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  • Lunedì 3 aprile 2023

Il processo per l’attentato alla sinagoga di rue Copernic, a Parigi, nel 1980

È iniziato oggi in Francia dopo una delle inchieste giudiziarie più lunghe della storia del paese: l'imputato è uno solo, e vive in Canada

La polizia dopo l'esplosione in rue Copernic, Parigi, 3 ottobre 1980 (AP Photo/Remy de la Mauviniere, File)
La polizia dopo l'esplosione in rue Copernic, Parigi, 3 ottobre 1980 (AP Photo/Remy de la Mauviniere, File)
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Il 3 ottobre del 1980, alle 18:35, ci fu una violenta esplosione davanti alla sinagoga di rue Copernic, nel XVI arrondissement di Parigi. Morirono quattro persone e i feriti furono più di quaranta. La strage fu evitata per un ritardo nella celebrazione della cerimonia: a quell’ora i fedeli, circa 300, non erano ancora usciti dalla sinagoga. Dopo 42 anni, e dopo una delle più lunghe inchieste giudiziarie mai condotte in Francia, oggi a Parigi è iniziato il processo per quell’attentato, in cui però non è presente l’unico imputato: Hassan Diab, accademico di origine libanese che oggi ha 69 anni, vive in Canada e si è sempre dichiarato innocente.

L’esplosione del 3 ottobre del 1980 fu violentissima: le finestre degli edifici vicini alla sinagoga andarono in frantumi, le auto presero fuoco. L’esplosivo, 10 chilogrammi di pentrite, era stato collocato sul portapacchi di una moto parcheggiata. Tre persone morirono sul colpo: Philippe Bouissou, 22 anni, che passava in moto per la strada; Aliza Chagrir, una turista israeliana che stava rientrando al suo albergo; Jean-Michel Barbé, autista di una famiglia presente nella sinagoga. Una quarta persona morì in un secondo momento a causa delle ferite riportate: Hilario Lopez Fernandez, portiere dell’hotel Victor Hugo, proprio di fronte alla sinagoga.

Fu il primo attentato contro la comunità ebraica francese dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’allora primo ministro del paese, Raymond Barre, di ispirazione liberal-democratica, fu molto criticato per una sua dichiarazione: parlò dell’attacco come di un «attentato d’odio che voleva colpire gli israeliani della sinagoga» e che aveva «colpito degli innocenti francesi che passavano per rue Copernic», non riconoscendo la matrice antisemita di quanto accaduto.

La responsabilità politica dell’attentato venne subito attribuita dai media al movimento neonazista a seguito delle dichiarazioni del rabbino della sinagoga e dei leader della comunità ebraica francese. A Parigi venne organizzata una manifestazione di protesta che riunì diverse centinaia di migliaia di persone. In quei giorni iniziò anche una delle indagini giudiziarie più lunghe della storia di Francia che, già nel dicembre del 1980, escluse però l’ipotesi neonazista per concentrarsi invece su un’altra pista: il terrorismo palestinese.

La polizia soccorre un bambino dopo l’esplosione alla sinagoga di rue Copernic, Parigi, 3 ottobre 1980 (AP Photo/Remy de la Mauviniere, File)

Gli investigatori partirono dalla motocicletta Suzuki alla quale era stata attaccata la bomba: risalirono a un acquirente, un turista cipriota di nome Alexander Panadriyu, che l’aveva comprata in contanti in un garage vicino a place de l’Étoile. Aveva lasciato come indirizzo quello dell’Hotel Celtic, in rue Balzac, nell’VIII arrondissement. C’era stato per una sola notte. Non furono però trovate impronte sulla scheda che l’uomo aveva compilato a mano per registrarsi all’albergo e risultò anche che il passaporto che aveva presentato era falso.

Durante la sua permanenza a Parigi, l’uomo che si era identificato come Alexander Panadriyu aveva incontrato una prostituta ed era stato brevemente fermato in un negozio nel quartiere di Montparnasse per aver rubato una tenaglia e aver litigato con una guardia giurata. Aveva anche noleggiato un’auto che non aveva restituito, abbandonandola in un parcheggio il 4 ottobre, il giorno dopo l’esplosione. Grazie alle testimonianze delle persone che lo avevano incontrato in quelle ore a Parigi, la polizia realizzò un identikit: «aspetto mediorientale», baffi, capelli lunghi, occhiali, tra i 20 e i 30 anni, di statura media.

– Leggi anche: Storia e tecnica degli identikit

Nel dicembre del 1980 la Direzione della Sorveglianza Territoriale (il DST, cioè il servizio di intelligence nazionale francese attivo fino al 2008) ricevette una serie di informazioni dai servizi segreti di altri paesi che individuavano come responsabile dell’attentato il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina-Operazioni Speciali (FPLP-OS), un piccolo gruppo dissidente del FPLP con sede a Beirut, in Libano. Né il FPLP né nessun’altra organizzazione armata palestinese rivendicò la responsabilità dell’attacco. L’indagine si fermò e niente si mosse per i successivi 18 anni.

Nella primavera del 1999 il DST inviò un nuovo rapporto al giudice Jean-Louis Bruguière. Secondo altre informazioni probabilmente ottenute dai servizi segreti tedeschi, i terroristi che agirono in rue Copernic erano più di uno. Sarebbero arrivati ​​in treno da Madrid, utilizzando i loro veri passaporti per viaggiare dal Libano alla Spagna e poi quelli falsi per entrare in Francia. I promemoria identificavano l’individuo che aveva acquistato la motocicletta usata nell’attacco, cioè Alexander Panadriyu, come Hassan Diab, un ex studente libanese di Beirut, che sarebbe stato a capo del commando che aveva compiuto l’attentato. Quest’ultimo era anche sospettato di aver fatto esplodere un furgone davanti a una sinagoga ad Anversa, in Belgio, il 20 ottobre del 1981, provocando tre morti.

Il giudice Bruguière fece richiesta di una rogatoria internazionale per indagare su Hassan Diab. Gli Stati Uniti risposero sei mesi dopo che un certo Hassan Diab, nato nel 1953 a Beirut, aveva vissuto nel loro paese dal 1987 al 1989, prima di stabilirsi in Canada, dove nel 1995 aveva ottenuto la cittadinanza e dove insegnava sociologia all’Università di Ottawa.

Poi fu la polizia italiana ad aggiungere un altro pezzo alla storia. Riferì ai francesi che nei propri archivi aveva una copia del passaporto di Hassan Diab: l’originale, poi fotocopiato e conservato, era stato trovato tra i documenti di viaggio di un uomo che era stato fermato l’8 ottobre del 1981 all’aeroporto di Roma e che proveniva da Beirut. L’uomo era stato identificato come un importante funzionario del FPLP-OS e trattenuto per questo in Italia per otto giorni. All’interno del passaporto che aveva con sé e che riportava il nome di Hassan Diab erano presenti diversi visti ed era segnato un ingresso in Spagna, paese da cui sarebbero partiti gli attentatori, datato 20 settembre 1980. La data di uscita era il 7 ottobre: le date coincidevano con l’attentato in rue Copernic.

Per gli investigatori francesi la presunta presenza di Hassan Diab in Europa in quel periodo costituisce una prova del suo coinvolgimento nell’attentato.

L’indagine riprese nel 2007 quando del caso cominciò a occuparsi il giudice Marc Trévidic, esperto di antiterrorismo. Trévidic fece eseguire due perizie calligrafiche: da una risultavano similitudini tra il modulo compilato all’hotel Celtic per la registrazione da Alexander Panadriyu, poi identificato dai servizi segreti tedeschi come Hassan Diab, e la grafia dello stesso Diab. L’altra perizia non le escludeva.

Il giudice, che andò anche a Beirut, scoprì che Diab aveva fatto richiesta di un passaporto alle autorità libanesi nel maggio del 1983 (poco meno di tre anni dopo l’attentato), dichiarando di aver perso il suo vecchio documento nell’aprile 1981. Il giudice riuscì a ottenere il verbale di dichiarazione di smarrimento, datato 17 maggio del 1983: il poliziotto libanese che l’aveva redatto riferì che l’uomo che aveva fatto la denuncia aveva detto che il passaporto gli era caduto dalla moto nell’aprile del 1981. Tuttavia, da aprile a ottobre del 1981, giorno in cui quel passaporto originale era stato sequestrato per qualche giorno dalla polizia italiana, il passaporto era munito di visti: chi lo aveva eventualmente recuperato aveva insomma viaggiato senza preoccuparsi di cambiare foto.

«Difficile da credere. Strano anche il ritardo di due anni e mezzo impiegato per dichiararne lo smarrimento», ha commentato Le Monde in un articolo di ricostruzione. Fino a quel momento, Diab non era mai stato ascoltato né incriminato.

Nel novembre del 2008 Marc Trévidic emise un mandato d’arresto internazionale contro Hassan Diab. Quest’ultimo negò le accuse parlando anche di una possibile omonimia. Dopo sei anni di richieste, ricorsi e contro ricorsi, la giustizia canadese, sebbene avesse definito il caso come «debole» per la presenza di prove «confuse, molto contorte e dalle conclusioni sospette», decise di estradare Diab in Francia: l’estradizione si verificò il 15 novembre del 2014. Una volta arrivato in territorio francese fu portato in un carcere di massima sicurezza in cui rimase per 38 mesi, quasi sempre in regime di isolamento.

Diab decise di cominciare a parlare nel gennaio del 2016. Nel frattempo il giudice Trévidic era stato sostituito dai giudici Jean-Marc Herbaut e Richard Foltzer. Diab ha sempre detto di non essersi trovato a Parigi durante l’attacco e di essere stato invece a Beirut per dare degli esami all’università. Ha anche sostenuto di non essere stato attivo in alcun movimento politico palestinese, versione confermata da diversi parenti, tra cui l’ex moglie, ma smentita da un testimone, Youssef El-K., che aveva studiato e poi lavorato con Diab. Quanto al passaporto, Diab disse di ricordare di averlo perso poco prima dell’attentato.

A questo punto, vi fu un’altra svolta. I servizi segreti israeliani inviarono una nota ai giudici francesi in cui, senza molte altre spiegazioni, identificavano Diab come autore dell’attentato. Questo intervento creò confusione nelle indagini e in un certo senso finì per essere favorevole a Diab, il quale cominciò a sostenere che tutte le informazioni provenienti dai servizi segreti esteri avessero in realtà come fonte proprio il governo israeliano. Si fecero avanti anche nuovi testimoni che affermarono di ricordare la presenza di Diab durante la sessione d’esame dell’autunno del 1980 all’università di Beirut. Vennero organizzate varie manifestazioni per appoggiarlo, soprattutto in Canada, sostenute anche da Amnesty International.

Il 12 gennaio del 2018, mentre Diab si trovava ancora in carcere, i giudici emisero un’ordinanza di archiviazione: nonostante la mole del fascicolo, secondo loro nulla permetteva di determinare con certezza la presenza di Diab a Parigi all’epoca dei fatti. I vari elementi presentati poi dai diversi servizi segreti sul caso (e che, negli anni, furono anche il motivo per cui le indagini vennero riprese) sebbene descrivessero nei dettagli il modo in cui l’attacco alla sinagoga era stato concepito, preparato, organizzato e realizzato erano, per i giudici, «piene di contraddizioni e di imprecisioni (…), il che getta dubbio sulla loro attendibilità». Una nuova perizia calligrafica diceva poi che la prima ricerca era del tutto inaffidabile a causa dell’uso di una «metodologia scientificamente inadeguata per valutare somiglianze e differenze». La sera stessa Hassan Diab venne rilasciato dalla custodia cautelare e tornò in Canada.

Nel gennaio 2021 la corte d’Appello di Parigi respinse l’archiviazione e sei mesi dopo la Cassazione confermò ordinando un processo, che comincia oggi a Parigi. William Bourdon, avvocato di Diab, ha detto di comprendere «la pretesa» delle parti civili «di trovare a tutti i costi un colpevole», ma ha aggiunto che «il caso si sarebbe dovuto concludere al momento dell’ordinanza di archiviazione», un’ordinanza «estremamente motivata» sul fatto che non esistessero accuse «sufficientemente probanti» per rinviare Diab a giudizio.

Amnesty International ritiene che le accuse contro Hassan Diab siano infondate e che sarebbe invece necessario impiegare forza e tempo nella ricerca del vero colpevole per l’attacco di rue Copernic. Denuncia il fatto che, dopo l’estradizione in Francia del 2014, Diab non abbia potuto avere «un processo equo e tempestivo», che sia stato detenuto senza processo per 38 mesi e tenuto in isolamento prolungato per quasi tutto il tempo in violazione delle Regole delle Nazioni Unite sullo standard minimo per il trattamento dei prigionieri (le cosiddette Regole Mandela). Amnesty sottolinea poi che diversi tribunali canadesi, così come il tribunale francese che aveva chiesto l’archiviazione del caso, abbiano fatto notare l’assenza di prove affidabili a sostegno dell’accusa.

In caso di condanna Diab rischia l’ergastolo e potrebbe essere fatta nei suoi confronti una nuova richiesta di estradizione, senza alcuna certezza sul suo esito. La sentenza è attesa per il 21 aprile.