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  • Domenica 13 novembre 2022

Il ritorno dei combustibili fossili

La guerra in Ucraina è la ragione - o l'alibi - per cui la riduzione delle emissioni delle centrali a carbone è stata in gran parte arrestata

di Evan Halper - The Washington Post

La centrale a carbone di Jaenschwalde in Germania (Sean Gallup/Getty Images)
La centrale a carbone di Jaenschwalde in Germania (Sean Gallup/Getty Images)
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L’anno scorso la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26) che si era tenuta a Glasgow si era conclusa con un robusto ripudio dei combustibili fossili, e il monito da parte di paesi tra cui gli Stati Uniti che l’errore di continuare a investire in nuovi grandi progetti di petrolio, gas e carbone sarebbe costato caro.

I sempre più numerosi appelli a limitare gli investimenti in simili iniziative sembravano aver avuto risonanza: di molti grandi progetti si era arenato lo sforzo di raccogliere finanziamenti, mentre il mondo guardava a un futuro di energia più pulita.

A distanza di un anno, però, l’industria dei combustibili fossili sta vivendo un periodo di incredibile ripresa, con il rilancio di oltre 80 progetti fra centrali elettriche a carbone ed enormi terminali di esportazione di gas, molti dei quali potrebbero condannarci a decenni di nuove emissioni di gas serra.

La ricaduta si sta verificando con le nazioni che cercano alternative al gas naturale russo bloccato dalle sanzioni successive all’invasione dell’Ucraina. La situazione mette ulteriormente a rischio il bilancio mondiale delle emissioni, minacciando di inondare i paesi con molta più energia fossile di quella necessaria per sostituire le forniture russe.

«Se tutta questa nuova infrastruttura venisse costruita e utilizzata fino alla fine del suo ciclo di vita, non ci sarebbe modo di raggiungere gli obiettivi stabiliti con l’accordo di Parigi» dice Niklas Hohne, fondatore del think tank NewClimate Institute e studioso di emissioni all’Università di Wageningen nei Paesi Bassi, riferendosi allo sforzo dei leader mondiali di limitare il riscaldamento a 1,5 °C per evitare le conseguenze più catastrofiche del cambiamento climatico. «Il piano non prevedeva di costruire nuove infrastrutture, perché per mettere a punto tutto ciò che si costruisce ci vogliono dai 20 ai 30 anni, ben oltre il limite entro cui si è stabilito di rinunciare ai combustibili fossili. Ma ora tutti questi progetti sono di nuovo sul tavolo».

Secondo l’organizzazione non profit Global Energy Monitor, questo vale non solo per l’Europa, dove sono sette i nuovi progetti di gas naturale in costruzione e altri 33 sono in varie fasi di sviluppo. Anche negli Stati Uniti si sta avviando un’altra ventina di progetti. Secondo la società di ricerche di mercato Rystad Energy nel 2024 gli investimenti globali in nuove infrastrutture di gas naturale saliranno a 42 miliardi di dollari, un aumento del 50% rispetto a quest’anno. Il risultato è che entro il 2030 la fornitura mondiale di gas naturale liquefatto in pratica raddoppierà, creando un volume che secondo gli attivisti del clima supera la quantità necessaria a sostituire le forniture di gas russo.

L’ansia di colmare il vuoto energetico creato dalle sanzioni imposte alla Russia ha spinto i leader europei a firmare diversi accordi per nuovi contratti sul gas nell’Africa subsahariana, che per anni Europa e Stati Uniti hanno cercato di dissuadere dal privilegiare infrastrutture fossili su larga scala, nocive per il clima rispetto ad alternative più pulite come l’energia solare ed eolica. Gli accordi energetici conclusi dall’Europa in Africa prevedono un’accelerazione dei piani per trasformare la nazione del Mozambico, che fino a quest’anno non aveva mai inviato gas naturale in Europa, in un hub mondiale di combustibili fossili, in seguito alla scoperta di vasti giacimenti prima della pandemia.

L’impatto sul riscaldamento globale di questi progetti, molti dei quali non saranno attivi per anni, sarebbe immenso e in diretto conflitto con gli ambiziosi obiettivi a breve termine sulle emissioni che l’Europa e gli Stati Uniti si sono dati solo di recente. Secondo la US Energy Information Agency gli Stati Uniti, che già esportano più gas naturale di qualsiasi altro paese, si troveranno in grado di fornirne quasi il 50% in più una volta completati soli tre progetti già molto avanti nella costruzione.

Sebbene non sia chiaro quanti progetti negli Stati Uniti e altrove alla fine otterranno tutte le approvazioni normative e gli investimenti necessari per andare avanti, un’analisi del gruppo di Food and Water Watch sta calcolando il potenziale impatto sul clima qualora ogni progetto di gas naturale sul tavolo venisse realizzato. Entro il 2030 l’«impronta del ciclo di vita» – che comprende l’impatto dell’estrazione, della lavorazione e della spedizione di tutto il combustibile, oltre agli effetti dei gas serra una volta bruciato per produrre energia – equivarrebbe alle emissioni di 621 milioni di auto in circolazione per un anno. Sarebbe come costruire 100 nuove centrali a carbone.

I progetti di costruzione rischiano di minare l’iniziativa REPowerEU recentemente approvata dall’Unione Europea che mira a ridurre l’uso del gas naturale del 41% entro il 2030, un obiettivo cruciale per limitare il riscaldamento globale. Un’analisi del think tank europeo Bruegel ha rivelato una grave discrepanza fra tale obiettivo e la quantità di infrastrutture per combustibili fossili che i paesi europei stanno cercando di costruire e sostenere.

Nel frattempo gli analisti della transizione energetica stanno seguendo da vicino l’aumento dell’uso del carbone in Europa, che dovrebbe essere un ripiego fino a quando non saranno disponibili alternative più pulite del gas russo, ma potrebbe tradursi in un grave problema climatico se gli impianti rimarranno aperti per anni. Nella sola Germania 21 centrali elettriche a carbone sono state riaperte o hanno visto posticipare la loro chiusura per aiutare il paese nei prossimi due inverni. Si tratta fra gli altri di impianti come quello di Bexbach, che non bruciava carbone da un decennio.

Sebbene la combustione di gas naturale sia più pulita, rappresenta potenzialmente un problema climatico molto maggiore perché il costo delle nuove infrastrutture può raggiungere rapidamente i miliardi di dollari, creando per decenni una pressione economica per mantenerle in funzione a lungo. I paesi europei non sono sicuri che i terminali galleggianti per l’importazione del gas che stanno installando, e che potranno essere spostati altrove dopo pochi anni, saranno adeguati. Stanno quindi procedendo con la progettazione di nuove importanti infrastrutture sulla terraferma.

I gruppi di consumatori che non vedono di buon occhio l’attuale tendenza tanto quanto gli ambientalisti segnalano il rischio che i contribuenti si ritrovino costretti a pagare per enormi progetti che, molto prima della fine del tempo a loro disposizione in questo mondo, debbano essere sospesi per raggiungere gli obiettivi climatici. Secondo le proiezioni di Bruegel entro la fine del decennio la quantità di gas naturale che confluirà nell’UE sarà quasi doppia rispetto a quella che serve ai paesi nell’ambito del piano REPowerEU.

Questi dati hanno messo in allarme alcuni leader mondiali. «Pensate un po’, per ogni dollaro investito nella fornitura di energia a basse emissioni di CO2, 1,10 viene investito in combustibili fossili» ha detto John F. Kerry, l’inviato per il clima degli Stati Uniti, in un recente evento al Council on Foreign Relations. «La matematica e la scienza chiariscono inequivocabilmente che non possiamo raggiungere i nostri obiettivi a meno di cambiare drasticamente questa proporzione».

Il rapporto delle Nazioni Unite sul divario di emissioni pubblicato di recente, in cui si dichiara che il mondo sta per superare il bilancio di CO2, ha individuato nel «lock-in» degli impianti di produzione di combustibili fossili una delle sfide che il pianeta dovrà affrontare. «Le decisioni prese oggi possono definire la traiettoria delle emissioni per decenni a venire» si legge nel rapporto.

Tra i progetti che potrebbero generare tali emissioni c’è il terminale GNL Rio Grande in Texas, che secondo il Sierra Club con i suoi 398 ettari supererebbe in dimensioni Central Park di New York. Il terminale sorgerebbe proprio accanto a un’altra struttura proposta nel Brownsville Ship Channel, chiamata Texas LNG, che è grande quattro volte Disneyland.

Rio Grande è uno dei tanti progetti che si erano fermati prima che l’invasione dell’Ucraina sconvolgesse il panorama energetico: una compagnia elettrica francese già pronta all’acquisto del gas, sotto la pressione dei leader di governo europei preoccupati per l’impatto climatico, si era tirata indietro da un tentativo di accordo. Da allora il progetto è tornato prepotentemente in auge, e la stessa compagnia francese ha stipulato un contratto di acquisto esteso fino al 2041.

I leader mondiali che promuovono un’azione decisa sul cambiamento climatico confidano che gli investitori ci ripensino e arrestino alcuni di questi progetti, per il rischio che il rapido dispiegamento di energia rinnovabile possa trasformarli in costosi «capitali incagliati».

L’Agenzia internazionale dell’energia, ad esempio, prevede che l’entusiasmo per i combustibili fossili svanirà entro breve. Pochi degli sviluppi pianificati, ha detto il direttore dell’AIE Fatih Birol, hanno senso dal punto di vista economico in un’epoca in cui i costi degli impianti solari ed eolici sono precipitati. «Molti di questi progetti, credo, rimarranno nel cassetto». Il nuovo rapporto World Energy Outlook della sua agenzia mostra che le tecnologie pulite progrediscono così in fretta che il consumo complessivo di combustibili fossili raggiungerà il picco entro pochi anni e poi sarà in declino permanente.

Ma le grandi aziende fossili vanno avanti, assicurando invece gli investitori che un mercato per il combustibile ci sarà. Le risposte che stanno ottenendo dalle autorità di regolamentazione sono molto più solerti rispetto a prima dell’invasione dell’Ucraina, e in molti casi per i progetti si parla di ingenti sussidi pubblici, nonostante l’impegno preso dai paesi del G20 di smettere di sovvenzionare l’elettricità alimentata con energia fossile. Ognuno di questi paesi continua a sovvenzionarla, secondo il rapporto delle Nazioni Unite sul divario di emissioni.

Negli Stati Uniti e in Europa l’industria e i leader politici giustificano le espansioni prevedendo che entro pochi anni gran parte delle infrastrutture sarà convertita a usi più ecologici. I nuovi gasdotti e terminali di oggi, dicono, saranno il sistema di fornitura di domani per l’idrogeno verde, combustibile che può essere prodotto a emissioni zero se le aziende riescono a capire come farlo in modo conveniente su larga scala.
Molti di questi piani, tuttavia, sono ambiziosi e trascurano sfide logistiche notevoli, nonché pressioni di mercato e politiche, che potrebbero consentire al gas di scorrere ancora senza limiti.

«C’è questo desiderio di rassicurare che la nuova infrastruttura degli idrocarburi sia pronta per gestire altri combustibili» ha detto Jason Bordoff, direttore e fondatore del Center on Global Energy Policy presso la Columbia University. «Non penso che siano state fatte sufficienti verifiche per dire che si tratta di una realtà dimostrata e non di una montatura. La domanda principale è: come sfruttare la crisi energetica per accelerare e non rallentare la transizione?»

La sfida è particolarmente ostica per l’Europa, dove legislatori e regolatori stanno cercando un percorso per sostituire il gas russo senza aggiungere nuove fonti di emissioni a lungo termine. Tra previsioni contrastanti di ricadute sul cambiamento climatico, l’impatto del percorso che intraprenderanno potrebbe non essere facilmente tracciabile.
I funzionari non hanno nemmeno un quadro chiaro di quanto del gas russo che l’Europa non vuole più arriverà altrove. Gran parte fluisce negli gasdotti dalla Siberia e dirottarlo verso paesi come l’India e la Cina, che potrebbero essere aperti all’acquisto dalla Russia, sarebbe un’impresa estremamente costosa.

«Uno dei grandi interrogativi è se la Russia possa esportare tanto quanto prima» ha detto Georg Zachmann, esperto di energia e clima presso Bruegel. «Se il calo delle esportazioni russe sarà equivalente all’importazione europea da altre parti del mondo, l’impatto sul clima dovrebbe essere limitato».

Al momento il numero dei progetti avviati supera di gran lunga quello necessario per sostituire il gas russo. Secondo la non profit Global Energy Monitor, da quando la Russia ha invaso l’Ucraina le aziende energetiche statunitensi hanno stipulato 32 nuovi contratti vincolanti per la vendita di gas naturale. Inoltre cinque grandi terminali di esportazione di GNL della costa del Golfo, che sono ancora in fase di progettazione e non avevano accordi bloccati prima della guerra, si sono assicurati contratti per la vendita di gas all’estero.

Tra i progetti ripresi in Europa ce n’è uno da realizzare lungo il fiume Elba vicino ad Amburgo che solo alla fine dell’anno scorso sembrava destinato a fallire. Un partner chiave del progetto aveva dovuto rinunciare dopo che i suoi piani per fornire alla Germania il gas estratto e spedito dal Canada erano stati respinti dal governo canadese, che aveva giudicato l’impresa da 14 miliardi di dollari un pericolo per il clima. Il ministro dell’ambiente canadese aveva definito i progetti per l’esportazione di gas naturale «in nessun modo giustificabili».

Ora quello di Stade – città sul fiume Elba – è invece tra i tanti progetti di impianti a combustibili fossili sparsi in tutto il mondo a essere tornati in ballo, con la Germania che si affretta a costruire nuovi terminali e il gas naturale estratto tramite fracking dagli Stati Uniti che va a sostituire le forniture di combustibile canadesi che erano state bloccate.

Allo stesso tempo anche i pozzi di gas russi dormienti rappresentano ancora una minaccia climatica. La chiusura dei giacimenti di gas è di per sé un processo lungo e dispendioso, e soggetto al rischio che grandi quantità di emissioni possano fuoriuscire dagli impianti per anni. Tali emissioni aggraverebbero gli effetti climatici delle nuove infrastrutture al di fuori della Russia.

Le società petrolifere sostengono di poter mitigare questi effetti con l’installazione di macchinari per la cattura della CO2. Gli sviluppatori del progetto Rio Grande, ad esempio, promettono di eliminare nella struttura proposta in Texas oltre il 90 per cento delle emissioni utilizzando un processo industriale che intrappola i gas serra e li immagazzina sottoterra. La compagnia petrolifera Occidental ha dichiarato a marzo di avere concluso un accordo per iniziare a vendere quello che chiama «petrolio a emissioni nette zero», sostenendo che le sue tecniche di cattura della CO2 elimineranno le emissioni normalmente associate alla produzione di petrolio.

Secondo gli attivisti per il clima, queste promesse non tengono conto delle emissioni create quando i combustibili fossili vengono trasportati e infine bruciati dai clienti, né del fatto che la tecnologia di cattura della CO2 rimane un work in progress. Alcuni dei maggiori progetti dimostrativi realizzati finora non hanno raggiunto gli obiettivi di riduzione delle emissioni prefissati.
«Pensare di produrre solo un altro po’ di gas e poi passare alle energie rinnovabili non ha più senso» ha detto Hohne, fondatore di NewClimate Institute, che ha contribuito al rapporto delle Nazioni Unite sul divario di emissioni. «Il bilancio della CO2 non ci concede più lo stesso margine di 10 o 20 anni fa».

© 2022, The Washington Post
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(traduzione di Sara Reggiani)