• Mondo
  • Lunedì 27 marzo 2023

La riforma della giustizia contro cui si protesta in Israele, spiegata bene

Riduce i poteri della Corte suprema e del sistema giudiziario a favore del governo, e secondo i critici è un pericolo per la democrazia

(AP Photo/Ariel Schalit)
(AP Photo/Ariel Schalit)
Caricamento player

Da mesi in Israele varie componenti della società si scontrano sulla riforma del sistema giudiziario proposta dal governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, il più di destra della storia del paese. I manifestanti sostengono che la riforma, che toglie poteri di controllo alla Corte suprema per affidarli al governo, sia un pericolo per la democrazia israeliana, perché di fatto elimina ogni contrappeso al potere del governo in carica. Il governo e i suoi sostenitori, al contrario, sostengono che la riforma sia un necessario ribilanciamento dei poteri dello stato, che negli ultimi decenni avrebbero favorito eccessivamente il potere giudiziario, e in particolare avrebbero amplificato troppo la capacità d’intervento della Corte suprema in diversi ambiti.

Oltre a indebolire la Corte suprema, la riforma darebbe maggiori garanzie alla figura del primo ministro (che non rischierebbe più di essere rimosso a causa dei procedimenti giudiziari a suo carico) e affiderebbe alcuni poteri ai tribunali rabbinici (cioè i tribunali religiosi ebraici), che potrebbero dirimere certi procedimenti civili nel caso in cui entrambe le parti fossero d’accordo.

La riforma è stata presentata dal ministro della Giustizia Yariv Levin, e all’interno del governo è sostenuta sia dai partiti della destra nazionalista laica, come il Likud di Netanyahu e dello stesso Levin, sia dai partiti ultraortodossi. È composta da una serie di disegni di legge separati tra loro che devono essere approvati tre volte ciascuno dalla Knesset (il parlamento israeliano) per diventare legge. Alcuni di questi sono in fase di approvazione, e alcuni sono già stati approvati. Il grosso della riforma, però, può ancora essere ritirato dal governo, come chiede l’opposizione.

L’unica parte della riforma a essere già stata approvata in via definitiva è una legge che impedisce al procuratore generale (che nel sistema israeliano è una figura indipendente, pur essendo nominato dal governo) di dichiarare «inadeguato» un primo ministro in carica nel caso in cui violi lo stato di diritto o non possa proseguire nel suo mandato per ragioni psicologiche o fisiche. Netanyahu sta affrontando attualmente tre diversi processi per corruzione, e nel 2020 aveva fatto un accordo con il procuratore generale e con la Corte suprema in cui prometteva che da primo ministro non avrebbe interferito sull’andamento dei suoi processi. Dopo l’approvazione della legge, Netanyahu non potrà più essere rimosso anche se violerà palesemente questo accordo, come sembra voler fare.

Sia la destra nazionalista del Likud sia i partiti ultraortodossi (cioè le due componenti del governo) hanno ragioni per essere scontenti delle decisioni della Corte suprema.

Netanyahu in questo momento è sotto processo per corruzione e altri reati, e ritiene che le accuse contro di lui siano politicamente motivate. Gli ultraortodossi invece accusano la Corte di limitare le loro libertà religiose, perché negli anni avrebbe cercato di limitare le numerose esenzioni e i privilegi di cui godono. Per esempio, il servizio militare è obbligatorio per tutti i cittadini israeliani, maschi e femmine, ma non per gli ultraortodossi. Alcuni partiti dell’estrema destra, inoltre, temono che la Corte suprema si opponga ai loro progetti di espandere gli insediamenti dei cosiddetti coloni in Cisgiordania, un territorio che agli occhi della comunità internazionale appartiene ai palestinesi.

– Leggi anche: Cosa sono la Cisgiordania e le colonie israeliane

Corte suprema e Leggi fondamentali
La Corte suprema ha un ruolo eccezionalmente importante nella vita politica di Israele perché il paese non ha una Costituzione (ha tuttavia una serie di Leggi fondamentali che sanciscono i diritti individuali e le relazioni tra cittadini e stato) e ha pochi contrappesi al potere del governo in carica al momento. Per esempio il parlamento è unicamerale, cosa che impedisce la dialettica tra camera alta e camera bassa che esiste in molte democrazie, e il presidente di Israele ha ancora meno poteri che negli altri sistemi parlamentari: non può mettere il veto alle leggi approvate dal parlamento e non può “rimandare una legge alle camere”, come può fare in alcune occasioni particolari il presidente della Repubblica italiana, che pur ha poteri limitati.

Per questo soprattutto a partire dagli anni Novanta (anche grazie a una serie di riforme giudiziarie approvate al tempo proprio dal Likud) la Corte suprema israeliana ha assunto il ruolo di principale contrappeso al potere esecutivo, con una serie di sentenze che le hanno dato il potere di abolire qualunque legge approvata dalla Knesset, cioè il parlamento israeliano. Attualmente, la Corte suprema non si limita ad abolire le leggi che sono contrarie alle Leggi fondamentali, come fa per esempio la Corte costituzionale italiana, ma ha un potere molto ampio di revisione della legislazione, entro alcuni criteri.

Questo potere, inoltre, si estende ai provvedimenti amministrativi del governo e degli altri enti sulla base della cosiddetta “clausola di ragionevolezza”: se i giudici della Corte suprema ritengono che un provvedimento amministrativo sia in qualche modo “irragionevole”, lo possono abolire senza che il parlamento possa fare niente per intervenire. È successo anche a gennaio, quando la Corte ha fatto dimettere dal suo incarico da ministro Arye Dery, il leader del partito ultraortodosso Shas che era stato nominato da Netanyahu ministro dell’Interno e della Salute. Nel gennaio del 2022 Dery era stato processato per evasione fiscale, ed era riuscito a evitare una condanna (che probabilmente avrebbe compreso un’interdizione dai pubblici uffici per 7 anni) grazie a un patteggiamento con sospensione della pena. Allora, Dery aveva fatto credere al tribunale che lo stava giudicando che si sarebbe ritirato dalla vita pubblica, ma non è avvenuto.

Per questo, la Corte suprema ha usato la “clausola di ragionevolezza” e ha decretato che fosse «estremamente irragionevole» che Dery mantenesse il suo posto al governo. Il ministro si è dimesso qualche giorno dopo.

La riforma
Semplificando alcuni passaggi, la proposta di riforma del sistema giudiziario voluta dal governo ha due elementi principali.

Il primo elemento è un profondo cambiamento delle modalità di nomina dei giudici. Attualmente tutti i giudici del paese, sia quelli della Corte suprema sia quelli delle corti inferiori, sono selezionati da una commissione composta da nove membri di cui soltanto quattro, cioè la minoranza, sono scelti dal governo (i membri della commissione sono: tre giudici della Corte suprema stessa, due rappresentanti dell’associazione forense israeliana, due membri del parlamento e due ministri del governo: già adesso comunque la Corte non è isolata dalla politica, e la maggior parte dei giudici ha tendenze conservatrici). Il governo vorrebbe portare a 11 i membri della commissione che seleziona i nuovi giudici, e portare a otto i membri di nomina politica. In questo modo, il governo avrebbe il dominio totale delle nomine, sia dei giudici della Corte suprema sia dei giudici delle corti inferiori.

Il secondo elemento importante della riforma colpisce il potere della Corte di abolire le leggi approvate dal parlamento. Anzitutto, il governo vorrebbe eliminare la “clausola di ragionevolezza”, lasciando alla Corte suprema il compito di esaminare esclusivamente se una legge è aderente o meno ai princìpi espressi dalle Leggi fondamentali.

Il governo Netanyahu vorrebbe poi indebolire anche questo potere residuo, dando al parlamento la facoltà di annullare le decisioni della Corte suprema. Funzionerebbe così: se la Corte suprema decide di annullare una legge approvata dal parlamento, il parlamento può votare di nuovo per ignorare la decisione della Corte suprema e mantenere la validità della legge. Basta un voto a maggioranza semplice e la sentenza della Corte suprema può essere ignorata.

È stata in particolare quest’ultima proposta ad avere preoccupato l’opposizione e parte della società civile, che ritengono che in questo modo la Corte suprema finirebbe assoggettata al controllo politico. Questo, dicono i critici, sarebbe un danno enorme per la democrazia in Israele.

Cosa se ne dice
Non soltanto l’opposizione è contraria alla riforma del sistema giudiziario del governo di Netanyahu, ma la maggior parte degli esperti legali ritiene che la legge sia un potenziale pericolo per la democrazia. Di recente anche il presidente di Israele, Isaac Herzog, ha detto che la riforma provoca «gravi preoccupazioni per gli impatti negativi sulle fondamenta democratiche dello stato di Israele» e ha chiesto che le forze politiche facciano una pausa nei lavori parlamentari per consentire una più ampia discussione all’interno della società su come riformare la giustizia nel paese. Le forze politiche di governo però l’hanno ignorato, e il percorso legislativo della riforma sta proseguendo.

Che in questo momento la Corte suprema israeliana abbia poteri probabilmente eccessivi e che abbia un ruolo molto interventista nella vita politica del paese è una considerazione condivisa non soltanto dalla destra nazionalista e dagli ultraortodossi al governo, ma anche dalle forze di centro e di sinistra che compongono l’opposizione. La gran parte delle forze politiche in Israele ritiene che attualmente ci sia uno squilibrio di poteri che favorisce il sistema giudiziario.

Il problema, dicono i critici, è che la soluzione proposta dal governo di Netanyahu finirebbe per creare un nuovo squilibrio, potenzialmente più pericoloso: da un sistema in cui la Corte suprema ha troppi poteri si passerebbe a un sistema in cui la maggioranza al governo è decisamente dominante, e soprattutto non avrebbe più nessun limite e contrappeso. Se fosse approvata la riforma, una volta che il parlamento ha approvato una legge non ci sarebbe più nessun organo superiore che ne sorveglia l’operato e che, eventualmente, abbia il potere di correggere gli errori e le storture, come avviene nella maggior parte dei sistemi democratici.