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  • Giovedì 22 ottobre 2015

Perché tutti i libri italiani sono in Garamond

La storia del carattere tipografico inventato nel Cinquecento che col passare del tempo è diventato lo standard dell'editoria

di Giacomo Papi

(Il Post)
(Il Post)

Quasi tutti i libri italiani sono in Garamond, anzi, per essere più precisi, in Simoncini Garamond, un carattere disegnato da un tipografo francese nel Cinquecento – Claude Garamond – e rimaneggiato da un tipografo bolognese nel 1958 – Francesco Simoncini. Significa che se i libri italiani fossero nudi, senza copertine, sarebbe impossibile distinguere tra i vari editori se non sulla base della gabbia (il rettangolo di testo sulla pagina) e della carta. Una serie di libri presi a caso e fatti esaminare da un esperto ha dato il seguente risultato: in caratteri Simoncini Garamond sono i libri Bompiani, Sellerio, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Feltrinelli, Salani, Longanesi, Guanda, Saggiatore, Nottetempo e Iperborea.

Il carattere dei libri Einaudi, invece, si chiama Einaudi Garamond, perché fu commissionato da Giulio Einaudi nel 1956 a Francesco Simoncini, ma in realtà è un Simoncini Garamond con inconsueti e vezzosi accenti acuti su í e ú, anche se normalmente sono gravi. La narrativa italiana e straniera di Mondadori è in Palatino, che assomiglia al Garamond, alcuni lo chiamano il «Garamond tedesco», ma ha l’«occhio del carattere» – cioè il vuoto dentro le lettere – leggermente più grande, e le ascendenti e discendenti – cioè le stanghette delle b e delle p – leggermente più corte. Il Simoncini Garamond, insomma, si è imposto come standard. L’unica eccezione rilevante sembra essere Adelphi che ha scelto il Baskerville non soltanto nell’interno, ma anche sulle copertine. Il Baskerville fu disegnato nel 1757 da John Baskerville, poi stampatore della Cambridge University Press, è più moderno e più contrastato del Garamond. In Francia è stato utilizzato dalla collana Folio di Gallimard.

Il Garamond di Einaudi
garamond

Il Baskerville di Adelphi
adelphi

I caratteri sono gli atomi dell’editoria, l’elemento base della comunicazione stampata, come i mattoni per l’architettura o le note per la musica. Tutti li vedono, ma raramente qualcuno li guarda. Eppure rappresentano letteralmente il carattere di un testo e la faccia di un libro. In inglese, infatti, «carattere» si dice «type-face», mentre il temine «font» deriva dal francese medievale «fonte», che significa «fuso», l’etimologia è quella di fonderia. Il riferimento è alla macchina a caratteri mobili inventata da Johannes Gutenberg nel 1454 (o 1455) che ricavava i caratteri, appunto, dalla fusione del metallo. La storia dell’editoria scorre parallela a quella storia della stampa. Aldo Manuzio – che è considerato il primo editore moderno e di cui quest’anno si celebrano i cinquecento anni dalla morte – non sarebbe diventato così famoso senza i caratteri disegnati per lui da Francesco Griffo, un altro tipografo bolognese, che all’inizio del Cinquecento inventò il corsivo, che in inglese si chiama italic proprio perché fu inventato in Italia.

Ai caratteri di Griffo qualche decennio più tardi si ispirò Claude Garamond, un tipografo e incisore di caratteri francese che divenne famoso nel 1541 per avere disegnato il “Grec du roi”, il carattere greco usato per i libri in greco destinati al re di Francia Francesco I di Valois. Qualche anno dopo arrivò il carattere romano da cui sarebbero derivati tutti i Garamond successivi, che sono decine (qui c’è un articolo in francese o inglese dove trovate di tutto).  Il tema dei caratteri tipografici è talmente ampio, le differenze così sottili e invisibili ai non esperti, che semplificarlo è rischioso, ma sostanzialmente si può dire che l’interno dei libri italiani – e dei libri in generale – è molto molto simile a com’era cinquecento anni fa.

La prima grande divisione è tra caratteri graziati (serif in francese significa “grazia”) e bastoni (sans serif). I bastoni sono quei caratteri – come  l’Helvetica, l’Arial, il Grotesk, il Franklin Gothic, il Verdana, l’Univers e il Futura – che hanno linee diritte e dello stesso spessore, senza abbellimenti o “grazie”, appunto. Furono inventati molto più tardi dei graziati, dall’Ottocento in poi, e vengono utilizzati per le copertine dei libri, le pubblicità, i marchi e i testi su Internet, quasi mai per testi lunghi stampati su carta. Il capostipite dei bastoni è il Grotesk del 1832, ma il più famoso – quello che segnò un cambio d’epoca – è il Futura, disegnato da Paul Renner nel 1927, e ispirato dal movimento architettonico Bauhaus. Negli anni 50 dalla Svizzera giunsero l’Univers (1956, Adrian Frutiger) basato sullo Standard Medium dell’Akzidenz Grotesque del 1896 e, soprattutto, l’Helvetica (1957, Max Meidinger), che per i bastoni è considerato ciò che il Garamond è per i graziati.

Helvetica

I graziati si chiamano così perché alle estremità presentano delle “grazie”: piccoli ganci, minuscoli piedistalli, ispessimenti e assottigliamenti, abbellimenti, insomma, che attutiscono il baratro tra nero e bianco, cuciono insieme le lettere tra loro e rendono i libri più fluidi e leggibili. Le grazie sono la transizione verso il corsivo, il tentativo di tenere insieme i caratteri mobili. I graziati si dividono a loro volta in antichi e moderni: quelli antichi – come appunto il Garamond, il Bembo, il Palatino o il Sabon – sono caratterizzati da scarsa differenza nello spessore tra aste verticali e orizzontali, e dalla presenza di grazie concave, cioè grazie che si raccordano alle aste disegnando curve. Se oggi i “raccordi” delle grazie dei libri che leggiamo sono arrotondati, si deve al fatto che tutti i graziati derivano da un unico carattere – il lapidario romano – e che agli scalpellini che scolpivano le iscrizioni sui monumenti dell’Antica Roma veniva molto più facile incidere curve piuttosto che angoli retti. Altro carattere graziato moderno importante per l’editoria italiana è il Pastonchi, fatto disegnare per la collana dei Classici Italiani da Mondadori negli anni venti, nonostante la contrarietà di Arnoldo Mondadori.

Via via che l’arte della stampa si affinò, e il ricordo dell’incisione su pietra si affievolì, le differenze di spessore tra aste verticali e orizzontali aumentarono e le grazie si appiattirono fino a formare con le aste angoli retti. È la caratteristica dei caratteri cosiddetti transizionali, come il Baskerville e i più recenti Times New Roman o Georgia, che sono più nitidi e richiamano più dei graziati antichi l’idea dell’inchiostro e della tipografia. Nei graziati moderni le curve scompaiono del tutto, e le grazie si uniscono alle aste in perpendicolare. Il primo dei graziati moderni è il Didot, disegnato da Firmin Didot nel 1780. Ma il più famoso è il Bodoni, dal cognome del tipografo di Parma (di nome faceva Giambattista) che lo creò a inizio Ottocento, ispirandosi ed estremizzando il Baskerville. Il Bodoni è il carattere feticcio di tutti i libri e le riviste di Franco Maria Ricci, compresa la collana La Biblioteca di Babele curata da Jorge Luis Borges.

Il Bodoni di Franco Maria Ricci

Bodoni

Il Novecento è il secolo dei bastoni. I caratteri si liberano delle tracce del loro passato tipografico. Diventano più funzionali, ma l’editoria fa come se niente fosse e, senza scomporsi, si mantiene fedele alla propria origine tipografica. Negli stessi anni in cui Giulio Einaudi chiamava Bruno Munari a ridisegnare la grafica della casa editrice in senso funzionalista – il quadrato rosso del Nuovo Politecnico, il quadrato blu dei Paperback, i tre quadrati della Piccola Biblioteca, le linee rosse della NUE, la banda nera dei Centopagine – commissionava anche alla Simoncini di Bologna il suo Garamond, in modo da radicalizzare l’aspetto tipografico degli interni dei libri. Per disegnarlo e realizzarlo in collaborazione con la fonderia Ludwig & Mayer di Francoforte, ci vollero due anni, dal 1956 al 1958. Anche il Baskerville di Adelphi – che fu fondata nel 1962, lo stesso anno in cui Munari iniziava la sua collaborazione con Einaudi –  è una scelta tipografica, è la scelta di non avere un grafico e di affidarsi alla stampa. Di fronte alle novità tecnologiche, i libri tendono a rispondere aggrappandosi alla propria fondazione, all’essere fatti di segni di inchiostro impressi su carta da caratteri mobili. Possono decidere di ignorare deliberatamente lo spirito del tempo, e forse il tempo, per rimanerne fuori.

Negli anni Ottanta arrivò la fotocomposizione. I testi non dovevano più essere composti, bastava fotografarli: i caratteri mobili non avevano più senso di esistere. La stampa perse progressivamente il suo contatto con la fabbrica, l’inchiostro e la fatica. Pochi anni dopo avvenne un’altra rivoluzione: con la tecnologia PostScript dei personal computer non c’era nemmeno più bisogno della fotografia, tutto diventava immateriale, digitale, elettronico. Microsoft cercò di comprare il carattere Helvetica, ma la Haas, la società svizzera proprietaria del carattere, non prese nemmeno in considerazione l’offerta. Così Microsoft commissionò un carattere equivalente: l’Arial nacque così. Oggi l’Helvetica è il carattere del sistema operativo del Mac.

Nel 1972 al Reed College Steve Jobs si iscrisse a un corso di lettering tenuto da un monaco trappista di nome Robert Palladino. In un discorso alla Stanford University del 2005 Jobs raccontò: «Imparai la differenze tra caratteri graziati e non graziati, sul variare la quantità di spazio tra le combinazioni di lettere, su ciò che rende grande la grande tipografia. Era bello, storico, sottilmente artistico in un modo che la scienza non può afferrare, e lo trovavo affascinante. Niente che avrebbe avuto nemmeno una speranza di trovare un’applicazione pratica nella mia vita. Invece dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Macintosh, mi ritornò in mente e mettemmo tutto nel Mac». Nel 1984 il Macintosh permise di vedere sullo schermo, per la prima volta, quello che sarebbe andato in stampa.  Dopo cinque secoli di stampa, scrivere e comporre coincisero: per stampare bastava rileggere e premere Invio e il foglio elettronico si sarebbe trasformato in un foglio di carta.

Il carattere ufficiale di Apple nel 1984 era l’ITC Garamond, che è diverso dal Simoncini, ed è detestato da alcuni, ma appartiene ancora alla stessa famiglia. Nel 1985 arrivò Pagemaker, il primo programma di impaginazione per personal computer realizzato dalla Aldus Corporation, che si chiama Aldo in onore di Aldo Manuzio. L’Adobe Garamond venne invece disegnato nel 1989 da Robert Slimbach.

Non c’è niente di resistente come i caratteri di stampa. A guardarli da vicino trasportano ancora scalpellini romani, stampatori rinascimentali, artisti novecenteschi e inventori di computer. Verba volant, scripta manent, dicevano quelli. Mentre la stampa cambiava, i libri sono restati immobili e i loro vecchi interni in Simoncini Garamond, nel frattempo, sono ridiventati nuovi.