Le magliette delle band non vogliono più dire granché

Da simboli identitari delle sottoculture sono entrate nella moda di massa, e soprattutto i giovani le indossano inconsapevolmente

Un uomo vende magliette con il logo dei Rolling Stones prima di un concerto a Shanghai (Cancan Chu/Getty Images)
Un uomo vende magliette con il logo dei Rolling Stones prima di un concerto a Shanghai (Cancan Chu/Getty Images)
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Che si trattasse della linguaccia stilizzata dei Rolling Stones, dello smiley dei Nirvana o dello zombie simbolo degli Iron Maiden, a lungo chi indossava le magliette con le foto, le copertine o il logo di gruppi rock o metal lo faceva non solo per esibire la propria passione per la musica, ma spesso anche per comunicare la propria appartenenza a una sottocultura, con i propri codici, valori e riferimenti culturali alternativi. 

Negli ultimi anni, però, l’estetica rock e metal è stata adottata da marchi di moda anche molto commerciali, sconcertando spesso quei fan che vedono la passione per uno specifico genere musicale come una parte centrale della propria identità.

La vendita di magliette per promuovere un nuovo disco o un tour risale ai tardi anni Sessanta. Con il tempo le magliette delle band, molto spesso nere, sono diventate uno dei capi d’abbigliamento più diffusi ai concerti – mai indossare quella della band che si sta vedendo dal vivo, dicono spesso gli appassionati di musica – e ampiamente disponibile nei negozi di dischi, di gadget e ammennicoli musicali, e alle bancarelle specializzate ai mercati rionali.

Come ha spiegato il critico Jake Hall sulla rivista di moda Highsnobiety, «prima di Instagram, l’unico modo per dichiarare la tua fedeltà a un artista era indossare i suoi gadget. Infilare una maglietta di una band inviava il chiaro messaggio che tu eri diverso dalle altre persone; il sottotesto generale era che eri ribelle, che avevi una personalità. Interi gruppi di emarginati – punk, goth, teddy boy, mod – si sono radunati e hanno costruito i propri codici estetici e culturali, solitamente ispirati da musicisti iconici». Trovare la maglietta perfetta da indossare poteva anche richiedere tempo e dedizione, e spesso quelle più ambite erano quelle vendute solo ai concerti con le date del tour stampate sulla schiena, che ancor più delle altre dimostravano l’attaccamento a una band.

Già nei primi anni Duemila, però, le estetiche fino ad allora collegate a queste sottoculture cominciarono ad ispirare anche la moda di massa. Nel 2005, il marchio di streetwear Supreme introdusse una collaborazione con il grafico Peter Saville, che nel 1979 aveva disegnato la copertina di Unknown Pleasures dei Joy Division: oggi, le sue onde in bianco e nero si trovano un po’ ovunque, dai leggings ai cappellini. Nel 2012, lo stilista francese Nicolas Ghesquière produsse per la casa di moda Balenciaga una t-shirt che prendeva forte ispirazione dal logo degli Iron Maiden: soltanto qualche mese fa, Chiara Ferragni aveva pubblicato una foto su Instagram in cui la indossava, ma ha un’intera collezione di magliette di questo tipo.

Da Kanye West a Justin Bieber, da Rihanna alle sorelle Kardashian, negli ultimi dieci anni tantissime celebrità hanno aderito alla moda di indossare magliette con grandi grafiche che riprendono esplicitamente questa o quella band storica. In alcuni casi si tratta di nuove creazioni, come quella presentata da Givenchy per l’Autunno/Inverno 2022-23 o come quelle prodotte da Virgil Abloh per il suo brand Off-White. In altri casi, si tratta di magliette vintage risalenti a decenni fa e rivendute anche a migliaia di euro da siti e negozi specializzati. Ma sempre più spesso, sono aziende di cosiddetto “fast fashion” come H&M o Zara a proporre t-shirt dedicate a Guns ‘n’ Roses, Ramones, Pink Floyd o Metallica alla loro giovane clientela.

In un articolo pubblicato di recente sul Wall Street Journal, la giornalista statunitense Rebecca Picciotto ha raccontato come gli adolescenti oggi indossino magliette di gruppi famosi da molto prima che loro nascessero, come AC/DC e Iron Maiden, pur conoscendo a malapena le loro canzoni, o senza saperle affatto. Una scelta di abbigliamento che certi genitori e insegnanti trovano sostanzialmente ridicola.

 

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Non è un fenomeno del tutto nuovo. La figura dell’appassionato di rock pedante e un po’ snob che mette alla prova la conoscenza discografica di chi indossa le magliette delle band è diventata nel tempo una specie di stereotipo. Ed è sempre successo che sottoculture e comunità rimaste di nicchia per anni provino fastidio e insofferenza quando certi elementi della loro estetica attirano all’improvviso un’attenzione di massa, venendo adottati da quelli che in gergo in Italia si chiamano “poser”.

«Per quanto io odi l’idea che ci siano persone che si ergono a “guardiani” di sottoculture come il metal o il punk, odio di più le persone a cui non piace la musica ma pensano che i nostri outfit siano carini e che otterranno attenzione se all’improvviso adottano un look alternativo» ha scritto su Facebook la bassista Becky Baldwin. «Se alle superiori prendevi in giro le persone come me, lanciavi loro contro le cose e le facevi sentire come se fossero dei mostri, cosa diavolo stai facendo adesso? Il nostro stile potrebbe piacere alla tua fascia d’età ora, ma non sei il benvenuto se vuoi prenderlo in prestito per sembrare più interessante».

 

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Secondo Eleonora Dal Bosco, scrittrice e critica che si occupa del rapporto tra moda e cultura, ciò che sta accadendo all’estetica rock e metal non è un fenomeno isolato. «Sono decenni che la moda cita quelli che una volta erano simboli di sottoculture, facendoli diventare semplici stili in una cultura pop pervasiva», dice. «Non c’è molta differenza tra H&M che cita i Metallica, la Ferragni che va a un concerto di suo marito con la t-shirt degli Iron Maiden, e una persona che usa le tote bag con scritto Fight Animal Testing. È una semplice appropriazione, cannibale e velocissima, che trasforma in un bene di consumo (e cheap) qualsiasi prodotto estetico emerso negli ultimi cinquant’anni». Ad accomunare queste dinamiche è lo svuotamento di significato dei simboli contenuti sui capi di abbigliamento, e del contesto che li circonda.

Da parte propria, gli artisti raramente se ne lamentano: come ha detto anche al Wall Street Journal Tony Campos, il bassista del gruppo metal statunitense Static-X, oggi la vendita di merchandising è una delle fonti di reddito centrali per le band. «Onestamente, preferirei che un ragazzino comprasse i miei gadget piuttosto che ascoltare la mia musica, perché guadagno più soldi da una maglietta che dal suo ascoltare la mia musica gratuitamente su Spotify», ha detto.