Il business dello smiley

Inventato un po' per caso e passato per varie sottoculture, ora la faccina che sorride è in mano a una società londinese che continua a farci molti soldi

(AP Photo/Michael Dwyer)
(AP Photo/Michael Dwyer)
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Lo smiley, il cerchio giallo con un sorriso e due occhi stilizzati, è tra i simboli più diffusi e riconosciuti al mondo, da qualche decennio gestito da una società che ne controlla gli utilizzi in oltre 100 paesi, generando un valore annuo di circa 500 milioni di dollari.

Sebbene riesca difficile pensare di poter inventare un simbolo che di fatto è un sorriso stilizzato, lo smiley è considerato un’invenzione novecentesca, che quest’anno ha festeggiato i suoi primi 50 anni e che da quando esiste è passato da un’agenzia assicurativa ai rave degli anni Ottanta, da una cartoleria di Philadelphia alle pagine di un quotidiano francese, dalla controcultura degli anni Settanta a centinaia di prodotti consumistici della cultura di massa.

Tutto questo nonostante un generale consenso sul fatto che il primo a disegnare lo smiley nella sua forma moderna, simile a come lo conosciamo ora, fu nel 1963 – quindi più di 50 anni fa – un grafico pubblicitario che ci guadagnò in tutto 50 dollari. Un grafico che nulla ha a che fare con la Smiley Company, la società londinese che gestisce il marchio e che è diretta da qualcuno che, quando gli fu affidato, non sapeva che farsene e che intervistato da The Hustle ha detto, ricordando quel momento: «non ne ero felice, pensavo fosse vecchio e misero, qualcosa che ormai apparteneva al passato».

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L’inventore dello smiley moderno è considerato Harvey Ross Ball, che era nato in Massachusetts nel 1921 e che dopo studi d’arte durante la Seconda guerra mondiale aveva combattuto nella battaglia di Okinawa, a sud del Giappone. Nel 1959 aveva aperto una piccola agenzia di pubblicità e pubbliche relazioni e fu lì che, nel 1963, creò lo smiley.

Lo inventò perché la State Mutual Life Assurance Company of America, una compagnia assicurativa che si stava fondendo con un’altra, era preoccupata per l’umore dei dipendenti, e voleva qualcosa di allegro. Stando a quanto raccontò lui in seguito, gli ci vollero dieci minuti per creare quel cerchio giallo con occhi ovali e un largo sorriso. In cambio chiese 45 dollari, che oggi corrisponderebbero a qualche centinaio di euro. Quello smiley era molto simile a quello generalmente diffuso oggi, ma aveva gli occhi più sottili e un sorriso un po’ meno stilizzato e leggermente asimmetrico.

Ball e il suo smiley (NTB PLUSS AP Photo/Paul Connors)

La compagnia usò lo smiley su poster e altri oggetti vari, ma non ci sono grandi resoconti su quanto funzionò nel risollevare il morale dei dipendenti. A quanto pare più per disinteresse che per dimenticanza, Ball non registrò però quel marchio. Cosa che permise a chi lo volesse di usarlo e sfruttarlo commercialmente. Nel 1971 lo fecero, tra gli altri, i fratelli Bernard e Murray Spain, gestori di una cartoleria di Philadelphia. I fratelli aggiunsero il piuttosto didascalico slogan “Have a Happy Day” a un’immagine parecchio simile a quella di Ball e iniziarono a mettere scritta e immagine su svariati prodotti.

Sempre nel 1971, però in Francia, uno smiley simile a quello di Bell, e di conseguenza a quello dei fratelli Spain, iniziò a essere usato – su proposta del giornalista e creativo francese Franklin Loufrani – sulle pagine del quotidiano France-Soir, in una di quelle iniziative in cui, di tanto in tanto, certi giornali si propongono di segnalare le buone notizie presenti tra le pagine. Nel 1972, probabilmente intuendo i possibili usi extragiornalistici di quel simbolo, Loufrani registrò il marchio per uso commerciale.

The Hustle ha scritto che per diffondere il logo Loufrani fece stampare e diffuse gratuitamente, soprattutto tra i giovani e gli studenti che protestavano sull’onda del maggio francese del 1968, 10 milioni di adesivi raffiguranti lo smiley: «quella gioia spensierata ebbe successo e finì attaccata sui paraurti delle auto di tutto il paese».

Arrivarono quindi le prime aziende interessate ad associarsi a quel marchio così di successo. La prima, già nel 1974, fu Mars, che stampò lo smiley sui suoi Bonitos, delle caramelle tonde al cioccolato. Seguirono poi Levi’s e una sempre più lunga e varia lista di aziende.

Intanto, però, lo smiley continuava a essere usato e se necessario riadattato da diverse sottoculture: in particolare fu adottato dalla cultura rave, che nacque negli anni Ottanta in Inghilterra. Migliaia di giovani iniziarono a radunarsi un po’ ovunque per intere giornate e nottate passate a ballare musica house e techno, consumando abbondanti quantità di una nuova droga sintetica, l’ecstasy. La faccia sorridente si associava bene ai suoi effetti, che comprendono un grande trasporto per la musica e un aumento dell’empatia e della socialità: tanto che lo smiley finì per essere stampato, oltre che su adesivi e magliette, anche sulle stesse pastiglie di MDMA. Poco dopo peraltro ne disegnò una sua versione anche Kurt Cobain, che ne fece uno dei simboli dei Nirvana.

Lo smiley insomma iniziò a essere usato in modo spontaneo, ma poi Loufrani riuscì in qualche modo a capitalizzare il fenomeno, senza curarsi troppo di eventuali incoerenze dovute a un simbolo che stava si stava associando a tantissime cose, talvolta in antitesi l’una con l’altra. «Mentre altri licenziatari combattevano duramente per avere il rigido controllo dei loro loghi, Loufrani lasciò lo smiley libero di cavalcare le onde dei movimenti culturali», ha scritto The Hustle.

Nella seconda metà degli anni Novanta – mentre intanto altri, altrove, inventavano il simbolo 🙂 – lo smiley iniziò a dare segni di logorio. Loufrani decise quindi di lasciare la guida delle attività legate al logo a Nicolas, suo figlio ventiseienne, quello che pensava a quel simbolo come a qualcosa di «vecchio e misero, che ormai era il passato».

Nicolas Loufrani provò però a occuparsene lo stesso, anzitutto dando maggiore struttura e coerenza alle attività legate a quel logo, che non aveva un nome uguale in tutto il mondo e, soprattutto, non aveva alle spalle una società. Nicolas Loufrani fondò quindi la Smiley Company e si dedicò all’acquisizione dei diritti commerciali per lo sfruttamento di quel marchio in giro per il mondo. Dove poté registrarlo, lo registrò; dove era già preso, provò a comprarlo; dove non riusciva a comprarlo provava a rivendicarne la proprietà passando per vie legali.

Loufrani agì anche per svecchiare il logo e, con una mossa piuttosto pericolosa, per trasformarlo in vari modi, rischiando quindi di snaturarlo e fargli perdere la sua identità: «era contro ogni teoria di marketing» ha detto a The Hustle: «se hai un logo non ne crei di diversi».

Tra le altre cose, Loufrani si occupò inoltre di rendere quel logo tridimensionale e di gestire cosa sarebbe potuto diventare su internet. Nel 1999, la Smiley Company fece qualcosa di molto simile a quelle che oggi conosciamo come emoticons o emoji, e nei primi anni del Duemila fece un accordo con Nokia e Samsung affinché si potessero usare sui loro dispositivi. Inoltre, la Smiley Company rilanciò gli accordi commerciali per giochi, prodotti e capi di abbigliamento con sopra lo smiley. «Nicolas Loufrani» ha scritto Smithsonian Magazine «prese l’attività di famiglia e la trasformò in un impero».

(Alberto E. Rodriguez/Getty Images))

Ancora oggi, a 76 anni, Franklin Loufrani gestisce insieme a Nicolas parte delle attività dell’azienda, che ha sede a Londra e che, come ha scritto Zachary Crockett su The Hustle, ha circa 40 dipendenti che lavorano in uffici con «smiley disegnati alle pareti, cuscini-smiley sui divani, smiley backpack, magliette con smiley, giocattoli con smiley, cioccolatini con smiley e perfino smiley-chicken nuggets». Tra gli altri, la Smiley Company ha ora accordi con Nutella, McDonald’s, Nivea e Coca-Cola. Varia molto da paese a paese e da un prodotto all’altro, ma in genere se c’è uno smiley su qualcosa e se chi ce l’ha messo paga i relativi diritti, una parte dei guadagni (talvolta anche fino al 10 per cento) va a Smiley Company.

Negli anni l’azienda ha anche dovuto gestire varie dispute e questioni legali con chi, di volta in volta, ha provato a fare una sua versione dello smiley o, in altri casi, ha sostenuto di averlo inventato prima di tutti. Negli Stati Uniti, c’è stata una causa legale tra la Smiley Company (che provò a rivendicare i diritti sul logo nel 1997, dopo l’arrivo di Nicolas Loufrani alla guida dell’azienda) e la catena di supermercati Walmart, che aveva registrato una sua versione del logo nel 1996. Si è conclusa, dopo anni e milioni di dollari spesi, con un accordo privato tra le parti.

Nel 2001, quando Bell morì a 79 anni, il New York Times lo definì «il più forte rivendicatore dell’invenzione dello smiley». Intervistato dal Telegram & Gazette suo figlio ne parlò come di una persona «non interessata ai soldi». Nel 2006, intervistato dal New York Times sull’invenzione dello smiley, Franklin Loufrani disse: «è probabile che lo inventò nella preistoria un uomo che lo disegnò in qualche grotta, ma io fui il primo a registrare il marchio, e quando parliamo di sfruttamento commerciale, questo è quel che conta». Loufrani sminuì inoltre il segno : ) dicendo che era «solo punteggiatura», mentre suo figlio lo paragonò a Hello Kitty, aggiungendo però che secondo lui c’era una grossa differenza: «a differenza di Hello Kitty noi abbiamo una chiara missione, lo smiley è il marchio della felicità».

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Forse, però, il successo dello smiley sta nel suo essere un simbolo sintetico e soprattutto duttile, che si può prestare a usi e contesti parecchio diversi. Dave Gibbons, fumettista che disegnò Watchmen – in cui lo smiley, spesso insanguinato, è un’immagine ricorrente – disse: «è un campo giallo con tre segni sopra, non potrebbe essere più semplice, fino a essere vuoto. È quindi in attesa di significati: se lo metti in un asilo, ci sta bene; ma puoi anche metterlo sulla maschera antigas di un poliziotto in tenuta antisommossa, e farlo diventare qualcosa di completamente diverso».

(Michael Ciaglo/Getty Images)