• Moda
  • Lunedì 13 febbraio 2023

Qualcuno inizia a ripensarci sui loghi “piatti”

Dopo anni in cui le aziende hanno semplificato la propria immagine ricorrendo a font più puliti ed essenziali, Burberry ha rispolverato le grazie

Questa settimana l’azienda di moda inglese Burberry ha presentato un nuovo logo, un’iniziativa parte della trasformazione del marchio cominciata quando, lo scorso settembre, il designer Daniel Lee aveva preso il posto di Riccardo Tisci come direttore creativo. Il nuovo logo rappresenta un ritorno alla tradizione per l’azienda, che nel 2018 aveva cambiato radicalmente aspetto, abbandonando lo storico emblema del cavaliere a cavallo per un design minimale e l’utilizzo di un carattere (o font) senza grazie. Questo tipo di caratteri è anche detto bastone e non presenta gli allungamenti e le decorazioni alle estremità delle lettere, tipiche dei cosiddetti graziati, tra i quali rientra invece quello scelto per il logo presentato in questi giorni.

 

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Per spiegare la differenza tra le due famiglie di font si possono prendere ad esempio caratteri molto utilizzati come il Georgia, cioè quello che state leggendo, e l’Arial: il primo presenta delle grazie e appartiene alla stessa famiglia del Garamond, altro font graziato che è quello in cui vengono pubblicati quasi tutti i libri italiani; mentre il secondo è sans serif, ovvero senza grazie e allungamenti di sorta, come anche Helvetica.

Il rebranding di Burberry del 2018 era stato opera del grafico inglese Peter Saville, che l’anno prima aveva realizzato un progetto simile per Calvin Klein, di cui aveva semplificato il logo con l’utilizzo di un carattere bastone tutto maiuscolo. Il suo lavoro può essere inserito in una tendenza estetica che interessa da tempo i loghi di aziende d’ogni tipo, da quelle dell’alta moda alle società tecnologiche della Silicon Valley, che hanno spesso cambiato aspetto preferendo forme meno complesse, dirette e un design che in inglese viene definito flat ovvero “piatto”. Saville ha spiegato alla rivista Bloomberg che loghi simili – in grassetto e maiuscolo, con carattere bastone – «sembrano esistere da sempre ma sono comunque contemporanei».

 

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Una delle operazioni che hanno fatto scuola in questo senso è stato l’ambizioso cambiamento che ha riguardato la casa di moda francese Yves Saint Laurent nel 2012, quando abbandonò lo storico logo in favore di un aspetto molto più semplice (e perdendo anche un terzo del nome, diventato Saint Laurent).

Sono passati poco più di dieci anni dal rebranding di Saint Laurent. Da allora, decine di aziende famose hanno cambiato logo (e quella che viene definita “immagine coordinata”, il modo in cui un’azienda comunica e si promuove, anche graficamente) seguendo questa strada. A inizio 2015 Google presentò il suo nuovo logo, scegliendo un carattere senza grazie e più tondeggiante del vecchio logo dell’azienda, sulla linea di quanto fatto tre anni prima da Microsoft, passata dallo storico marchio in corsivo, con piccoli tagli sulla O e la S (pensati dal grafico Scott Baker per suggerire un senso di dinamicità) a una soluzione più radicale. Niente corsivo, carattere bastone senza alcuna modifica o stranezza; a margine, un logo composto da quattro quadrati con i quattro colori della nuova immagine coordinata.

Il successo dei caratteri sans serif è stato spiegato con una maggiore chiarezza e facilità di lettura, specie su schermo e su immagini di dimensioni ridotte. La semplicità di questi loghi vorrebbe anche veicolare una maggiore affidabilità delle aziende a cui si riferiscono, alle quali non interessa distinguersi per una scelta estetica ma per la loro funzionalità e utilità nel quotidiano. Quest’ultimo punto è di particolare importanza per le aziende del settore digitale e tecnologico, che da piccole startup diventano società di rilevanza globale, spingendole ad adottare un’immagine più affidabile e, appunto, piatta. È quello che è successo a Spotify, Airbnb e Pinterest, per esempio.

La moda del “flat design” è stata anche una risposta a una corrente grafica opposta, diffusa nei primi anni Duemila, che si rifaceva allo scheumorfismo, un termine che indica in generale un qualsiasi oggetto che per forma, aspetto o dettagli ornamentali richiami un altro oggetto, familiare in un’altra epoca o in un altro contesto. Un caso di scheumorfismo sono le icone delle app nelle prime versione di iOS, il sistema operativo di iPhone: quella di YouTube (all’epoca un’app preinstallata nel dispositivo) mostrava un vecchio televisore a tubo catodico, mentre quella di iBooks aveva l’aspetto di una libreria, sui cui scaffali venivano mostrati gli e-book dell’utente.

– Leggi anche: Le forme e gli oggetti che ci portiamo dietro nonostante il progresso

Nel 2013, in occasione dell’uscita di iOS7, Apple ha cambiato drasticamente approccio, abbandonando lo scheumorfismo in favore di una grafica piatta e meno metaforica. All’epoca, la BBC scrisse che «invece del finto legno e della finta pelle, negli ultimi anni è emerso uno stile visuale» del tutto nuovo, inizialmente sperimentato da Microsoft per il sistema operativo di Windows Phone, in cui l’interfaccia era piatta, modulare e senza alcun richiamo al mondo reale.

L’abbandono dello scheumorfismo nella progettazione delle interfacce dei sistemi operativi ha influenzato anche l’aspetto grafico delle stesse aziende che li producevano. Come ha notato la rivista Esquire, «Microsoft, Google e Spotify hanno creato la tendenza, e il lusso l’ha seguita».

Secondo alcuni, però, l’omologazione a uno stile tanto asciutto e minimale ha finito per avere pesanti conseguenze sull’estetica aziendale a tutti i livelli: quello che era iniziato come un eccentrico approccio alla grafica e alla progettazione di interfacce è diventata l’opzione preferita da qualunque società o istituzione fosse alla ricerca di una nuova identità. I risultati non sono sempre stati positivi, come dimostra il recente caso di Kia, azienda automobilistica il cui nuovo logo risulta scarsamente leggibile a molte persone, o della Oxford University Press (casa editrice dell’università inglese), che nel 2021 ha presentato un logo molto criticato da chi lo ritiene piuttosto anonimo.

Il risultato finale di questo processo è che un grande numero di loghi risulta oggi poco distinguibile l’uno dall’altro, in quella che Esquire ha definito «la Helvetificazione della moda», in riferimento proprio a Helvetica, font spesso sovrautilizzato nel design grafico. È anche per questo che il logo appena presentato da Burberry ha fatto discutere nell’ambiente, andando contro una tendenza decennale che predicava esattamente il contrario di quanto deciso dall’azienda inglese, tornata a un font con grazie e a un logo complesso e intricato.