Perché Scorsese è così importante

Nessun altro fa da così tanto e in modo così riconoscibile film memorabili e popolari come i suoi (e oggi fa 80 anni)

Martin Scorsese
Martin Scorsese al Roma Film Festival, il 21 ottobre 2019 (Gennaro Leonardi/Pacific Press via ZUMA Wire)
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Martin Scorsese è considerato uno dei più grandi registi americani viventi, e tra i più riconoscibili e influenti al mondo. Che è una cosa che alla fine si dice di tanti registi, e rende quei superlativi forse un po’ meno pregnanti. Solo che nel caso di Scorsese, che compie oggi 80 anni, a usare quelle parole sono altri registi grandi come lui, critici e appassionati di cinema di diverse generazioni. E questa no, non è una cosa che capita così spesso.

Sono pochi, non soltanto nel cinema ma nel mondo dell’arte in generale, gli artisti che abbiano raggiunto una popolarità così ampia, trasversale e duratura come quella di Scorsese. In quel giro già abbastanza ristretto di registi americani ammirati dalla critica e dal pubblico in egual misura lui è nel gruppo ancora più ristretto dei pochissimi che ancora oggi – e da più di 40 anni – fanno film di successo: che funzionano, che vincono premi e che, soprattutto, sono visti da moltissime persone e non soltanto dai fan di Scorsese.

La sua centralità nel cinema è un fatto misurabile nel tempo non soltanto attraverso il successo commerciale dei suoi film, che pure è un pezzo della storia, ma anche dalla capacità di scene e battute tratte da quei film di sedimentarsi nella memoria collettiva. E vale sia per i film più vecchi di Scorsese che per quelli più recenti: basta pronunciare poche parole per rievocare interi passaggi memorabili – «Buffo come?», «Stai parlando con me?» – oppure imbattersi in uno dei tanti meme che circolano su Internet e che non esisterebbero senza di lui.

Mettendo per un attimo da parte quelli sui gangster, film come Taxi Driver (1976), Toro scatenato (1980), L’ultima tentazione di Cristo (1988), L’età dell’innocenza (1993), The Aviator (2004) e Hugo Cabret (2011) sono diversissimi tra loro per moltissime ragioni: eppure, in un certo senso inequivocabile, tutti di Scorsese. Perché ciò che ha reso memorabile gran parte dei film di Scorsese non riguarda soltanto quello che raccontano ma come lo fanno: in un modo che sostanzialmente non c’era, prima di lui, e che è stato seguito e imitato da molti altri dopo.

I movimenti della camera da presa, l’uso della musica, i dialoghi e le interazioni tra i personaggi, la voce fuori campo: nessuno di questi aspetti, presi singolarmente, era qualcosa di innovativo quando Scorsese cominciò a girare film. Ma la particolare combinazione di tutti questi elementi e di altri, in Scorsese, contribuì a formare un’estetica e una grammatica che non sono più soltanto di Scorsese ma di tutto il cinema, come disse al New Yorker il regista americano Wes Anderson: una combinazione di «realismo ed espressionismo sognante e surreale».

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Spesso le scene più potenti nei film di Scorsese, quelle in cui in modo più chiaro e riconoscibile emergono molte caratteristiche del suo cinema, sono quelle iniziali. Scene da cui emerge peraltro la passione di Scorsese per la musica, parallela a quella per il cinema, e per i Rolling Stones, oggetto del suo documentario del 2008 Shine a Light.

Valgono poi per Scorsese, da prima che valessero notoriamente per Quentin Tarantino e altri, tutte quelle descrizioni che si concentrano sulle conoscenze approfondite della storia del cinema di ogni genere da parte di certi registi: registi che, come si dice spesso in questi casi, sono prima di tutto spettatori dei film degli altri. Come ha detto di lui il regista britannico Edgar Wright, Scorsese «è un creatore di cinema che non ha mai smesso di essere un appassionato di cinema».

È una qualità che non soltanto ha reso migliore il suo cinema ma ha reso rilevante, con il passare del tempo, tutto quello che del cinema Scorsese ha da dire. Di recente, durante il New York Film Festival, ha criticato la crescente ossessione per il successo commerciale dei film e la «svalutazione e umiliazione del cinema». L’anno scorso scrisse per la rivista Harper’s Magazine un lungo e apprezzato saggio dedicato «a Federico Fellini e all’arte perduta del cinema», intitolato Il Maestro. E ancora prima aveva descritto criticamente i film sui supereroi come prodotti di consumo, non cinema.

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Nato nel Queens il 17 novembre 1942, da genitori siciliani emigrati negli Stati Uniti, Scorsese è infine considerato insieme a Francis Ford Coppola uno dei registi italoamericani più abili di sempre a raccontare un preciso pezzo di New York: Little Italy, il quartiere in cui è cresciuto negli anni Cinquanta.

Questa parte della vita di Scorsese è descritta esplicitamente in un suo noto documentario del 1974, Italianamerican, dedicato ai suoi genitori. Ma è sempre presente anche in gran parte dei suoi film sulla mafia italoamericana: perché Scorsese non è soltanto i suoi film sui gangster – Mean Streets (1973), Quei bravi ragazzi (1990), The Irishman (2019), per dirne alcuni – ma è anche quello, ovviamente. E anche in questo caso, più che film di genere, sono film sui gangster “di Scorsese”: raccontati da una prospettiva intima, storie di famiglie oltre che di gangster.

Di questi film di Scorsese scrisse l’anno scorso sulla rivista Salon il giornalista statunitense Keith Spencer, contrapponendo il senso di comunità, intimità e condivisione presente in quelle storie alla cultura contemporanea dominante. E citando un testo del critico letterario statunitense Fredric Jameson, uno dei più influenti pensatori del postmodernismo, attribuì a quei film un valore di sublimazione di un «desiderio utopico»: quello della solidarietà familiare e di quartiere.

«Per la maggior parte di noi nelle società capitaliste atomizzate, legami comunitari così affiatati sono incomprensibili», scrisse Spencer, chiedendosi infine sarcasticamente: «Qualcuno dei tuoi amici ti aiuterebbe a seppellire un cadavere?».

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