la distanza dall’imbarcazione segnalata e l’ora stimata per l’arrivo sulla scena;
  2. E-mail agli stessi centri dove si forniscono i primi dettagli della situazione;
  3. A seguito delle opportune valutazioni da parte del comandante si procede a dichiarare il caso di distress e si provvede a salvare le persone. Il tutto viene immediatamente comunicato via e-mail;
  4. Richiesta di un luogo sicuro di sbarco indirizzata ai centri di coordinamento del soccorso marittimo.

Come si vede, l’intera operazione avviene attraverso la costante informazione alle autorità nazionali, tenuto conto che il Centro di ricerca è interamente gestito dalla Guardia Costiera italiana.

Questa procedura ha funzionato per tutta una lunga fase e ha dato ottimi risultati dal punto di vista umanitario, pur tra mille tensioni, incomprensioni e ritardi: in gran parte dovuti a quel mancato riconoscimento formale, e poi anche sostanziale, del ruolo delle Ong. Questo nonostante il fatto che, per un certo periodo e nella concretezza delle condizioni di emergenza, la cooperazione tra le organizzazioni del soccorso e le istituzioni italiane continuasse a funzionare egregiamente. Come è dimostrato anche dalle riunioni svoltesi presso la sede centrale della Guardia Costiera all’Eur, alle quali ho partecipato, presente l’allora Comandante generale delle capitanerie di porto Ammiraglio Giovanni Pettorino.

Con quest’ultimo ho avuto numerosi colloqui e numerosissime telefonate, per esempio ogni volta che la richiesta di un luogo sicuro tardava a venire accolta, rallentando le operazioni di sbarco dei naufraghi sulla terraferma. Al ministero dell’Interno, dopo la gestione di Matteo Salvini, l’attività di collaborazione delle Ong con il Viminale è stata incoraggiata dalla ministra Lamorgese (ricordo in particolare un’affollatissima riunione del 28 maggio 2021). Ma lo strappo determinato dai decreti sicurezza e dal nuovo scenario che hanno creato si è fatto sentire. L’attività delle Ong è stata rallentata, sia dalle numerose inchieste giudiziarie, sia dai provvedimenti di fermo amministrativo che colpiscono alcune loro imbarcazioni.

L’azione di soccorso è diventata più faticosa e macchinosa a causa di mille resistenze e mille ostacoli. E questo nonostante l’atteggiamento di massima apertura mostrato dal ministro delle Infrastrutture del governo Draghi, Enrico Giovannini. I rapporti con lui sono stati costanti, ma non sembrano avere ottenuto mutamenti di rilievo. Alla fine dello scorso luglio, sempre su sollecitazione del ministro, è stato fissato un incontro tra le Ong e il nuovo Comandante Generale delle capitanerie di porto e della Guardia Costiera Nicola Carlone, al quale ho partecipato.

La riunione, tenutasi il 29 luglio del 2022 nella sede del ministero delle Infrastrutture, avrebbe dovuto avere l’intento di verificare se vi fossero le condizioni per una cooperazione più stretta con le navi dei volontari. La risposta è stata nettamente negativa. L’ammiraglio Carlone e i suoi collaboratori sono stati chiarissimi nel negare alle organizzazioni umanitarie il riconoscimento di un proprio ruolo nella complessiva politica del soccorso. Non è stato dato atto di alcun merito a quelle centinaia di operatori umanitari che, nel corso di un decennio, hanno realizzato centinaia di missioni e salvato migliaia e migliaia di vite e si è arrivati a contestare alle Ong la responsabilità di aver intralciato alcune operazioni della Guardia Costiera.

Appena qualche giorno prima si era aperta la crisi del governo Draghi: e quali sarebbero stati i rapporti di forza nel futuro Parlamento e l’indirizzo del nuovo governo e la sua politica migratoria era ampiamente prevedibile. Il passaggio da un approccio orientato verso la ricerca e il salvataggio a uno di tipo securitario, annunciato da tempo, attendeva solo di potersi pienamente dispiegare.

Il prefetto Mario Morcone ha commentato così la tragedia di Steccato di Cutro: «Io la barca l’avrei seguita, in mare o per aria, ma l’avrei seguita. Forse quanto accaduto risente del clima politico infuocato attorno agli sbarchi». Colpisce quanto sia frequente nel trattare di immigrazione il riferimento al “clima” (politico, culturale, sociale…) come fattore cruciale nella formazione delle decisioni pubbliche: tanto più se si considera che il clima – quello vero, quello atmosferico – ha un ruolo così determinante nel produrre i flussi migratori, nell’orientarli e, infine, nel falcidiarli. Quanto era forte il vento e quanto alte le onde, quella notte tra il 25 e il 26 febbraio davanti alle coste calabresi? E la Guardia Costiera fece tutto quanto era in suo potere fare?

– Leggi anche: La Nave

Luigi Manconi
Luigi Manconi

Già docente di Sociologia dei fenomeni politici e già presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato della Repubblica, è stato parlamentare e sottosegretario di Stato alla Giustizia. È presidente di A Buon Diritto Onlus. Tra i suoi libri recenti, Il senso della vita. Conversazioni tra un religioso e un pococredente, con V. Paglia (Einaudi 2021), Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, con S. Anastasia, V. Calderone e F. Resta (Chiarelettere 2022), Corpo e Anima. Se vi viene voglia di fare politica, a cura di C. Raimo (Minimum Fax 2016). È editorialista de La Repubblica e La Stampa.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su