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  • Sabato 5 novembre 2022

Cosa sarà il cambiamento climatico, visto dall’Egitto

Il paese che ospita la conferenza sul clima COP27 è anche uno di quelli più a rischio

di Laura Millan Lombrana, Mirette Magdy e Salma El Wardany - BNN Bloomberg

Un contadino porta del grano raccolto in una fattoria a Fayoum, in Egitto, maggio 2022 (Bloomberg/Islam Safwat)
Un contadino porta del grano raccolto in una fattoria a Fayoum, in Egitto, maggio 2022 (Bloomberg/Islam Safwat)

Quando Shoukry Mohamed Abdel Salam prese parte a un programma governativo per insegnare agli agricoltori come coltivare cotone e ortaggi nel deserto, sognava di riuscire un giorno a espandere la sua piccola fattoria nel Sahara. Una ventina di anni dopo Abdel Salam usa quello che ha imparato dell’agricoltura nel deserto solo per mantenere in vita i suoi raccolti mentre il sale del Mediterraneo filtra nei pozzi intorno alla sua fattoria e avvelena il suolo.

Il pianeta si sta riscaldando, ma l’Egitto lo fa a un ritmo più veloce, un allarme sui tragici effetti del cambiamento climatico. Il delta del Nilo, il granaio della civiltà egizia e il territorio coltivato da Abdel Salam, si sta gradualmente desertificando: «Lavoro su questa terra da più di 50 anni ormai. Ho visto guerre, rivoluzioni, grandi cambiamenti. Ma l’acqua è la mia preoccupazione maggiore».

Quando domenica 6 novembre i leader mondiali arriveranno in Egitto per la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP27), entreranno in un paese che sta già vivendo un futuro rovente. Oggi l’Egitto è di quasi 2 °C più caldo rispetto all’inizio del ventesimo secolo. L’accordo di Parigi del 2015 ha fissato l’obiettivo di mantenere le temperature mondiali al di sotto di una soglia di riscaldamento di 2 °C entro il 2100: riscaldandosi a doppia velocità rispetto al resto del pianeta, l’Egitto è tra i primi a intravedere il futuro che i colloqui sul clima stanno cercando di evitare.

Mesi di caldo record, siccità, inondazioni e incendi in tutto il mondo hanno alzato la posta in gioco in vista del convegno di quest’anno nella località turistica del Mar Rosso di Sharm el-Sheikh. Quest’estate l’Egitto ha subito prolungate ondate di calore che hanno superato i 40 °C. Il caldo estremo è ormai comune anche in primavera e in autunno: ad aprile i termometri al Cairo, la capitale, sono arrivati a segnare 39 °C. La situazione spiega le richieste di sostegno finanziario da parte dell’Egitto e di altri paesi in via di sviluppo, che sono storicamente responsabili di una frazione delle emissioni ma in termini ambientali, economici e umani stanno pagando un prezzo altissimo.

«Dobbiamo chiederci che tipo di vita ci interessa vivere, perché non si tratta solo di esserci e sopravvivere» afferma Mohamed Abdrabo, capo del Centro di ricerca di Alessandria per l’adattamento ai cambiamenti climatici. «Si tratta di essere in grado di sentirsi e agire come esseri umani, di sviluppare e vivere le nostre vite nel modo in cui l’umanità ha fatto nel corso della storia».

Abdel Salam e milioni di persone come lui hanno trovato il modo di sopravvivere nell’odierno Egitto affidandosi a poco più che al loro ingegno. Senza aiuto, non è chiaro cosa possano fare per sopravvivere domani. Sopportando di tutto, dall’innalzamento dei mari alla siccità, dalla desertificazione al caldo mortale, il paese più popoloso del Medio Oriente è un caso di studio di cosa accade quando i tentativi di adattarsi al riscaldamento globale falliscono.

Con un territorio che è due volte la Francia, l’Egitto è quasi completamente desertico. Attualmente il 95 per cento della popolazione occupa solo il 5,5 per cento del suo territorio, principalmente lungo le rive del Nilo, l’ancora di salvezza del paese nel corso della storia. Con la portata del fiume che cala e il deserto che avanza, gli egiziani non hanno più dove andare. Anche se i colloqui della COP27 riuscissero a incoraggiare i paesi a ridurre le emissioni di gas serra e a trovare modi per finanziare la ripresa dai disastri climatici, i cambiamenti effettivi impiegherebbero anni a dare frutti.

Se i negoziati di quest’anno e i successivi appuntamenti non riusciranno ad arrestare l’aumento delle temperature, quando quello medio globale raggiungerà i 3 °C, i campi di Abdel Salam saranno da tempo sommersi da acque salmastre. Il Cairo avrà temperature superiori ai 50 °C. Parti di Alessandria, città celebrata fin dall’antichità, finiranno sott’acqua. Già soggetto a temperature estreme, l’Egitto diventerà più caldo di 5 °C.

Quello che segue è un esame delle conseguenze di un eventuale fallimento collettivo ai colloqui della COP per il paese che la ospita, e di cosa sta facendo oggi la sua gente per adattarsi.

Livello del mare
Se l’aumento della temperatura media raggiungerà i 3 °C, il livello del mare aumenterà di 6,4 metri. Secondo Climate Central, un’organizzazione non profit con sede a Princeton, nel New Jersey, intere aree del delta del Nilo sarebbero sommerse e circa un terzo degli egiziani sarebbe costretto a emigrare.

Il tipo di salinizzazione a cui Abdel Salam sta assistendo ora si diffonderà limitando la capacità dell’Egitto di produrre il proprio cibo e rendendolo più dipendente dai volubili mercati di materie prime mondiali. Con 102 milioni di persone da sfamare, il paese è già vulnerabile all’incertezza alimentare. Si prevede che entro la fine del secolo la sua popolazione raddoppierà.

Il finanziamento delle principali opere infrastrutturali che saranno necessarie per aiutare l’Egitto e altri paesi in via di sviluppo ad adattarsi si avvia a essere una delle questioni più controverse della COP27. L’impegno preso nel 2009 dalle nazioni industrializzate più ricche a contribuire entro il 2020 con 100 miliardi di dollari l’anno ai finanziamenti per il clima non è mai stato rispettato.

Alla COP27 l’Egitto non parlerà solo per sé, ma anche a nome di altri paesi in via di sviluppo. Secondo il World Resources Institute è la quarta nazione al mondo più soggetta a inondazioni, addirittura davanti al Pakistan. Allo stesso tempo, secondo la Banca Mondiale, ha il tasso più basso di formazione del capitale tra i venti paesi più popolati del mondo. I disastri legati al cambiamento climatico così come le inondazioni improvvise e la salinizzazione del delta aggravano la situazione economica del paese e ostacolano la raccolta di capitali per le infrastrutture.

I campi di Abdel Salam si trovano alla periferia di Baltim, l’ultimo villaggio che il Nilo raggiunge prima di sfociare nel Mediterraneo, un luogo così fertile da aver dato origine 10mila anni fa ai primi esperimenti dell’umanità con l’agricoltura su larga scala.
Ma con l’innalzamento del livello del mare e una siccità decennale dovuta al cambiamento climatico che ha indebolito il flusso del Nilo, l’acqua marina ha iniziato a risalire la corrente. Il sale ha reso sterili molti campi e li ha rivestiti di una crosta bianca che crepita sotto i piedi. «È un peggioramento continuo. Il Nilo si sta restringendo» dice Abdel Salam. «L’acqua riesce a malapena a raggiungerci e, se scaviamo più a fondo, quella sotterranea è per lo più salata».

Quattro anni fa Abdel Salam e un gruppo di agricoltori hanno raccolto i loro magri risparmi e hanno affittato una draga per pulire e filtrare l’acqua salmastra. Successivamente hanno acquistato dei tubi di plastica su cui hanno praticato dei fori distanziati di qualche centimetro, e hanno così installato un sistema di irrigazione a goccia che li ha aiutati a sopravvivere con meno acqua. Questa semplice tecnica potrebbe non essere più sufficiente via via che il mondo si scalda.

Non è solo il delta del Nilo a rischiare con l’innalzamento del livello del mare. Interi quartieri di Alessandria, la città costiera fondata da Alessandro Magno 2300 anni fa, verranno inondati. Sovraffollata e dalle infrastrutture fatiscenti, Alessandria è già vulnerabile. La città è destinata a subire un aumento di oltre il 100 per cento delle «perdite medie annue», un’espressione della terminologia assicurativa basata sulla somma delle perdite causate da tutti gli eventi ogni anno dal 2005 al 2050, secondo le previsioni dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, gruppo dei più importanti scienziati del clima finanziato dalle Nazioni Unite. Solo la città costiera di Barranquilla, in Colombia, è previsto che soffra altrettanto.

Caldo mortale
Di decennio in decennio la vita quotidiana per gli egiziani si farà sempre più difficile. In base ai dati raccolti dalla Banca Mondiale, dal 1901 le temperature medie annuali in Egitto sono aumentate di 1,98 °C. Secondo il Climate Service Center Germany (Gerics) entro il 2100 le temperature potrebbero essere di 5,2 °C superiori alla media del periodo tra il 1971 e il 2000. Anche le temperature minime saliranno rendendo le notti più difficili da sopportare, e le ondate di calore dureranno fino a 100 giorni consecutivi.

La più colpita sarà Il Cairo. Attualmente abitata da oltre 9 milioni di persone, la città ha assorbito ondate di emigrati provenienti da province lontane fin dagli anni Cinquanta, mentre i residenti benestanti sono fuggiti dai distretti centrali densamente popolati verso sobborghi più remoti.

La città è cresciuta alla vecchia maniera. Già poco presenti, le aree verdi si sono ridotte del 3 per cento nei primi due decenni del secolo, mentre le superfici urbanizzate sono andate dal 23 per cento dell’area totale della città al 35 per cento, con cavalcavia costruiti a pochi metri dalle finestre degli appartamenti in strati sovrapposti di cemento e traffico. Le parti più antiche del Cairo si sono fuse con vaste città satellite e distese apparentemente infinite di alloggi informali fino a creare l’odierna metropoli soffocata dallo smog.

Il grande gruppo immobiliare egiziano Talaat Moustafa sta progettando un sobborgo «verde» del futuro, offrendo a chi può permettersela una tregua dal caldo e dai fumi della città. Circa 40 chilometri a est del centro del Cairo, poco più a nord della nuova capitale amministrativa già in costruzione, Noor City dovrebbe ospitare fino a 140mila case per circa 700mila persone.

Talaat Moustafa deve ancora capire quale sarà l’impronta carbonica del sobborgo durante la costruzione o una volta abitato, ma sostiene che sarà in parte alimentato da fonti rinnovabili. L’illuminazione pubblica della città, così come gli edifici amministrativi, i centri commerciali e gli ospedali gestiti da Talaat Moustafa, saranno alimentati a energia solare, ha dichiarato il vicepresidente dell’azienda per le città intelligenti Mohamed Salah. Saranno messi a disposizione dei residenti scooter, biciclette e autobus elettrici, e le acque reflue riciclate verranno utilizzate per irrigare la vegetazione negli spazi pubblici di Noor City.

Queste oasi daranno sollievo a pochi privilegiati, ma nel complesso le grandi città dei paesi in via di sviluppo come l’Egitto saranno quelle che maggiormente subiranno gli effetti del riscaldamento globale. Secondo il Climate Impact Lab, un consorzio di ricerca che studia il rapporto tra temperatura, reddito e mortalità, i loro abitanti avranno maggiori probabilità di morire a causa del caldo, perché i governi non sono in grado di aiutarli ad adattarsi.

Il tasso di mortalità al Cairo per colpa del caldo arriverebbe a 80 morti ogni 100mila persone in uno scenario di emissioni estremo che immagina un aumento delle temperature mondiali compreso tra 3,2 °C e 5,4 °C entro la fine del secolo. Non è una previsione, ma un modo utilizzato dagli scienziati per esplorare la potenziale portata dell’impatto del cambiamento climatico. La mortalità per caldo al Cairo sarebbe al di sopra della media globale prevista dai ricercatori e ben superiore ai quattro decessi ogni 100mila persone che la città ha registrato nel 2020.

La conferenza delle Nazioni Unite quest’anno si svolge in Africa per la prima volta dal 2016, e la disuguaglianza sia tra le nazioni che all’interno di ciascuna di esse sarà al centro dei colloqui. Ci si aspetta che i paesi poveri facciano pressioni affinché le nazioni più ricche li risarciscano per i danni subiti in seguito ai disastri naturali nonostante il loro minor contributo alle emissioni storiche di gas serra, e per il conseguente mancato sviluppo economico.

La crescita del deserto
La storia dell’Egitto è per molti versi quella della lotta dell’umanità per governare il deserto. Per millenni gli egiziani hanno studiato metodi per coltivare ortaggi, sulle fertili sponde del Nilo così come nelle oasi del deserto. La situazione oggi è cambiata. L’innalzamento del livello del mare, la siccità, il caldo e l’edificazione incontrollata dei terreni agricoli stanno contribuendo alla scomparsa delle poche aree verdi rimaste.

Per anni il paese ha ospitato una delle iniziative di rimboschimento di maggior successo al mondo. Anche questa ha risentito dei disordini politici e della mancanza di sostegno. Con un’iniziativa nata negli anni Novanta sono stati piantati alberi in un’area desertica alla periferia di Ismailia, nel nordest del paese. I risultati sono stati sorprendenti, anche per Hany El Kateb, il ricercatore tedesco di origine egiziana che ha progettato il sistema. Le acque reflue trattate sono state usate come fertilizzanti, un metodo efficace per ottenere una crescita più rapida degli alberi e garantire una sopravvivenza maggiore rispetto ad altri esperimenti di rimboschimento nel deserto, dice El Kateb.

I finanziamenti per la foresta di Serapium a Ismailia però sono stati sospesi nel 2015, quando l’Egitto è entrato in un periodo di turbolenza economica e di repressione politica. Gli impianti di trattamento si sono guastati e il sale nell’acqua ha corroso le apparecchiature di irrigazione. Gli alberi si sono ammalati e tra il 2019 e il 2020 molti sono stati abbattuti e venduti a un’asta pubblica. Hanno fruttato circa 60mila dollari, racconta Salah Abd Elghafar, direttore ad interim della Direzione generale delle foreste d’Egitto.

– Leggi anche: La COP26 è stata un fallimento?

Oggi pochi degli originari 500 acri (2 chilometri quadrati) sono completamente ricoperti di boschi. Nuovi alberi vengono piantati per sostituire quelli abbattuti, ma la zona è praticamente abbandonata. Le crisi finanziarie che si sono susseguite hanno fatto sì che dei 45 lavoratori che si occupavano della foresta nel 2018, ne rimangono soltanto sette.

Uno dei risultati essenziali della COP26, che si è svolta l’anno scorso a Glasgow in Scozia, è stata la promessa di oltre cento leader mondiali di interrompere e invertire la deforestazione entro il 2030, e di investire circa 19 miliardi di dollari in fondi pubblici e privati ​​per raggiungere l’obiettivo. Quest’anno ci si aspetta che le organizzazioni ambientali non profit chiariscano i progressi compiuti in questo senso, dato che la deforestazione nelle principali riserve di carbonio come l’Amazzonia rimane a livelli da record.

Lo sbriciolamento del passato
Secondo le previsioni dell’American Geophysical Union, un’organizzazione non profit internazionale, se il riscaldamento globale manterrà questo ritmo l’Egitto perderà lo 0,35 per cento del suo prodotto interno lordo annuo entro il 2027, e l’1,87 per cento nel 2067.

Anche il settore del turismo, che prima del Covid-19 rappresentava circa il 15 per cento dell’economia del paese e impiega circa un decimo della sua forza lavoro, sta risentendo dell’aumento delle temperature. L’Egitto ospita alcuni dei monumenti più celebri al mondo: le grandi piramidi, il tempio di Luxor e innumerevoli altri. Sopravvissuti per migliaia di anni, anche loro ora sono in pericolo.
L’assenza di umidità nell’aria e nel suolo del deserto ha contribuito a lungo a conservare il patrimonio iconico del paese, ma negli scorsi decenni una combinazione di pratiche agricole non sostenibili e occasionali inondazioni causate da condizioni meteorologiche estreme ha provocato l’innalzamento dei livelli delle acque di falda.

L’umidità senza precedenti sta facendo lentamente marcire le fondamenta di antiche strutture, dice Brett McClain, epigrafista dell’Oriental Institute Epigraphic Survey dell’Università di Chicago, che ha lavorato alla conservazione dei monumenti del complesso di Medinet Habu di Luxor per quasi un secolo. Nell’ultimo decennio sono stati installati sistemi di drenaggio nei pressi di monumenti significativi, tra cui il complesso del tempio di Karnak sulla riva occidentale di Luxor, e nei vicini siti di Esna, Edfu e Kom Ombo. Finanziati dal governo egiziano e da istituzioni come USAID, le operazioni hanno drasticamente rallentato il deterioramento, dice McClain. Ora gli archeologi sono al lavoro per rimediare al danno.

«Gli antichi egizi furono i primi naturalisti» dice Dominique Navarro, impegnata nella conservazione dell’arte antica. «Erano così bravi a documentare l’ambiente che nei geroglifici si riescono a distinguere le specie di uccelli e di pesci». Lei stessa artista, Navarro ha iniziato a ritrarre monumenti egiziani nel 2011 ed è rimasta affascinata dal talento degli artisti che oltre 2000 anni fa decoravano con disegni e incisioni le pareti di templi e palazzi. Nel 2016 ha iniziato a lavorare per l’Epigraphic Survey; da allora nonostante sia passato poco tempo ha potuto vedere con i suoi occhi alcune opere disintegrarsi. «La missione del nostro team è onorare questi antichi artisti» dice «e cercare di rendere conto della loro maestria artigianale».

Ecosistemi delicati
Sotto la costa arida del litorale orientale egiziano si trova un caleidoscopio di meraviglie. Immergendosi nelle limpide acque del Mar Rosso si entra in un regno di lussureggianti coralli e anemoni piumati. Questi giardini sottomarini pullulano di pesci pagliaccio, minuscoli nudibranchi, murene e tartarughe. Navigando a sud, verso il confine sudanese, si possono avvistare squali martello in cerca di prede e dugonghi che si nutrono pacificamente sul fondo sabbioso.

Nessuno sa in che modo gli ecosistemi marini egiziani si adatteranno a un pianeta più caldo. Gli oceani hanno finora assorbito il 93 per cento del calore trattenuto dai gas serra, fungendo da spugna per il riscaldamento del pianeta. Ma più le acque si scaldano, meno calore atmosferico possono assorbire. Le temperature più alte stanno già danneggiando la vita marina. In uno scenario di emissioni estremo quasi il 90 per cento di circa 25mila specie oceaniche è a rischio. Solo riducendo le emissioni nei prossimi decenni possiamo alleviare l’impatto.

La biodiversità marina sarà al centro della scena alla COP27 il 10 novembre, la cosiddetta “Giornata della scienza”, quando le Nazioni Unite e altri organismi dovranno presentare studi sullo stato degli oceani del mondo. I primi indicano che i coralli del Mar Rosso sono straordinariamente resistenti alle alte temperature e al tipo di acidificazione che ha causato il massiccio sbiancamento della Grande Barriera Corallina australiana. Tuttavia la mancanza di finanziamenti per la ricerca scientifica si traduce in dati troppo frammentari che non ci permettono di capire cosa stia realmente accadendo sotto le onde.

Sharm

Il Red Sea Project, con sede nella città meridionale di Marsa Alam, mira a cambiare la situazione. Come piccola organizzazione che si basa in gran parte sul lavoro di volontari, sta collaborando con centri di immersione per arruolare subacquei amatoriali e raccogliere dati su coralli, tartarughe e specie più grandi come squali e delfini. L’iniziativa è ispirata al riuscito progetto australiano di Citizen Science del Great Reef Census.

«Stiamo cercando di creare un database di riferimento, una valutazione preliminare che consentirà agli scienziati di tornare indietro nel tempo e vedere cosa sia successo qui» ha detto il fondatore del progetto Ahmed Fouad, un ex istruttore subacqueo con esperienza nella gestione di aree marine protette. «Abbiamo bisogno di più pattugliamento, monitoraggio e studi. In questo momento non saprei dire quale sia lo stato delle nostre barriere coralline, perché non esistono studi estesi in merito».

Conflitti, e una luce
Dato che il cambiamento climatico inasprisce problemi preesistenti, è probabile che i rapporti tra le comunità locali, tra il popolo e il governo, e tra l’Egitto e i suoi vicini si facciano più tesi.
«Fra tutti è la siccità a spingere di più le persone» ha detto Susanne Schmeier, professoressa associata di diritto e diplomazia dell’acqua presso l’IHE Delft Institute for Water Education dei Paesi Bassi. «I paesi che sono già svantaggiati da un punto di vista meramente geografico e idrologico faranno più fatica ad affrontare la siccità. La pressione è alta e un singolo periodo di siccità può spingere la situazione oltre il punto di non ritorno».

Schmeier dirige la partnership Water, Peace and Security che ha sviluppato un modello per calcolare la probabilità di conflitti legati all’acqua nel corso dei prossimi 12 mesi. Sebbene ora non sia una zona di conflitto, l’Egitto è a rischio per il futuro, dice. Più a monte del Nilo l’Etiopia sta costruendo la più grande diga d’Africa nel contesto di un ambizioso progetto da 4 miliardi di dollari per diventare il maggiore esportatore di elettricità del continente. Anni di diplomazia su come condividere le risorse del fiume vanno perduti. Oltre a una guerra per l’acqua gli egiziani temono che la diga ridurrà ulteriormente la portata del fiume nel loro territorio.

Ad ogni modo, mentre politici e negoziatori si preparano per la COP27, è il caso di ricordare che non è troppo tardi. «Tutto si gioca nel tempo che passerà fra la siccità e un conflitto» ha detto Schmeier. «Quello spazio intermedio merita più attenzione, perché è lì che risiedono le soluzioni. C’è ancora molto che possiamo fare, e altrettanto che si poteva aver già fatto».

Alastair Marsh, Michael Gunn, Tarek El-Tablawy, Eric Roston e Paul Murray hanno contribuito a questo articolo.

© 2022, Bloomberg
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(traduzione di Sara Reggiani)