Negli Stati Uniti si discute di “affirmative action”

Una storica misura di contrasto delle discriminazioni razziali nelle università potrebbe essere resa incostituzionale da un’attesa decisione della Corte Suprema

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Un gruppo di manifestanti a sostegno dell’affirmative action a Washington, il 31 ottobre 2022 (AP Photo/J. Scott Applewhite)
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Lunedì 31 ottobre la Corte Suprema degli Stati Uniti si è riunita per cominciare a discutere due cause, contro la Harvard University e la University of North Carolina, riguardo alla legittimità dei programmi di ammissione universitaria che considerano l’appartenenza a minoranze etniche un criterio pertinente di selezione, tra gli altri. È una misura che rientra nell’ambito delle cosiddette “azioni positive”, affirmative action: politiche sociali di contrasto delle discriminazioni adottate da tempo in molte prestigiose università americane, sia pubbliche che private, che prevedono un numero minimo di studenti non bianchi tra quelli ammessi.

Sebbene le due sentenze non siano attese prima di giugno, l’orientamento della Corte – l’organo giudiziario più alto in grado negli Stati Uniti – ha già generato diverse manifestazioni di dissenso nella parte progressista della popolazione. È infatti considerata realistica l’ipotesi che la maggioranza dei nove giudici – sei di orientamento conservatore – si pronunci in favore del querelante: un gruppo di attivisti (Students for Fair Admissions) contrari all’affirmative action e in causa contro le due università.

Un’eventuale sentenza di condanna delle università, per come funzionano i sistemi giuridici come quello statunitense, costituirebbe un nuovo precedente di riferimento dopo decenni di sentenze a sostegno dell’affirmative action. E determinerebbe di fatto l’incostituzionalità e illegalità di questa misura in qualsiasi università del paese.

Molto discusse all’interno del dibattito sul razzismo sistemico negli Stati Uniti, le politiche dell’affirmative action sono presenti in altre forme – e altrettanto controverse – anche in molti contesti europei e in Italia, in cui sono note anche con l’espressione “discriminazioni positive”. Sono spesso adottate per contrastare il sessismo e altri fenomeni di discriminazione radicati nelle istituzioni e nel mondo del lavoro. E hanno l’obiettivo di favorire l’integrazione di categorie penalizzate per ragioni storiche e culturali riservando loro, attraverso lo strumento delle “quote”, un numero minimo di opportunità di ricoprire cariche negli organi elettivi e ruoli di rilievo nella società: posizioni a cui quelle categorie hanno accesso formalmente ma non di fatto.

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Una delle principali sentenze di riferimento negli Stati Uniti in materia di affirmative action risale al 1978. Dopo che era stata respinta due volte la sua domanda di ingresso alla facoltà di medicina della University of California, Davis, il candidato bianco Allan Bakke fece causa all’università contestando la legittimità della scelta di riservare 16 posti su 100 a studenti di minoranze qualificate.

Citando proprio Harvard come modello, la Corte stabilì che nella valutazione dei candidati per l’ammissione l’origine etnica non dovesse essere considerata un fattore determinante. Ma aggiunse che – in un contesto particolarmente competitivo, e cioè in presenza di migliaia di candidati qualificati – fosse legittimo includere quel dato nell’insieme vasto ed eterogeneo di altre informazioni prese in considerazione: dall’eventuale talento per la musica o per lo sport, fino al fatto che i genitori del candidato avessero frequentato o no quella stessa università.

L’affirmative action fu introdotta negli anni Sessanta dalle amministrazioni Democratiche di John F. Kennedy e Lyndon Johnson come una misura con una funzione di tipo “risarcitorio”. Obbligare le università a riservare un certo numero di posti a studenti di minoranze etniche, principalmente afroamericani, avrebbe permesso di compensare tramite discriminazioni positive secoli di discriminazioni negative legate alla schiavitù e al razzismo. E avrebbe impedito la riproduzione e amplificazione degli squilibri sociali prodotti da quella storia di segregazione e oppressione.

La discussione di lunedì alla Corte Suprema si è protratta per oltre cinque ore: un tempo maggiore rispetto a quanto atteso da molti. Ma diversi giornali hanno scritto che le divergenze tra i giudici, emerse in parte anche all’interno della maggioranza conservatrice, difficilmente cambieranno l’orientamento generale della Corte.

Dopo la contestata decisione che a giugno scorso ribaltò la sentenza “Roe v. Wade” eliminando il diritto costituzionale all’aborto, l’eliminazione dell’affirmative action sarebbe da molti considerata la seconda volta in un anno che, per ragioni apparentemente politiche più che per valutazioni giuridiche puntuali e imparziali, la Corte decide su questioni controverse e rilevanti nella storia del paese. E in senso conservatore.

Un fattore da tenere in considerazione nella valutazione degli argomenti pro e contro l’affirmative action è quindi il contesto politico statunitense, oltre a quello sociale: in particolare l’attuale composizione della Corte, condizionata dalle influenti decisioni dell’ex presidente Donald Trump, che durante il suo mandato ebbe l’opportunità di nominare tre giudici conservatori (creando uno squilibrio atipico negli ultimi decenni).

Ad ogni modo, alcune delle riflessioni poste dai giudici nel corso della discussione e riportate dai giornali confermano quanto sia complesso in generale, al netto della polarizzazione del dibattito americano, il tema delle “discriminazioni positive” e delle misure di riequilibrio sociale e compensazione delle disuguaglianze. Nel caso specifico delle istituzioni americane, scrive il New York Times, un’eventuale eliminazione dell’affirmative action si rifletterebbe a livello nazionale in una diminuzione della rappresentanza di studenti neri e latini nelle università e in un rafforzamento della rappresentanza di bianchi e asiatici.

Ma esiste una certa variabilità delle conseguenze possibili a livello statale, come peraltro confermato anche dalle differenze tra le due cause discusse dalla Corte. In una, il gruppo conservatore Students for Fair Admissions accusa la Harvard University di utilizzare strumentalmente una serie di valutazioni soggettive (simpatia, coraggio e gentilezza) per discriminare gli studenti di origini asiatiche, che hanno punteggi e voti mediamente più alti rispetto a qualsiasi altro gruppo, inclusi i bianchi. Nell’altra causa, lo stesso gruppo accusa la University of North Carolina di discriminare bianchi e asiatici per favorire candidati neri, ispanici e nativi americani.

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Studentesse di Harvard manifestano fuori dal palazzo della Corte Suprema a Washington, il 31 ottobre 2022 (AP Photo/J. Scott Applewhite)

I due casi differiscono anche per un altro aspetto, fa notare il New York Times. La University of North Carolina, in quanto pubblica, è soggetta alle leggi che vietano qualsiasi discriminazione razziale nelle istituzioni che ricevono fondi pubblici. Harvard, una delle più prestigiose università private degli Stati Uniti, è soggetta al suo statuto, in generale, ma anche alle leggi federali contro la discriminazione relativamente ai programmi per cui riceve fondi pubblici.

Le accuse di discriminazione degli studenti di origine asiatica a Harvard circolavano già nel 2015 ma sollevano ancora oggi molti dubbi su quale sia il modo più corretto di interpretare i dati. Nel 2013 gli americani di origini asiatiche erano il 18 per cento del totale degli studenti di Harvard e il 5 per cento della popolazione statunitense. Ma in altre università americane che non applicavano l’affirmative action e utilizzavano per l’ammissione soltanto criteri di merito ed economici (la possibilità di sostenere la retta) gli studenti di origini asiatiche erano ancora più numerosi: il 43 per cento del totale, al California Institute of Technology.

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A causa del paradosso intrinseco delle discriminazioni positive, nella controversia sugli effetti dell’affirmative action sia le università che il gruppo conservatore hanno fatto riferimento alla sentenza “Brown v. Board of Education”, la decisione unanime del 1954 che diede ragione alla studentessa nera Linda Brown vietando la segregazione razziale e le discriminazioni nelle scuole. «La sentenza Brown è la Gioconda del diritto costituzionale americano» perché «il suo significato cambia a seconda delle angolazioni», ha detto al New York Times il docente di diritto della scuola di legge di Yale Justin Driver, definendo quella sentenza non soltanto «la più esaminata e famosa della Corte» ma anche una tra le più ambigue.

Per il gruppo querelante la sentenza implica che le politiche di ammissione debbano essere indifferenti rispetto all’origine etnica degli studenti. Per le università accusate l’obiettivo dei giudici era invece eliminare un sistema di “caste” fondato su pregiudizi razziali e penalizzante per gli studenti neri. E fu proprio quella sentenza a rendere possibili gli sforzi successivi per abbattere le barriere strutturali che hanno negato per lungo tempo e in parte negano ancora oggi agli studenti sottorappresentati l’accesso all’istruzione di alto livello.

L’approccio olistico dei programmi di ammissione basati sull’affirmative action e sostenuti da diverse università considera l’origine etnica degli studenti uno dei fattori pertinenti nel processo di composizione di classi formate da studenti di diversa estrazione e demograficamente diversificate: caratteristica ritenuta essenziale per rendere migliore l’esperienza formativa ed educativa di tutti.

«Quando studenti di ogni etnia e provenienza arrivano all’università e vivono insieme e imparano insieme, diventano colleghi migliori, cittadini migliori e leader migliori», ha detto durante la discussione la procuratrice generale Elizabeth Prelogar (la solicitor general, più propriamente: una specie di super-avvocato che rappresenta il governo americano di fronte alla Corte Suprema).

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Un gruppo di attivisti a sostegno dell’affirmative action manifestano fuori dal palazzo della Corte Suprema a Washington, il 31 ottobre 2022 (Chip Somodevilla/Getty Images)

I conservatori obiettano che misure come l’affirmative action, nonostante le buone intenzioni, finiscono inevitabilmente per premiare alcune minoranze e danneggiarne altre. «Ho sentito la parola “diversità” parecchie volte, e non ho idea di cosa significhi», ha detto il giudice di orientamento conservatore Clarence Thomas, sostenendo che quella parola non abbia un significato condiviso. Le stesse perplessità sono state espresse in merito all’espressione «minoranza sottorappresentata» dal giudice Samuel Alito, secondo il quale l’ammissione nelle università è «un gioco a somma zero», in cui favorire un gruppo ne svantaggia necessariamente un altro.

I due principali argomenti sostenuti dalla maggioranza conservatrice della Corte coincidono con quelli sostenuti da molte persone avverse alle misure di compensazione delle disuguaglianze, non soltanto nell’istruzione. Il primo è che l’obiettivo della tutela della diversità nella composizione delle classi sia raggiungibile senza dover necessariamente tenere in considerazione l’origine etnica. E il secondo argomento è che distinzioni come quelle alla base dell’affirmative action, introdotte fin dagli anni Sessanta, furono pensate per essere temporanee e non permanenti.

In una delle decisioni della Corte Suprema più citate per sostenere la legittimità dell’affirmative action, la sentenza del 2003 “Grutter v. Bollinger”, la giudice Sandra Day O’Connor – prima donna a ricoprire questo ruolo – scrisse che «le politiche di ammissione attente alla razza devono essere limitate nel tempo». E aggiunse che, nelle aspettative della Corte, nel giro di 25 anni – e quindi entro il 2028 – l’utilizzo di quelle politiche non sarebbe più stato necessario.

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I giudici progressisti dell’attuale Corte hanno invece concentrato l’attenzione su quanto l’origine etnica sia ancora influente nel determinare, per gli studenti, differenti esperienze e differenti difficoltà da superare per raggiungere i livelli di preparazione sufficienti a garantire loro l’accesso alle università. «Se sei nero è più probabile frequentare una scuola con risorse insufficienti, avere insegnanti non qualificati come gli altri, ed essere considerato come dotato di un potenziale accademico inferiore», ha detto la giudice di orientamento progressista Sonia Sotomayor.

Alla University of Michigan e alla University of California, università in cui da oltre 15 anni le politiche di affirmative action non sono più utilizzate nei processi di ammissione, i tentativi di formare in altri modi classi demograficamente ed etnicamente diversificate sono sostanzialmente falliti. E in un rapporto presentato alla Corte nei mesi scorsi, gli avvocati delle due università hanno descritto la diversità etnica come un risultato praticamente impossibile da raggiungere senza l’affirmative action, negli istituti altamente selettivi.

Molti dati suggeriscono che, nelle università e negli istituti americani in cui la competizione tra candidati qualificati è molto alta, senza politiche di affirmative action le percentuali di studenti neri, latinoamericani e nativi americani – già molto indietro rispetto agli studenti americani bianchi e asiatici in termini di conseguimento del diploma – sarebbero inferiori a quelle attuali.

Alla University of North Carolina, che fino agli anni Cinquanta non accettava candidati neri ed è oggi considerata una delle migliori università pubbliche del sud, gli studenti neri rappresentano l’8 per cento del totale, in uno stato in cui le persone nere sono il 21 per cento della popolazione.