A chi appartengono le immagini generate dalle intelligenze artificiali?

I database di software come DALL-E contengono il lavoro di fotografi e illustratori, a cui non viene riconosciuto il diritto d'autore

di Viola Stefanello

Il robot ultrarealistico Ai-Da (Hollie Adams/Getty Images)
Il robot ultrarealistico Ai-Da (Hollie Adams/Getty Images)
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Ieri Getty Images, una delle più importanti agenzie fotografiche del mondo, ha annunciato che vieterà il caricamento e la vendita di immagini generate utilizzando software di apprendimento automatico come DALL-E, Stable Diffusion e Midjourney, che permettono a chiunque abbia accesso al programma di inserire un input testuale e ottenere una serie di immagini prodotte sul momento dall’intelligenza artificiale.

Il CEO Craig Peters ha spiegato di aver preso la decisione per proteggere i propri clienti, dato che cominciano ad emergere diversi dubbi legali rispetto alla proprietà intellettuale delle immagini prodotte da questi programmi. Per poter rispondere alle richieste anche molto fantasiose degli utenti, queste intelligenze artificiali sono infatti allenate su database che contengono milioni di immagini raccolte sul web, tra cui moltissime creazioni di artisti e fotografi indipendenti che non hanno dato il proprio consenso.

Getty Images è la più grande piattaforma ad aver preso posizione in merito, ma non è l’unica. Nelle scorse settimane il sito Fur Affinity, dedicato alla produzione di arte e fumetti che si rifanno al genere furry (animali antropomorfi), aveva a sua volta bandito le immagini create da queste intelligenze artificiali, spiegando di voler tutelare il lavoro degli artisti in carne e ossa, e altre grandi piattaforme che ospitano comunità di creativi, come DeviantArt, stanno subendo pressioni dagli utenti per fare lo stesso.

È almeno dal 1962, quando l’ingegnere A. Michael Noll annunciò in una nota ai colleghi di aver generato «una serie di disegni interessanti e nuovi» con il proprio computer IBM 7090, che artisti, programmatori e utenti curiosi si cimentano nella creazione di arte digitale. Come era già accaduto con l’invenzione delle macchine fotografiche, l’aumentare della disponibilità e della varietà dei nuovi programmi per creare arte digitale suscitò le perplessità di chi riteneva che questi strumenti rendessero tutto troppo facile, mettendo incidentalmente in pericolo le fonti di reddito degli artisti tradizionali.

Benché ci troviamo ancora negli stadi iniziali delle intelligenze artificiali che producono immagini, era dunque prevedibile che la diffusione di tecnologie come DALL-E o Stable Diffusion, che richiedono un quantitativo ancora minore di intervento umano e possono produrre immagini a una velocità impareggiabile, destasse preoccupazioni.

Alcune riguardano la tecnologia in sé: la potenza di calcolo necessaria a generare immagini quasi immediatamente consuma moltissima energia.  Altre si concentrano sulla definizione stessa di “arte” e “artista”: c’è chi mette in dubbio che quella prodotta da un’intelligenza artificiale possa considerarsi davvero un’opera d’arte, chi accoglie con favore l’idea di una “democratizzazione” dell’arte, chi teme che la disponibilità di strumenti simili limiti lo sviluppo di stili personali tra gli artisti più giovani. In un articolo che riassume alcune di queste riflessioni, lo scrittore Gregorio Magini riporta che si sta diffondendo l’uso di chiamare le persone che creano immagini con questi generatori text-to-image “prompter”, in senso spregiativo, per dire “sei solo un prompter, non un artista”.

– Leggi anche: Un’intelligenza artificiale può creare arte?

In questo senso è emblematica la storia di Jason M. Allen, un abitante del Colorado che ha vinto un concorso d’arte organizzato dalla fiera del suo stato dopo aver presentato un’opera creata con Midjourney, un’intelligenza artificiale. Allen si è difeso sostenendo che c’è comunque bisogno di molta creatività umana per trovare la frase perfetta che porti l’algoritmo a creare un’opera che possa vincere un premio, ma ha ricevuto comunque moltissime critiche. Sul New York Times, Kevin Roose ha scritto:

«Ciò che rende questa nuova generazione di intelligenza artificiale diversa da altri strumenti non è solo che è in grado di produrre bellissime opere d’arte con il minimo sforzo. È il modo stesso in cui funziona. App come DALL-E 2 e Midjourney vengono create estraendo milioni di immagini dal web e insegnando agli algoritmi a riconoscere schemi e relazioni in quelle immagini per generarne di nuove con lo stesso stile. Ciò significa che gli artisti che caricano le loro opere su Internet potrebbero involontariamente aiutare a formare i loro rivali artificiali.»

In opposizione alle intelligenze artificiali addestrate su immagini prodotte da artisti viventi, tra l’altro senza alcuna retribuzione, stanno nascendo iniziative come Spawning.ai, un progetto che offre agli artisti strumenti per decidere se vogliono o meno che i propri lavori vengano inclusi nei database di questi software, o per scoprire se ci sono già. Non sempre, però, è possibile opporsi all’inclusione di una propria opera in una di queste banche dati: se infatti ci sono modi per impedire ai programmi che raccolgono grandi quantità di immagini dal web aperto di salvare i contenuti del proprio sito personale, non c’è niente che si possa fare se quei contenuti vengono caricati da altre persone su piattaforme come Pinterest.

Date le difficoltà, c’è chi ritiene che sia solo questione di tempo prima che il tema arrivi in qualche tribunale. «Un artista litigioso frustrato dal fatto che un’opera basata sul suo stile sia diventata virale potrebbe benissimo sostenere che OpenAI si sia appropriata della sua arte senza compensarlo per addestrare il suo motore e realizzare un profitto», ipotizza l’artista Andy Baio. Al momento non è chiaro in che direzione potrebbe deliberare un giudice nel caso si trovasse davanti un caso simile, dato che non esistono precedenti che possano essere credibilmente fatti valere in tribunale. 

David Colarusso, direttore del Legal Innovation & Technology Lab dell’Università del Suffolk, ritiene però che i problemi creati dall’emergere di queste tecnologie non possano essere affrontati esclusivamente con strumenti giuridici. «In alcuni dei casi le opere violeranno le leggi sul diritto d’autore, in altri casi no. Quindi le leggi sul copyright esistenti saranno utili quando qualcuno effettivamente produce una copia del lavoro di un altro, ma non è il colpo di grazia che riuscirà a uccidere modelli come questo», ha scritto. «La grande differenza è che il costo marginale della creazione di qualcosa di nuovo ora è vicino allo zero. Questo ha enormi conseguenze che non hanno a che fare con il copyright. È una domanda fondamentale sulla natura e il valore del lavoro».

Valentina Tanni, storica dell’arte che si occupa del rapporto tra arte e tecnologia, spiega: «queste tecnologie costituiscono una minaccia concreta per alcune categorie specifiche di lavoratori del settore creativo: più che gli artisti che lavorano nel settore delle belle arti, pensiamo alle comunità di illustratori, concept artist, fumettisti e così via».

Alcuni ritengono che in futuro molto probabilmente le immagini generate da questi algoritmi verranno usate come punti di partenza per progetti di illustrazione o come ispirazione nella fase di brainstorming, e che saranno rari i casi in cui le immagini generate verranno utilizzate così come sono. Alcune figure professionali creative che esistono oggi – come i fotografi che si guadagnano da vivere fotografando foto “stock” utilizzate poi da giornali, siti o agenzie pubblicitarie – potrebbero però presto dover competere direttamente con queste tecnologie. «L’esistenza di strumenti in grado di produrre immagini di buona qualità, ogni volta diverse e nello stile grafico che si preferisce, è senz’altro qualcosa che impatta sul mercato nel contesto delle industrie creative e mette in pericolo molte figure professionali all’interno della filiera», dice Tanni.