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  • Giovedì 15 dicembre 2022

Che fine hanno fatto le inchieste sulla pandemia

Sono state quasi tutte archiviate, ad eccezione di quella più importante e corposa aperta dalla procura di Bergamo

Manifestanti a Bergamo chiedono di accertare responsabilità della gestione dell'emergenza coronavirus (Claudio Furlan/LaPresse)
Manifestanti a Bergamo chiedono di accertare responsabilità della gestione dell'emergenza coronavirus (Claudio Furlan/LaPresse)
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Negli ultimi due anni e mezzo molte procure italiane hanno avviato indagini per accertare eventuali responsabilità penali nella gestione della pandemia. Le inchieste riguardano casi circoscritti, come le denunce presentate in seguito a morti avvenute nelle residenze per anziani, ma anche la gestione generale delle misure di prevenzione introdotte a livello provinciale o regionale per limitare la diffusione del contagio.

Le indagini non sono semplici: sia perché una pandemia di questa portata è stata un evento inedito nella storia recente, sia perché la diffusione del contagio è stata così estesa e rapida da rendere quasi impossibile l’attribuzione di responsabilità dirette dovute ad azioni e omissioni. Per queste ragioni finora quasi tutte le inchieste sono state archiviate.

Una delle regioni dove sono stati presentati più esposti in seguito alle morti dovuta al Covid è il Veneto. La procura di Venezia, per esempio, ha ricevuto decine di denunce di familiari di persone morte nelle residenze sanitarie assistite (RSA).

Secondo le famiglie, molti anziani sarebbero morti perché non tutelati dalle strutture, dai medici e dai dirigenti, ritenuti responsabili della mancata protezione e in alcuni casi anche della diffusione del contagio. Gli avvocati delle famiglie hanno ipotizzato il mancato rispetto di misure di sicurezza per evitare la diffusione del contagio e hanno messo in dubbio l’efficacia dei protocolli di emergenza decisi dalle autorità sanitarie.

Il magistrato che si è occupato di queste denunce, Giovanni Gasparini, ha indagato per il reato di epidemia colposa, che punisce «chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni». Le indagini hanno chiarito che è impossibile stabilire con certezza un nesso di causalità tra il contagio e il decesso, in quanto le morti hanno riguardato soggetti fragili e affetti da diverse malattie. Non è stato possibile, quindi, stabilire l’effettiva causa della morte.

Un altro elemento importante che ha portato all’archiviazione è stata un’indagine commissionata per capire quale fosse il tasso di incidenza del coronavirus nelle RSA: gli esiti dell’indagine hanno mostrato che durante l’emergenza coronavirus i decessi sono stati in linea con quelli del periodo precedente alla pandemia. Quindi non è stato possibile dimostrare che le azioni o le omissioni di medici e dirigenti abbiano contribuito a una maggiore diffusione del contagio. Per questi motivi le inchieste sono state tutte archiviate.

Alla stessa conclusione sono arrivati i magistrati di altre procure: casi analoghi sono stati archiviati con le stesse motivazioni a Genova, Firenze, Cremona e Campobasso. Le archiviazioni sono state motivate dalla giurisprudenza applicata nell’indagine che ha riguardato il Pio Albergo Trivulzio, uno dei più famosi centri di assistenza sanitaria per anziani di Milano.

Le ipotesi di epidemia colposa e omicidio colposo che riguardavano i dirigenti del Pio Albergo Trivulzio furono archiviate nell’ottobre del 2021. In quel caso la mortalità risultò in linea con quella segnalata nelle altre residenze sanitarie della provincia di Milano. «Non è stata acquisita alcuna evidenza di condotte colpose o comunque irregolari in ordine alla assistenza prestata», si legge nella richiesta di archiviazione. «Anzi, con riguardo ai singoli casi, neppure sono state accertate evidenze di carenze specifiche, diverse dalle criticità generali riguardo le misure protettive o di contenimento che possano aver inciso sul contagio dei singoli soggetti».

Presidio del comitato dei parenti delle persone morte nel Pio Albergo Trivulzio durante la pandemia (Claudio Furlan/LaPresse)

I magistrati esclusero il nesso causale tra le azioni dei responsabili della struttura e le morti perché fu ritenuto impossibile tracciare il contagio, cioè definire con certezza «il percorso dell’infezione, dall’ingresso nella struttura alla diffusione nei diversi reparti». In sostanza, non fu possibile stabilire se le persone si fossero infettate per via di azioni dirette o omissioni di medici, infermieri o dirigenti, oppure in altro modo.

Una delle inchieste più importanti e più corpose, invece, è ancora aperta. È quella avviata in provincia di Bergamo, la provincia dove il Covid ha causato più morti durante la prima ondata. A Bergamo nei mesi di marzo e aprile del 2020 morirono seimila persone, con un aumento della mortalità del 570% rispetto alla media degli anni precedenti.

I capi d’accusa definiti da chi indaga sono tre e molto ampi: epidemia colposa, omicidio colposo e falso. I magistrati si sono concentrati in particolare su due fatti: la chiusura e la riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo, il 23 febbraio del 2020, dopo la confermata positività di due pazienti; la mancata istituzione della cosidetta “zona rossa” nei comuni di Alzano Lombardo e Nembro durante la prima settimana di marzo, sempre nel 2020.

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La procura di Bergamo ha raccolto migliaia di documenti e decine di testimonianze per ricostruire quello che successe allora. I magistrati hanno commissionato uno studio epidemiologico al microbiologo Andrea Crisanti, che ha consegnato la sua relazione lo scorso gennaio, quasi un anno fa.

Secondo lo studio, basato anche sui dati delle indagini fatte da Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler, consulente del governo nella gestione dell’epidemia, se fosse stata istituita la zona rossa in Valseriana entro il 27 febbraio sarebbero morte 4.148 persone in meno, mentre con l’istituzione delle limitazioni entro il 3 marzo i morti sarebbero stati 2.659 in meno.

Crisanti ha spiegato più volte che, secondo le sue valutazioni, la chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo non avrebbe avuto effetti significativi sulla diffusione del contagio, in quanto è stato dimostrato che molte persone si erano ammalate di Covid prima del 23 febbraio 2020.

L’ingresso del pronto soccorso dell’ospedale di Alzano Lombardo (Claudio Furlan/LaPresse)

I risultati della consulenza danno più rilevanza alla mancata istituzione della zona rossa. In questo caso le indagini si sono concentrate sulle decisioni prese e soprattutto su quelle mancate. L’obiettivo dei magistrati è capire se persone con responsabilità decisionali – medici, dirigenti sanitari o politici – abbiano scelto di non intervenire pur conoscendo dati allarmanti.

Uno dei documenti su cui si è concentrata l’attenzione di chi indaga è stato rivelato dal quotidiano Domani. Si tratta di una mail inviata alle 16:59 del 28 febbraio 2020 dalla casella postale del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. In uno dei passaggi si legge che «Regione Lombardia, con la nota trasmessa ieri, ha richiesto il sostanziale mantenimento, per la settimana dal 2 all’8 marzo delle misure di contenimento della diffusione del Coronavirus valide per questa settimana, già adottate con il decreto del 23 febbraio 2020 per i comuni del basso lodigiano e con l’ordinanza per il resto del territorio regionale».

I destinatari della mail erano Angelo Borrelli, a capo della Protezione Civile, la segreteria della presidenza del Consiglio, quella del ministero dello Sviluppo economico e la segreteria del ministero dell’Interno. Nella stessa mail, Fontana comunicò una trasmissione del virus pari a 2 contagi per ogni persona infetta, un livello già critico.

Al momento gli indagati nei diversi filoni dell’inchiesta bergamasca sono cinque: Francesco Locati, il direttore dell’Asst (Azienda sociosanitaria territoriale) di Seriate, Roberto Cosentina, ex direttore sanitario della stessa Asst, Luigi Cajazzo, ex direttore generale del Welfare della regione Lombardia, il suo vice Marco Salmoiraghi e Aida Andreassi, dirigente dell’Unità organizzativa Polo ospedaliero.

Un altro risvolto dell’inchiesta di Bergamo riguarda il piano pandemico nazionale, un documento che dovrebbe dare indicazioni sulle misure di sicurezza da introdurre in caso di pandemia. Per esempio, quanti dispositivi di protezione individuale distribuire e dove.

Da quanto è emerso finora, sembra che l’Italia avesse un piano pandemico ma non lo aggiornasse dal 2006, dal momento che gli aggiornamenti successivi – compreso l’ultimo del 2017 – non avevano apportato alcuna modifica sostanziale. L’aggiornamento del piano pandemico, cioè procedure e regole a cui è obbligatorio attenersi, è importante per capire come giudicare i comportamenti delle persone coinvolte nelle decisioni o nelle mancate decisioni in provincia di Bergamo e le loro eventuali responsabilità penali.

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Secondo il Corriere Bergamo, da tempo la procura starebbe valutando l’ipotesi di un’omissione di atti d’ufficio da parte del ministero della Salute per il mancato aggiornamento del piano. «Stabiliremo chi doveva predisporlo e perché non è stato fatto. Se riterremo che le indagini vadano svolte a Roma, saranno quei magistrati a decidere come procedere», disse nel 2020 il procuratore capo di Bergamo Antonio  Chiappani.

Stefano Zirulia, professore di Diritto penale nell’università Statale di Milano, ha realizzato un interessante studio che prende in esame in modo teorico come la giustizia dovrebbe affrontare un evento globale come la pandemia. Lo studio si intitola “Nesso di causalità e contagio da Covid-19”. Uno dei capitoli più interessanti riguarda proprio i comportamenti chiamati “omissivi”, cioè la mancata introduzione di limitazioni, come nel caso della provincia di Bergamo, e la causalità ipotetica, ovvero la determinazione di cosa sarebbe accaduto se quelle decisioni fossero state prese. Il problema più rilevante riguarda il fatto che misure adeguate di prevenzione sono in grado di ridurre in modo significativo il rischio di contagio, ma non di azzerarlo.

In questo contesto di incertezza gli studi epidemiologici hanno un ruolo determinante. Tutto, insomma, dipende dal grado di affidabilità che magistrati e giudici decidono di attribuire agli studi epidemiologici. In linea teorica, spiega Zirulia, se lo studio epidemiologico viene ritenuto affidabile «non si vedono particolari ostacoli ad affermare che la condotta doverosa omessa avrebbe evitato, oltre ogni ragionevole dubbio, un certo numero di eventi lesivi, non identificabili ma certamente quantificabili».

Il problema, dice ancora Zirulia, è che nelle aule di giustizia, specialmente quelle penali, l’epidemiologia «non sempre gode della fama di scienza utilizzabile per effettuare affidabili giudizi causali». Lo scetticismo è il risultato del cattivo uso fatto in passato del dato epidemiologico, spesso utilizzato in modo fuorviante. Per questo c’è il rischio che lo studio realizzato da Crisanti, su cui dovrebbe basarsi la parte più consistente dell’inchiesta bergamasca, non sia sufficientemente tenuto in considerazione.

Secondo le informazioni diffuse dai giornali locali, nei prossimi giorni la procura comunicherà gli esiti delle indagini. Al momento non è chiaro se alcune posizioni saranno archiviate, se verranno presentate richieste di rinvio a giudizio o se alcuni atti verranno trasmessi ad altre procure per estendere le indagini.