Senza una legge sul fine vita

Il suicidio assistito è legale in Italia grazie a una sentenza, non a una legge: cosa succede a un diritto quando non esistono delle norme chiare a garantirlo?

di Alessandra Pellegrini De Luca

Fermo immagine della campagna per
l'eutanasia legale promossa dall'associazione Luca Coscioni (ANSA/YOUTUBE)
Fermo immagine della campagna per l'eutanasia legale promossa dall'associazione Luca Coscioni (ANSA/YOUTUBE)
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In Italia il suicidio assistito, cioè la possibilità di auto-somministrarsi un farmaco letale a determinate condizioni, è legale non grazie a una legge del parlamento, che non è mai stata approvata, ma dopo una storica sentenza della Corte Costituzionale del 2019, arrivata dopo anni di iniziative, appelli e infine di disobbedienze civili in cui si chiedeva più libertà sulle scelte individuali di fine vita.

Non essendo una legge, però, la sentenza stabilisce quando il suicidio assistito non è punibile, ma non dà indicazioni chiare su tempi e modalità di attuazione: la Corte ha chiesto al parlamento in più occasioni di intervenire e approvare una norma, finora senza successo. C’è una proposta ferma al Senato (ritenuta da molti comunque molto inadeguata), e nel frattempo ogni caso è affidato volta per volta alla gestione delle singole aziende sanitarie locali. Proprio per questo, in otto regioni italiane è iniziata o sta per iniziare la raccolta firme per una proposta di legge regionale promossa dall’associazione Luca Coscioni.

L’assenza di una legge ha avuto conseguenze enormi per chi negli ultimi anni voleva ricorrere al suicidio assistito (non ci sono dati esatti: i casi noti sono quelli che ha seguito l’associazione Luca Coscioni, che tra le altre cose offre informazioni, aiuto e assistenza legale a chi intraprende questa strada). C’è chi è morto prima di riuscire ad accedervi, dopo sofferenze intense, chi ha dovuto intraprendere una lunga battaglia legale e chi alla fine ha scelto di andare all’estero. Oggi, tra i casi noti, c’è solo una persona ancora viva in Italia che ha ottenuto l’accesso alla morte assistita senza dover attraversare una lunga vicenda giudiziaria: Stefano Gheller.

Gheller è un uomo di 49 anni affetto dalla nascita da una forma grave di distrofia muscolare: da quando aveva 15 anni utilizza una carrozzina, ha un respiratore 24 ore su 24, non può usare le braccia salvo per piccoli movimenti come muovere un mouse o il joystick della carrozzina, non può mangiare e bere da solo e ha difficoltà a parlare, oltre a dolori posturali dovuti alla sua condizione.

Pur avendo ottenuto l’autorizzazione, Gheller ha deciso di aspettare e di ricorrere alla morte assistita più avanti, quando riterrà le proprie condizioni non più sopportabili. Raccontando la sua scelta, ha detto una cosa che lui e altre persone coinvolte in questo tema ripetono spesso: la volontà di ricorrere al suicidio assistito non ha nulla a che fare con il proprio attaccamento alla vita – un tratto che accomuna molte persone che in questi anni hanno reso pubblica la propria storia – ma riguarda l’affermazione della propria libertà di scelta sulla fine della propria vita. 

«Per adesso cerco di farmi forza e di andare avanti, ho una sorella a cui voglio molto bene e a cui voglio stare vicino il più possibile e diversi piani per il futuro: ma mi sono tolto un grosso peso, sapendo che ho questa possibilità», ha raccontato Gheller, che il prossimo maggio si candiderà come consigliere comunale a Vicenza insieme al sindaco uscente di centrodestra Francesco Rucco. Gheller ha detto di aver deciso di aspettare anche perché gode di un’adeguata assistenza sanitaria da parte dello stato: «avere gli strumenti e le risorse economiche per avere una vita dignitosa è un altro elemento molto determinante in questo tipo di scelta».

Il caso di Gheller è stato gestito dall’azienda sanitaria locale veneta ULSS 7 Pedemontana, che pur in assenza di una legge è riuscita comunque a garantirgli questo diritto in tempi relativamente rapidi, circa tre mesi e mezzo (comunque più del limite di 20 giorni previsto dalla proposta di legge regionale su cui si stanno raccogliendo le firme). È ciò che avrebbero dovuto fare le altre strutture sanitarie locali e che la legge, se ci fosse, dovrebbe garantire.

Filomena Gallo, avvocata e segretaria nazionale dell’associazione Luca Coscioni, che ha seguito diverse richieste di morte assistita finora, ha spiegato che «chi oggi in Italia vuole ricorrere al suicidio assistito deve contattare la propria ASL di riferimento e inviare una richiesta di verifica delle proprie condizioni, come previsto dalla sentenza 242 della Corte Costituzionale: per farlo, con l’associazione Luca Coscioni abbiamo predisposto una bozza che è disponibile su richiesta».

Le condizioni che l’ASL deve verificare sono proprio i quattro requisiti stabiliti dalla sentenza Cappato: il fatto che la persona che fa richiesta sia in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, che sia affetta da una patologia irreversibile che sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ritiene intollerabili (un criterio estremamente soggettivo e individuale), e che sia «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale». Per esempio da un ventilatore o da un respiratore meccanico, anche se un’importante sentenza ha esteso questa definizione anche ad altri trattamenti sanitari, per esempio farmacologici, che se interrotti possono portare alla morte del paziente. Perché la richiesta possa essere approvata, questi quattro requisiti devono esistere tutti insieme.

Su chi e come debba verificare questi requisiti la sentenza della Corte Costituzionale è molto chiara: deve farlo una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, attraverso i suoi medici, con un parere del comitato etico territorialmente competente.

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Il primo problema affrontato da chi finora ha fatto richiesta di suicidio assistito si è verificato già in questa primissima fase: in almeno tre casi, l’ASL locale ha respinto la richiesta senza nemmeno verificare le condizioni del malato.

«È stato il caso di Daniela, la prima persona a fare richiesta per il suicidio assistito», ha spiegato Gallo. Daniela era una donna di 37 anni affetta da un tumore incurabile in fase terminale: a febbraio del 2021 aveva fatto chiesto alla propria ASL di verificare le sue condizioni per poter accedere al suicidio assistito.

L’ASL si era rifiutata di farlo sostenendo, solo su base documentale, che non fosse tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (come detto, il concetto stesso di «trattamento di sostegno vitale» può essere esteso a trattamenti anche farmacologici senza i quali il paziente morirebbe). Daniela aveva fatto ricorso al tribunale di Roma chiedendo la piena attuazione della sentenza della Corte Costituzionale e la verifica dei requisiti, ma era morta due settimane prima della prima udienza fissata.

In altri due casi l’ASL si è rifiutata di verificare i requisiti della persona malata: quello di Federico Carboni, fino alla sua morte noto come Mario, e di Antonio, due uomini marchigiani diventati tetraplegici a causa di due incidenti stradali. Carboni è stato la prima persona a ricorrere legalmente al suicidio assistito in Italia, ma ci è riuscito solo dopo una vicenda legale durata quasi due anni. Lo stesso vale per Antonio, che a differenza di Carboni, e come Gheller, ha deciso di attendere ad attuare la morte medicalmente assistita.

In questi due casi l’azienda sanitaria locale (l’allora ASUR Marche) aveva motivato il rifiuto a procedere proprio con la mancanza di una legge. Nel caso di Carboni lo aveva fatto direttamente l’azienda sanitaria, che aveva detto di non poter procedere su una questione «delicatissima e complessa» di questo tipo senza una legge di riferimento. Nel caso di Antonio lo aveva fatto il comitato etico, che aveva sostenuto di non essere nelle condizioni di esprimersi sul caso senza una legge di riferimento.

Secondo Filomena Gallo, «la risposta dell’azienda sanitaria delle Marche ha violato la sentenza della Corte costituzionale, che è efficace dal giorno successivo alla sua pubblicazione ed immediatamente applicativa», e che dichiarando incostituzionale la punibilità dell’aiuto al suicidio in determinati casi dice chiaramente che questi casi devono essere verificati da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale.

Su queste basi, sia Carboni che Antonio si erano quindi rivolti a un tribunale (nel caso di Antonio dopo una serie di diffide, esposti e appelli pubblici inascoltati), per chiedere la verifica delle proprie condizioni, e in entrambi i casi il tribunale aveva ordinato all’azienda sanitaria di attuarla. Nel caso di Carboni dopo un’ulteriore vicenda giudiziaria, in cui il ricorso venne prima respinto e poi accolto da una seconda sentenza, e che l’esistenza di una legge avrebbe potuto evitare.

Nonostante la sentenza, però, nel suo caso l’azienda sanitaria non si mosse, e Carboni, un uomo tetraplegico da oltre 10 anni, impossibilitato quasi completamente a muoversi e costantemente affetto da dolori molto forti, fu costretto a inviare una diffida per chiedere l’attuazione della sentenza e la verifica di requisiti.

Concretamente la verifica delle condizioni del malato consiste in una serie di colloqui a casa della persona malata, di visite, esami e accertamenti fatti da una commissione multidisciplinare, e a carico del servizio sanitario nazionale. La proposta di legge regionale su cui si stanno raccogliendo le firme prevede una commissione permanente formata da un medico palliativista, un neurologo, uno psichiatra, un anestesista, un infermiere e uno psicologo, da integrare eventualmente volta per volta con altre figure a seconda del singolo caso.

La verifica include sia una valutazione clinica sulla diagnosi, l’irreversibilità della patologia e la presenza di trattamenti di sostegno vitale, sia una valutazione psichica sull’intollerabilità della sofferenza e sulla piena capacità del paziente di intendere e volere e sul suo livello di determinazione. Questo tipo di valutazione include colloqui, prove, test verbali e non verbali per valutare il funzionamento cognitivo della persona, oltre a valutazioni sulla sua condizione psichiatrica (qui è consultabile nel dettaglio un esempio di verifica fatta).

Gheller ha raccontato che i membri della commissione sono andati fisicamente a casa sua in più occasioni, tra colloqui, esami e accertamenti da fare. Nel suo caso, per esempio, si erano resi necessari alcuni studi di approfondimento genetici che mancavano nella documentazione iniziale per la diagnosi esatta della sua patologia, la distrofia facio-scapolo-omerale.

Antonio Di Caprio, direttore sanitario dell’ASL di riferimento, ha detto che il lavoro da fare è stato «enorme, svolto con grande impegno e dedizione», ma che anche in mancanza di una legge che indicasse tempi definiti lui e i suoi collaboratori hanno cercato di fare il possibile per garantire questo diritto in tempi rapidi, «basandoci su ciò che era indicato nella sentenza della Corte Costituzionale». Il membro della commissione medica che aveva il compito di verificare l’irreversibilità della patologia di Gheller, e che ha preferito restare anonimo, ha detto: «sono un medico, lavoro per le persone: penso semplicemente che non sia etico complicare loro la vita in un momento in cui sono estremamente vulnerabili».

Ascoltando le persone coinvolte nel caso di Gheller, l’impressione è che le cose abbiano funzionato più che altro sulla base della buona volontà del personale medico coinvolto, che a sua volta, per elaborare una procedura operativa in mancanza di una legge, ha detto di essersi rivolto proprio all’associazione Luca Coscioni per sapere come procedere, e si era basato anche sui fallimenti e i problemi dei casi precedenti, che erano andati molto diversamente.

Sia nel caso di Carboni che di Antonio, infatti, la verifica fu fatta, la richiesta di morte assistita venne approvata perché sussistevano tutti i requisiti, ma l’azienda e il comitato etico non indicarono il tipo di farmaco e la sua modalità di somministrazione. È un passaggio fondamentale della procedura, quello che dà le indicazioni pratiche su come attuare la morte assistita e che una legge dovrebbe indicare con chiarezza.

In almeno un caso, dopo la mancata indicazione del farmaco e della sua somministrazione, la persona che ne aveva fatto richiesta ha abbandonato la sua battaglia legale e ha deciso di morire in altro modo: è stato il caso di Fabio Ridolfi, che dopo ritardi e ostruzionismi aveva deciso di accedere alla sedazione profonda (cioè venire addormentati fino all’eventuale perdita di coscienza, pur rimanendo in grado di respirare autonomamente), a seguito della quale era poi morto: «I parenti di Ridolfi raccontavano degli spasmi e dello strazio a cui era stato portato: era esattamente quello che avrebbe voluto evitare», ha detto Gallo.

Carboni, invece, aveva insistito: nonostante le sue condizioni fisiche, aveva denunciato l’azienda sanitaria regionale per tortura e per omissione di atti di ufficio, ricevendo infine, mesi dopo, le indicazioni sul tipo di farmaco e sulle sue modalità di somministrazione, decise da una commissione composta da due direttori di Unità operativa complessa (Anestesia e Rianimazione e Medicina legale), due direttori di Unità operative semplici dipartimentali (Cure palliative e Farmacia), un ordinario di Farmacologia e un dirigente dell’ASUR.

Il farmaco per la morte assistita, ha spiegato Gallo, «non è in vendita in farmacia, e dovrebbe essere fornito dall’azienda ospedaliera». Secondo lei e altri membri dell’associazione Luca Coscioni il tipo di farmaco va valutato caso per caso, a seconda della specifica situazione del paziente. Ma il criterio generale – sia nella sentenza Cappato che nella proposta di legge regionale – è che sia in grado di garantire una morte rapida, indolore e dignitosa.

Nel caso di Carboni, la commissione decise per una dose non inferiore a 3-5 grammi di tiopentone sodico – un barbiturico che in dosi minori viene usato per esempio per le anestesie – che Carboni avrebbe dovuto auto-somministrarsi in vena con un apposito macchinario, in cui avrebbe dovuto premere un tasto per effettuare l’iniezione.

Può sembrare assurdo, ma le cose non finirono qui: Carboni dovette personalmente farsi carico del farmaco, di trovare un medico che glielo prescrivesse e del macchinario. Tutte queste cose dovrebbero essere garantite dal servizio sanitario nazionale, come detto anche dall’allora ministro della Salute Roberto Speranza partendo proprio dal caso di Carboni: ma senza una legge che regoli con precisione tempi e modalità anche burocratiche del ricorso al suicidio assistito, i tempi si sarebbero ulteriormente allungati: «a quel punto Carboni non ha voluto fare altre richieste e ha deciso di procedere privatamente, e più velocemente», ha spiegato Gallo.

L’associazione Luca Coscioni aveva quindi organizzato una raccolta fondi pubblica, in seguito alla quale era stato possibile acquistare il farmaco e il macchinario. Come medico per la prescrizione si era reso disponibile gratuitamente Mario Riccio, il medico anestesista che nel 2006 permise a Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, di morire interrompendo il trattamento sanitario che lo teneva in vita.

Carboni è morto alle 11:05 del 16 giugno 2022, in casa propria (la morte assistita può essere effettuata anche in casa propria, oltre che in una struttura sanitaria). Con lui c’era la sua famiglia, alcuni amici, oltre a Marco Cappato, Filomena Gallo e una parte del suo collegio legale. Le sue ultime parole sono state: «Con l’associazione Luca Coscioni ci siamo difesi attaccando e abbiamo attaccato difendendoci, abbiamo fatto giurisprudenza e un pezzetto di storia nel nostro paese e sono orgoglioso e onorato di essere stato al vostro fianco. Ora finalmente sono libero di volare dove voglio».

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