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  • Venerdì 14 ottobre 2022

Come sono arrivati a questo, la Juventus e Allegri

Il ritorno dell’allenatore vincitore di cinque Scudetti avrebbe dovuto perlomeno raddrizzare una situazione sfuggita di mano, invece sembra averla peggiorata

Massimiliano Allegri (Getty Images)
Massimiliano Allegri (Getty Images)
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Ci sono due momenti nella storia recente della Juventus che forse, quando ancora le cose andavano bene, hanno anticipato in un certo senso la situazione difficilissima in cui è finita ora la squadra che fino a non molto tempo fa era la più forte d’Italia.

Il primo risale al 2015. A cinque minuti dalla fine della semifinale di andata di Champions League, la Juventus vinceva 2-1 contro il Real Madrid e stava dando l’impressione di poter aumentare il vantaggio in vista del ritorno. Massimiliano Allegri, alla sua prima stagione alla Juventus, decise però di fare uscire l’attaccante argentino Carlos Tevez, fin lì uno dei migliori, per assumere un atteggiamento più prudente. Uscendo dal campo ancora con la foga della partita Tevez urlò ad Allegri «cagon!», cioè fifone, per aver deciso di coprirsi invece che continuare ad attaccare.

Poi andò bene comunque. La Juventus vinse all’andata, pareggiò al ritorno e andò in finale, dove perse contro l’ultimo grande Barcellona, quello di Messi, Neymar e Suarez. Da lì in poi la Juventus di Allegri divenne pressoché imbattibile per le avversarie in Italia e all’altezza delle migliori d’Europa. Allegri si fece un nome anche all’estero come un grande tattico in grado di preparare le partite a seconda degli avversari e di adattarsi alle diverse situazioni in corso. Seppur senza dare molto spettacolo, se non per le individualità dei suoi giocatori, la sua Juventus passò anni a giocare le stagioni fino in fondo, spesso vincendo le competizioni a cui partecipava.

Il secondo episodio fu simile e arrivò invece all’ultima stagione di Allegri alla Juventus. Dopo la sconfitta in casa contro un sorprendente Ajax che sancì non solo l’eliminazione ai quarti di finale da quell’edizione della Champions League, ma anche l’inizio della fine di un ciclo per la Juventus, Cristiano Ronaldo uscì dal campo facendo segno al resto della squadra come per dire “ve la siete fatta sotto”, in riferimento all’atteggiamento remissivo tenuto in campo.

Quell’eliminazione fu poi decisiva nella scelta della società di cambiare non solo allenatore ma anche stile di gioco, per provare a convertire i nove scudetti vinti consecutivamente (cinque dei quali con Allegri) in un’affermazione nelle coppe europee, fin lì soltanto sfiorata. La dirigenza decise quindi di provare a cambiare l’identità di una squadra prudente e conservativa per allinearsi alle tendenze europee che premiavano, e premiano tuttora, squadre dal gioco più aggressivo e orientato all’attacco.

Allegri in Juventus-Ajax del 2019 (LaPresse/Fabio Ferrari)

La scelta della Juventus era stata coraggiosa e per nulla scontata, perché intrapresa con il rischio evidente di perdere la posizione dominante avuta fin lì in Italia. Nel calcio, inoltre, l’identità di gioco è una cosa ritenuta radicata nelle tradizioni di ciascun club, e la Juventus storicamente aveva ottenuto i suoi maggiori successi con squadre concrete e prudenti, costruite a partire da difese molto forti e a maggioranza italiana, proprio come lo era stata con Allegri.

Questo tentativo, iniziato nel 2019 e durato circa due anni, non è però riuscito, principalmente perché si è tentato di cambiare identità a una squadra senza cambiarla nella sua composizione, peraltro caratterizzata da giocatori già vincenti e di una certa età, e quindi meno inclini a cambiare radicalmente abitudini e metodi di lavoro. I tentativi fatti con due diversi allenatori, entrambi scelti per le loro idee di gioco propositive, come Maurizio Sarri e Andrea Pirlo, sono quindi falliti per incompatibilità: loro e della squadra che hanno trovato.

Di fronte a una scommessa non riuscita, e con la prospettiva di allontanarsi troppo dagli obiettivi minimi che assicurano introiti ritenuti essenziali per i bilanci, peraltro in un periodo economicamente difficile come questo, la scorsa stagione la Juventus è tornata sui suoi passi e ha richiamato Allegri.

A differenza di quando venne ingaggiato la prima volta, cioè quando si trovò con una squadra già costruita a cui bastarono pochi aggiustamenti per diventare altamente competitiva, questa volta ad Allegri è stato chiesto di gestire una ricostruzione, come dimostra il suo lauto contratto, valido fino al 2025 da 9 milioni di euro netti a stagione. Si tratta quindi di un processo lungo e complicato che difficilmente può garantire risultati nel breve termine. Ma ora, alla seconda stagione, le cose stanno andando decisamente peggio che nella prima. Nella maggior parte dei casi gli insuccessi ottenuti fin qui avrebbero portato a un esonero, ma in questo caso sembra ancora improbabile.

Allegri ha avuto una stagione a disposizione per conoscere e modellare la rosa, e ha potuto influire nelle scelte di mercato della società. In estate sono stati ceduti i giocatori indicati come non indispensabili e sono stati investiti oltre 100 milioni di euro soltanto per acquistarne di nuovi (180 se si conta anche l’acquisto di Dusan Vlahovic lo scorso gennaio). L’attuale rosa della Juventus è costata complessivamente 473 milioni di euro: questo la rende nettamente la più costosa in Italia e la tredicesima in Europa dopo le grandi proprietà in Inghilterra, Spagna e Germania.

Allegri parla alla squadra dopo un pareggio contro la Sampdoria (Tano Pecoraro/LaPresse)

Nonostante questi investimenti non siano bastati a sistemare definitivamente la squadra, che infatti presenta ancora lacune in certi reparti, il livello medio della rosa è molto più alto dei risultati che ottiene e di quello che sta mostrando da alcuni mesi, cioè molto poco. Alcuni gravi infortuni hanno inoltre complicato le cose: l’esterno d’attacco Federico Chiesa, che nella prima parte della scorsa stagione era stato uno dei migliori, è fermo da gennaio per un crociato rotto; Paul Pogba, arrivato in estate per dare qualità al centrocampo, non ha giocato nemmeno un minuto per un menisco rotto; Angel Di Maria, ingaggiato e strapagato per portare qualità e creatività in attacco, ha già saltato una dozzina di partite per vari acciacchi.

Sebbene Allegri abbia attribuito diverse volte agli infortuni lo scarso rendimento, è evidente che i problemi sono molto più profondi: la Juventus non è riuscita a battere nemmeno squadre sulla carta inferiori come il Monza, la Salernitana e la Sampdoria. Oltre a un’identità tattica non ancora distinguibile, quello che si nota di più è lo scarso livello di preparazione fisica, che porta a prolungati cali di intensità in campo, ma anche un atteggiamento rinunciatario e una mancanza di reazione nei momenti difficili. Tutte cose che quando mancano evidenziano solitamente la presenza di problemi radicati.

Per forza di cose, molti ritengono che Allegri sia il maggior responsabile di questa situazione, anche con qualche esagerazione. I suoi metodi di gestione, infatti, sono criticati da tempo da certi opinionisti e anche sui giornali c’è chi mette in dubbio addirittura le sue capacità da allenatore. In tutto questo, Allegri è sembrato spesso chiudersi nelle sue idee, ripetendo più volte che il calcio in fin dei conti è una cosa semplice, e che per la natura del gioco tante situazioni sfuggono al controllo. Da tempo l’impressione è che, in difficoltà, si stia arroccando sempre di più sulle sue idee e sui suoi principi, ritenuti superati nel contesto del calcio europeo.

Ultimamente, quando è davanti alle telecamere, insiste sul bisogno di continuare a lavorare con la squadra per superare questi momenti di difficoltà, senza sbilanciarsi troppo e senza mai accennare o mettere in dubbio il suo incarico, probabilmente per proteggere il gruppo in un momento delicato. Della stessa linea è sembrata la società, da cui sono nate le scelte che hanno portato a questa situazione. Dopo la sconfitta subita in Israele contro il Maccabi Haifa — la squadra con il ranking europeo più basso tra quelle presenti in Champions League — il presidente Andrea Agnelli ha sottolineato come il momento sia difficile, ma ha anche confermato la posizione di Allegri.

Agnelli ha fatto riferimento ai modi in cui la Juventus è solita gestire queste situazioni: a stagione conclusa, per non rischiare di complicare ulteriormente le cose e concludere un altro progetto tecnico senza sapere come ripartire. Ma dopo gli ultimi risultati negativi ci si chiede anche quanto in basso possa arrivare la squadra prima che la società decida di intervenire per salvare la stagione. C’è chi sostiene che la società non possa permettersi di pagare un nuovo allenatore e allo stesso tempo mantenere lo stipendio oneroso di Allegri fino al 2025 (nel calcio funziona così, in caso di esonero). Altri ancora si chiedono perché non sia Allegri a dimettersi, vista l’apatia mostrata dai giocatori e l’involuzione del gruppo in partite molto negative come quelle giocate contro Salernitana, Monza, Milan e Maccabi Haifa.

La risposta della società e di Allegri è stata la convocazione di un ritiro — una rarità per la Juventus — per cercare di riunire il gruppo almeno fino al derby di sabato col Torino, che vista l’importanza della partita potrebbe contribuire a cambiare qualcosa, in un modo o nell’altro. Con ogni probabilità, inoltre, per qualsiasi decisione si attenderà la pausa dei Mondiali, se non addirittura gennaio, al rientro dei giocatori infortunati ritenuti chiave nel rilancio della squadra.

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