autonomia
Da sinistra: Attilio Fontana, Raffaele Fitto, Roberto Calderoli e Nello Musumeci (LaPresse)

Cos’è questa “autonomia differenziata” che chiede la Lega

Una nuova proposta su un tema da sempre caro al partito sta ricevendo molte critiche, e anche Meloni non sembra convinta

La scorsa settimana il ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli, della Lega, ha presentato al governo il suo disegno di legge sull’autonomia differenziata, che nelle intenzioni dei proponenti dovrebbe essere votato in Parlamento entro fine mese. È una proposta di cui si parla da anni, derivata dalla riforma della Costituzione del 2001 secondo cui tutte le regioni a statuto ordinario possono chiedere allo Stato competenza esclusiva su 23 materie. I modi in cui questa autonomia può attuarsi, tuttavia, sono molti, e quello scelto da Calderoli è stato criticato e contestato soprattutto da studiosi, dall’opposizione e da molti rappresentanti locali delle regioni del Sud.

L’articolo 116 della Costituzione descrive l’autonomia particolare di cui godono le cinque regioni a statuto speciale. Poi al terzo comma dice:

Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 […] possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata.

Questo terzo comma fu aggiunto più di vent’anni fa dalla riforma del Titolo V, quello relativo all’organizzazione degli enti locali, ma non è mai stato attuato. Alcuni governi avviarono l’iter legislativo ma poi non se ne fece niente. Il governo di Giorgia Meloni, invece, per iniziativa del ministro Calderoli, sembra intenzionato a fare presto in modo da avere le prime intese tra Stato e regioni entro la fine dell’anno.

L’iter del disegno di legge, fortemente voluto anche dal presidente del Veneto Luca Zaia, era cominciato lo scorso novembre quando la prima bozza era stata presentata alle regioni. È una bozza che poi è stata modificata e naturalmente è ancora soggetta a variazioni, ma sembra che nelle sue parti fondamentali il testo presentato al governo sia molto simile a quello di novembre.

In questa versione non si specificano le modalità con cui attivare la richiesta di autonomia differenziata, lasciando spazio alle regole di ciascun statuto regionale, mentre l’intesa tra Stato e regione dovrebbe essere elaborata dal governo e poi inviata alla regione in questione per essere esaminata e approvata.

Dopodiché il Consiglio dei ministri dovrebbe presentare al Parlamento «un disegno di legge di mera approvazione dell’intesa»: in sostanza, le Camere potrebbero solo approvare con maggioranza assoluta o respingere l’intesa raggiunta, senza proporre modifiche. E questa è una delle tante critiche fatte alla proposta: il ruolo marginale assegnato al Parlamento.

Un altro punto su cui si sono concentrate le critiche al ddl è il fatto che non includa nessun requisito tecnico minimo per chiedere l’autonomia. Il docente di economia Paolo Balduzzi, per esempio, ha notato su Lavoce.info che «non si richiede che la regione richiedente abbia i conti in ordine o non sia stata commissariata in precedenza per la gestione delle materie di cui fa richiesta». Tra le molte di cui si può richiedere la competenza esclusiva ce ne sono alcune delicate e importanti, come l’istruzione, la sanità, la produzione di energia e la tutela dell’ambiente.

Ma la parte più problematica del disegno di legge sull’autonomia riguarda «i livelli essenziali di prestazione che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (Lep), che secondo la Costituzione riguardano «i diritti civili e sociali» dei cittadini e delle cittadine. La loro entità andrebbe stabilita prima delle richieste di autonomia differenziata, così da sapere la quantità di risorse da erogare a ciascuna regione richiedente. E infatti la proposta di Calderoli dice che entro un anno dall’entrata in vigore della legge devono essere decisi i Lep con un Decreto del presidente del Consiglio (Dpcm).

Se però l’anno dovesse scadere, dice la proposta di legge, il governo e le regioni potranno comunque formulare un’intesa, stabilendo il finanziamento sulla base della spesa storica di quella regione nello specifico ambito in cui viene richiesta l’autonomia.

Anche se è una misura temporanea, questo punto è stato molto contestato perché avrebbe come conseguenza di assicurare più finanziamenti alle regioni del Nord, che dispongono di più risorse e hanno quindi una spesa storica più alta, e meno a quelle del Sud, dove di risorse ce ne sono meno e quindi la spesa storica è più bassa. In altre parole, finirebbe per accentuare il divario tra Nord e Sud, almeno finché non verranno decisi i livelli essenziali di prestazione.

Calderoli e Giorgia Meloni lo scorso ottobre (ANSA/FABIO FRUSTACI)

Lo scorso dicembre il direttore della Svimez, Luca Bianchi, aveva criticato il disegno di legge sull’autonomia citando proprio questo parametro. La Svimez è un centro di ricerca che da decenni studia e analizza dati sullo sviluppo del Sud e sul divario tra le regioni. Parlando con Repubblica, Bianchi ha detto: «Sono oltre venti anni che si attende la definizione dei Lep: i livelli essenziali di prestazione restano indispensabili per il superamento del criterio della spesa storica, che sino ad oggi ha cristallizzato i divari di servizi nel nostro Paese». Secondo Bianchi decidere i Lep in un anno, peraltro senza sapere come coprire i costi, sarà molto complicato.

Inoltre, dice Bianchi, in ambito scolastico ci sarebbe il rischio «di un vero processo separatista», con «programmi diversi a livello regionale, sistemi di reclutamento territoriale e meccanismi di finanziamento differenziati». Tutto questo potrebbe creare delle «nuove gabbie salariali», ossia regioni in cui i salari dei docenti sono più alti, con una conseguente capacità di attrazione dei docenti più alta.

Nel frattempo, comunque, l’approvazione di questa riforma è diventato un obiettivo importante per la Lega. In questi giorni il disegno di legge è stato criticato sia da vari presidenti di regione, tra cui Michele Emiliano e Stefano Bonaccini, sia da alcuni giornali, tra cui il Mattino di Napoli che ha parlato di «strappo di Calderoli». Lui ha difeso con piglio piuttosto duro la proposta, dando un’intervista al Corriere della Sera in cui ha detto: «Io veramente tra un po’ passo alle denunce. Nessuno può azzardarsi di accusarmi di tradire la Costituzione sulla quale ho giurato, spaccare il Paese lo sarebbe. E allora o qualcuno mi trova un articolo, un comma, una riga nel mio testo di riforma dove emerge che il Sud viene danneggiato, o deve tacere».

Quando la Lega si chiamava Lega Nord la sua ragion d’essere era l’indipendenza delle regioni settentrionali, quella macro-area che i leghisti della prima ora chiamavano “Padania”. Col tempo poi questo indipendentismo si annacquò a causa della convivenza con partiti ben più nazionalisti all’interno del centrodestra, Alleanza Nazionale su tutti, e il nuovo obiettivo della Lega Nord diventò il trasferimento di più competenze alle regioni.

La Lega ci provò per due volte, prima con una riforma costituzionale nel 2005 e poi con una legge delega nel 2009, fallendo in entrambi i casi. Poi, quando nel 2013 divenne segretario federale Matteo Salvini, la Lega cambiò radicalmente approccio, assumendo una dimensione più nazionale e tralasciando le battaglie federaliste. Battaglie che però furono mantenute dalle varie articolazioni locali del partito, specialmente in Lombardia e in Veneto, che ora sono tornate a spingere affinché venga attuata una riforma che attendono da anni. Peraltro Salvini è in una posizione assai precaria all’interno della Lega, il consenso degli anni passati è sceso e perciò è più soggetto alla pressione dei presidenti di regione leghisti: per lui, approvare la riforma sull’autonomia significherebbe anche accontentare i politici locali, arginando il dissenso nei suoi confronti.

Molto però dipenderà anche da Giorgia Meloni. Oltre a essere presidente del Consiglio, Meloni è leader di Fratelli d’Italia, un partito storicamente nazionalista e forte al Centro-Sud e meno al Nord, sebbene alle ultime elezioni sia stato il primo partito ovunque. Anche per questo, fin qui, Meloni ha mantenuto un atteggiamento interlocutorio, dicendo di «non voler lasciare indietro nessuno» e di voler approvare la riforma con calma, senza «fughe in avanti».

– Leggi anche: Lo stato spende più al Nord o al Sud?

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